Il capitano e il medico

“È ora che tiriate fuori le palle”, disse il vecchio capitano con il suo consueto stile. Forse voleva spronare i compagni ad osare di più. O forse era l’ennesimo gioco di prestigio per farsi affidare nuovamente le chiavi del centrocampo. Tiri il fazzoletto e sotto c’è la carta che il mago aveva in precedenza consegnato ad uno spettatore e che la vittima del trucco pensa di avere scelto, mentre è il mago ad averla scelta per lui. La furbizia dietro la premura da chioccia.
Fatto sta che i ragazzi lo presero in parola e, per prima cosa, mandarono affanculo lui e la sua spocchia da primo della classe.
Il capitano non la prese bene. Non riusciva ad accettare l’idea di non essere più indispensabile. Ma il medico gli andò subito incontro, prescrivendogli la terapia prevista per quel tipo di patologia: impacchi di ghiaccio, venti minuti sì, dieci no, più volte al giorno, fino alla scomparsa dei sintomi più fastidiosi.
La squadra si iscrisse al campionato e, tra lo stupore generale, lo vinse, sbaragliando avversari navigati, che in precedenza avevano vinto a mani basse e contro avversari blasonati, vecchio capitano in testa. Ma la palla è rotonda, non può mai sapersi verso quale direzione rotolerà. Soltanto il vecchio capitano aveva intuito qualcosa, quando ormai era troppo tardi.

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Bentornato, Salvatore

Domenica mattina, Sant’Eufemia si è svegliata con una di quelle paure che prendono allo stomaco e non si riescono a scacciare: “Salvatore si è perso”.
Dal giorno prima non si avevano notizie di uno dei personaggi più caratteristici del paese, grande amico dei cani, raccattapalle al campo sportivo e tutta una serie di altre cose che spingono gli eufemiesi ad un moto di naturale simpatia nei confronti di questa mascotte quarantenne.
Proprio il giorno della sua scomparsa ero passato da casa sua per chiedergli se fosse interessato ai tre cagnolini che avevo trovato, ma non c’era. Cosa non inusuale, alla quale non avevo dato alcuna importanza. In serata si era però sparsa la voce che si era smarrito nell’area attorno alla diga del Menta, dove si era recato, presumibilmente per pescare trote, con altre due persone che poi avevano dato l’annuncio della sua scomparsa: per qualche motivo si era allontanato dagli altri, che non erano più riusciti a rintracciarlo.
Salvatore lo conosciamo tutti: è capace di uscire indenne dall’inferno. Il timore che molti avevamo non era dovuto tanto alla nottata trascorsa all’addiaccio, quanto all’eventualità che potesse essersi ferito cadendo in qualche burrone. Perdersi no: eravamo sicuri che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe seguito il corso della fiumara fino al mare. Da qualche parte sarebbe spuntato.
Di primo mattino, però, in paese ancora non si avevano novità. E la preoccupazione aumentava, nonostante l’impegno degli uomini del soccorso alpino della finanza, del corpo forestale, dei vigili del fuoco, dei carabinieri e di qualche volontario che conosce la montagna palmo per palmo. Alla fine, come ha poi candidamente dichiarato, Salvatore ha trovato loro. Scavando con le mani, aveva allargato una fossa naturale accanto alla fiumara e lì aveva passato la notte, fino a quando non si era alzato per dirigersi verso i soccorritori che lo stavano cercando. Solo uno spavento, quindi, più per noi che per lui. Appena rientrato in paese, la sua abitazione è diventata la meta di tantissima gente che ha voluto esprimere il proprio affetto e che ha tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Subito dopo, era già fuori per riprendere la sua vita di sempre.
Bentornato, Salvatore.

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Diario di un elettore

Ritrovatasi tra le mani una settimana di ferie coincidente proprio con le elezioni, a distanza di anni Mario ha potuto rivivere un ricordo per lui ormai lontanissimo. Queste di seguito, tra il serio e il faceto, sono le sue impressioni.

Grazie a Dio per le elezioni! La mattina di Lunedì 7 maggio ’12 sono arrivato a Sant’Eufemia da Londra per trovare un paese in subbuglio. Del torpore caratteristico della nostra ridente cittadina non ve ne era nemmeno l’ombra. C’era invece un insolito via vai di gente per le vie del paese, non solo in macchina. La vista dei sostenitori delle liste fare setaccio a tappeto e poi accompagnare, scheda in mano, ignari anziani al seggio elettorale, mi crea sempre un sottile piacere, perché evidenzia non solo la disperazione dei beceri ma anche che si è arrivati alla frutta, con buona pace della morale.

Mi si dice che mezzo paese ha mangiato gratis. Pare che la tortuosa strada verso il potere municipale dalle nostre parti passi da mega abbuffate seguite da litri di effervescente Brioschi e rutto libero. A saperlo venivo due o tre giorni prima ed un boccone magari lo rimediavo pure io, anche se sembra che mio fratello il Dottore fosse schierato e ciò avrebbe di fatto limitato il mio campo d’azione. Ma poi il voto è segreto, che ne sa lui o il resto del paese per chi voto? Io non mi fiderei di nessuno, soprattutto di parenti e familiari. Infatti, il sospetto sembrava regnare sovrano fuori tutti i seggi elettorali, dove persone riunite in piccoli gruppi tenevano sott’occhio l’uno e l’altro con fare da cecchino e sorrisi e facce tirate. C’era gente pure sui tetti, cannocchiale al collo e camera accesa. Ne deduco che qualcuno assistesse ad un live streaming del tutto, utile per gli exit poll pomeridiani e per decidere se scappare coi favori del buio o, in barba all’etica, saltare dalla nave che affonda prima degli altri: un po’ come un ratto qualunque o il capitano della Concordia.

La mia apparizione con tanto di passaporto ai locali del liceo scientifico ha creato un po’ di confusione. Un fantasma avrebbe suscitato meno spavento. Chi presiedeva il seggio non era preparato psicologicamente alla mia materializzazione dall’estero. Mio fratello il Dottore mi seguiva da vicino. La cosa ha aiutato a chiarire la mia discendenza più del mio passaporto, ed ha sicuramente facilitato ad intuire la direzione del mio voto. Si dice che sia arrivato in paese con tanto di biglietto pagato da uno dei candidati, e forse è vero! La mia tessera elettorale era vergine, perché essendo via da 15 anni, in paese non avevo mai votato. Il mio è stato il voto che non ti aspettavi, il Bulgaro indigeno di Sant’Eufemia.

Una volta da solo in cabina elettorale ho scelto semplicemente il gruppo al quale mi sento più vicino per questioni di età e per tutta una serie di altre ragioni, più o meno politiche. Ho preferito l’inesperienza di un sindaco nuovo, perché come uno che si è fatto da solo, so che ciò che conta è l’entusiasmo e la voglia di fare e migliorare, perché il resto lo si apprende sul campo con applicazione ed impegno. Chi ho votato è gente che conosco, che stimo, con la quale sono cresciuto e con cui ho giocato a calcio da bambino e da ragazzo. Ho votato persone che lottano sino all’ultimo pallone al di là del risultato e spero, per quello che rimane sempre il mio paese, di non essermi sbagliato.

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Raccolta differenziata

Come tutti i giorni, stamattina sono uscito per differenziare il vetro, un’operazione che faccio con molto piacere, più del cartone o della plastica. Non conosco il motivo, sarà la campana verde a mettermi allegria, ma in casa (e soprattutto al bar di mio padre) l’addetto al vetro sono io sin da quando i contenitori per la raccolta sono stati distribuiti un po’ in tutto il paese. In realtà, il servizio non è eccellente: qualche campana è rotta e diverse sono stracolme. Non si sa da quanto tempo non vengono svuotate, per cui trovarne di utilizzabili è un’impresa. Attualmente mi servo di quella situata in contrada Giardinello, l’unica usufruibile nel rione Pezzagrande. Stamattina ho però trovato una sorpresa, anzi tre. Proprio dietro la campana.

Tre piccolissimi cuccioli di cane che qualcuno aveva abbandonato dentro una scatola di cartone. Gli occhi ancora chiusi, uno addosso agli altri, come per riscaldarsi. Li ho portati a casa e li ho affidati alle cure di mia mamma, che ha provveduto immediatamente a dare loro del latte con una siringa. Nel frattempo ho cercato di vedere a chi poterli affidare.

Mi sono quindi rivolto al Corpo Forestale dello Stato, che mi ha messo in contatto con una gentilissima signora di Palmi, Maria Saccà, una volontaria dell’ENPA (Ente nazionale protezione animali), alla quale ho nel pomeriggio affidato i tre cuccioli. Lei dice che stanno bene e che ce la faranno. Se qualcuno fosse interessato, può recarsi in contrada Fracà, a Palmi (o contattare me). La cosa importante è che i piccoli sono in buone mani, saranno allevati con cura e tra circa due mesi, muniti di microchip, verranno dati in affido (dopo un periodo di prova) a chi ne farà richiesta.

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La lezione del voto

Il dato più significativo delle elezioni comunali a Sant’Eufemia è la sconfitta di una prassi politica che con la politica, a dire il vero, ha poco da spartire. Colpa della scomparsa di quei partiti che facevano formazione dentro le sezioni, certo, ma è storia risaputa da quasi due decenni e vale per tutta la Penisola. Si è ritornati ai comitati elettorali ottocenteschi, con i “grandi elettori” di questo o quel candidato che si ritrovano alla vigilia della convocazione dei comizi per la pianificazione della campagna elettorale. Spinti da motivazioni più o meno nobili, sostenitori e componenti di una lista hanno discrete probabilità di proseguire nella collaborazione in caso di affermazione, mentre la sconfitta, solitamente, determina un rompete le righe generale. Esito prevedibile quando l’unico collante di aggregazioni estemporanee è la possibilità di una vittoria che determinerà la gestione di un minimo di potere o il saldo di qualche cambiale sottoscritta prima del voto.

L’assenza di politica è il primo male della politica. Detta così, è un’affermazione che sta tra Lapalisse e Catalano, ma tant’è. Non è nostalgia per le Frattocchie o per le palestre politiche dei partiti della Prima Repubblica, ma la disaffezione crescente ha una ragione non irrilevante proprio nella strumentalità dell’approccio elettorale. Se il solco tra politica e società civile si accentua progressivamente, è logico e per nulla sorprendente il rigetto nei confronti del politico di professione e di coloro che si presentano come alieni ad un elettorato già di suo irritato. Il retro della medaglia raffigura invece una politica ridotta a favore, clientela, capacità di aggregare nuclei familiari dall’ampio serbatoio elettorale indipendentemente dal merito della proposta programmatica. È questo il circolo vizioso che andrebbe spezzato. Impresa più che ardua, in realtà caratterizzate da un drammatico bisogno di occupazione, che può su ogni altro tipo di considerazione, anche sull’umiliazione subita da chi non ha altra possibilità della speranza che, “chissà, magari stavolta manterrà”.

Le elezioni amministrative eufemiesi forniscono un ulteriore elemento di analisi sul quale, chiunque si occupi di politica, dovrebbe seriamente riflettere. È stata la reazione nei confronti di un modus operandi indisponente. L’atteggiamento di chi si considera il padrone assoluto della volontà popolare e non il curatore di un bene che va gestito con umiltà e restituito al legittimo proprietario. Le votazioni danno e tolgono. L’esercizio del diritto di voto è l’espressione più alta della democrazia, non una stanca liturgia: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, recita non a caso il primo articolo della nostra Costituzione.

Ha vinto Mimmo Creazzo, ma i due grandi sconfitti sono i protagonisti dell’ultimo ventennio politico cittadino, l’assessore regionale pidiellino Luigi Fedele e il sindaco uscente Enzo Saccà. Il primo sconfitto nelle urne, dopo avere riproposto la candidatura a sindaco del fratello Giovanni, già battuto una prima volta nel 2007 proprio da Saccà. Il secondo addirittura incapace di mettere insieme una propria lista, nonostante un flebile tentativo sfumato nel giro di due settimane. Vicende simili, sottostanti entrambe all’idea presuntuosa del “dopo di me il diluvio”. È invece evidente che non esiste uno “scettro” (abbiamo dovuto ascoltare anche questo, rabbrividendo) da tramandare a mo’ di stecca militare. Né è possibile calpestare i principi elementari del confronto democratico e della dialettica politica, nell’antistorico tentativo di riproporre inaccettabili logiche da investitura medievale. Una lezione sulla quale tutti dovrebbero meditare.

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Un nuovo genere cinematografico: la fantastoria all’italiana

E ora? Ora che il tribunale di Milano ha stabilito che la tesi della doppia bomba a piazza Fontana è una panzana alla quale non occorre dare alcun credito, come la mettiamo?
Ma come può essersi imbarcato in un’operazione così azzardata e discutibile il regista che ha diretto I cento passi? Il film di Marco Tullio Giordana sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura non era ancora uscito nelle sale che già era volato qualche fischio di disapprovazione. E non in nome dell’italica usanza a criticare un film “senza prima di vederlo”, bensì per la bocciatura che in precedenza aveva ricevuto il libro dal quale Romanzo di una strage è liberamente tratto: Il segreto di piazza Fontana, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli.

Sulla vicenda di piazza Fontana, come su quella, più complessiva, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e degli anni di piombo, la verità storica presenta pochissimi aloni di mistero. Già nel 1974 (“Cos’è un golpe?”, articolo pubblicato sul Corriere della Sera e l’anno successivo inserito tra gli Scritti corsari proprio con il titolo utilizzato da Giordana per il suo film), Pier Paolo Pasolini aveva fatto vibrare alto il suo “io so”, nonostante l’impotenza dell’intellettuale “che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”, ma che in definitiva deve ammettere: “io so, ma non ho le prove”.
È sulla verità giudiziaria che lo Stato ha puntualmente fallito, nel solco di una tradizione avviata con la nascita stessa della democrazia in Italia, un filo rosso che lega Portella della Ginestra ai misteri dei nostri giorni.
Responsabili della strage del 12 dicembre 1969 (il giorno della “perdita dell’innocenza”) sono i neofascisti di Ordine Nuovo, i servizi segreti deviati e apparati dello Stato che intendevano alzare la tensione per provocare una svolta autoritaria nel Paese. C’è poco da aggiungere a quanto, oltre venti anni fa, Sergio Zavoli aveva fatto emergere nella trasmissione Rai La notte della Repubblica. Il ruolo di Franco Freda e Giovanni Ventura, il gruppo dei fascisti padovani, i servizi segreti e i depistaggi delle indagini, che determinarono la condanna di esponenti apicali del SID.

La tesi della doppia bomba finisce così nella spazzatura, accompagnata da un giudizio lapidario: “assoluta inverosimiglianza”. D’altronde, una teoria che prevedeva la presenza di due bombe (una dimostrativa, che doveva esplodere a banca chiusa; l’altra “vera”, piazzata invece proprio per fare morti) ha qualcosa di incredibile, illogico, per nulla convincente già d’istinto.
Difficilmente sarà fatta giustizia per 17 vittime, 88 feriti e centinaia di parenti che ancora convivono con quel ricordo doloroso. All’amarezza e alla rabbia per il trattamento disinvolto e leggero riservato alla verità, si aggiunge anche il senso di beffa per un film che ha avuto un clamoroso battage pubblicitario, che è stato distribuito a tappeto nelle sale di tutta Italia e che approderà sugli schermi televisivi. Una seria riflessione su cinema ed etica dovrebbe chiarire fin dove ci si può spingere quando si ricostruisce “liberamente” una vicenda storica che è una ferita ancora aperta. Alla luce delle parole della procura milanese, sarebbe forse il caso di trasmettere il film con il sottopancia “la tesi della doppia bomba è stata giudicata inverosimile”.

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25 aprile, per non dimenticare

La Resistenza e la Liberazione sono nella dignità delle parole con cui Sandro Pertini, il 23 febbraio 1933, si dissocia dalla domanda di grazia presentata dalla madre al Tribunale Speciale:

La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente.

Non mi associo dunque a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme.

Il recluso politico

Sandro Pertini

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Giù le mani da Guccini

Roma è stata imbrattata con manifesti dedicati “Ai ragazzi di Salò” che riportano le parole della canzone con la quale Francesco Guccini, da quarant’anni, chiude ogni suo concerto, La locomotiva (album: Radici, 1972): “gli eroi son tutti giovani e belli”.
Il cantautore di Pavana, giustamente, non l’ha presa bene: “non solo la mia canzone La locomotiva non è stata compresa, direi che è stata davvero maltrattata”. La storia, ormai celebre, è quella di un anarchico bolognese vissuto alla fine dell’Ottocento.
Associare quella vicenda alla Repubblica di Salò è una bestemmia storica e un’operazione culturalmente disonesta. Non bisogna mai stancarsi di alcune puntualizzazioni, che diventano doverose per non correre il rischio che il trascorrere degli anni appanni una verità che va custodita e tramandata intatta, in tutta la sua grandezza.

Va bene la pietas per i morti, per tutti coloro che hanno perso la vita nel corso della guerra civile. Ma bisogna ribadire con forza che tra il 1943 e il 1945 c’erano italiani che lottavano per la libertà e italiani che difendevano il nazifascismo.
La vittoria del fronte della Resistenza ha portato la democrazia. Quella dei repubblichini avrebbe trasformato l’Italia in un immenso campo di concentramento.
L’equazione partigiani = repubblichini, brillante trovata di Luciano Violante ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa, è soltanto un’inaccettabile mistificazione storica.

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Le comiche finali

Confesso che mi mancava. Se ci pensate, c’è una tristezza in giro che non se ne può più. Gente che non arriva a fine mese, padri di famiglia disperati, disoccupati che vedono soltanto buio pesto nel loro futuro.
E poi questa classe dirigente grigia, triste, vecchia. Un governo di professori, una roba di una noia mortale. Niente a che vedere con lo spettacolo al quale ci aveva abituato Berlusconi in questi ultimi anni. Ma sì, c’è crisi, i consumi si contraggono, ci stanno tartassando di tasse. Ma con lui era diverso. Leggi ad personam, personaggi come Calderoli (quoque tu, “a tua insaputa”), Santanché, Rotondi e compagnia danzante accomodati sulle poltrone governative, fenomeni tirati su direttamente dal limbo, olgettine, meteorine, escort e festini. Tarantini, Fede, Minetti, Mora, Lavitola. Chi non vorrebbe avere amici così? Gente che sa come tirarti su. In ogni senso. Insomma, il divertimento era assicurato. E se un fisiologico calo delle performance faceva inclinare a languore, interveniva lui in prima persona. Bastava una bandana, un “cucù” ad Angela Merkel, una barzelletta sessista ben assestata, un “credevo che fosse la nipote di Mubarak” e tutto tornava nell’ordine naturale delle cose.
Ora no. Non si ride più. Giornate intere senza uno sprazzo, un sorriso, un diversivo. Fino a ieri, il momento del grande ritorno. Uno capace di scomparire per mesi, di essere politicamente agonizzante, che riemerge dall’ombra in cui era stato confinato e guadagna la scena travolgendo tutto e tutti, non facendo parlare di niente altro che di sé, è un fenomeno da applaudire. Altro che la più grande novità politica dal 1994, annunciata da Alfano. La più grande novità rimane sempre lui. L’unico capace di risollevare il morale degli italiani, con parole che soltanto un genio può pensare e pronunciare con una naturalezza del genere. Come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo: “facevano delle gare di burlesque”. Dita Von Teese nostrane. Come avevamo fatto a non immaginarlo?
Diventa comprensibile un solo, grande rimpianto: avevamo in casa il più grande talento comico del mondo e gli abbiamo tarpato le ali facendolo diventare presidente del consiglio.

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Tempo scaduto

A volte sembra davvero di stare sul Titanic. La nave sta affondando e l’orchestra continua a suonare imperterrita e ad invitare al ballo, come se niente fosse, senza riuscire a rendersi conto che il tempo è scaduto.
La riforma del finanziamento pubblico dei partiti è diventata la questione centrale del dibattito politico, in questi ultimi giorni. Colpa – anzi, merito – degli scandali che hanno coinvolto l’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e quello della Lega, Francesco Belsito. La campagna del Corriere della Sera su “politica e trasparenza” cavalca il malcontento (eufemismo) popolare, ricordando in prima pagina i giorni trascorsi dall’impegno dei presidenti delle Camere “per la riforma del finanziamento ai partiti”. E se un giornale solitamente sobrio come il quotidiano di via Solferino comincia a svestire i panni di vigile del fuoco, vuol dire che qualcosa è cambiato anche nell’umore di quel vasto strato di popolazione – moderata, non certo antagonista – che ha guardato con fiducia alla costituzione del governo Monti. La classe politica, more solito, si è chiusa a riccio. Non contenta di avere tradito (usiamo le parole, visto che ci sono) la volontà popolare, che con una maggioranza bulgara (90,3% di Sì) nel 1993 aveva abolito il finanziamento pubblico ai partiti, facendo rientrare dalla finestra, sotto forma di “rimborsi elettorali”, quel che aveva fatto uscire dalla porta, tira fuori le unghie e si arrocca in difesa.
Il pericolo mortale per la democrazia, par di capire, è l’antipolitica. Verissimo. Ma quali sono i confini esatti della demagogia? Quelli stabiliti dagli attuali famelici partiti? Ha cominciato il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “l’onda dell’antipolitica rischia di travolgere tutti”. A ruota, i partiti che sostengono l’attuale maggioranza, con la posizione “ufficiale” contenuta nella relazione alla proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti: “cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico”. Buon ultimo, è arrivato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tutti d’accordo, sulla base di una motivazione pelosetta: altrimenti, “si escludono dalla politica quelli che non hanno soldi”. A parte il fatto che i casi di arricchimento personale verificatisi con i “rimborsi elettorali” non hanno precedenti storici, va detto che la selezione della classe politica segue ormai logiche arcinote. Non è più, per niente, questione di avere una possibilità. Se non fai parte di un certo giro, se non sei tra i favoriti della ristretta oligarchia che nomina deputati e senatori, sei tagliato fuori. E qua sta il vero problema. Quello di una riforma elettorale che tutti, a parole, auspicano, ma che si è sostanzialmente arenata tra le stanze del Parlamento. La classe politica fa finta di non capire che se non restituirà al popolo il potere di scegliersi propri rappresentanti, espone al rischio di implosione l’intero sistema.
Quella che chiamano antipolitica è la manifestazione più evidente, invece, del bisogno di politica. Politica è anche l’urgenza di pulizia e di moralità. L’unico aspetto positivo della legge in discussione, per alcuni, è la previsione di controlli esterni sui bilanci. Cosa che, in realtà, dovrebbe indurre ad un’ulteriore riflessione. Possibile che senza il carabiniere o il finanziere diventi utopia il rispetto della legge? Possibile che i partiti non riescano a darsi un codice di autoregolamentazione serio e a farlo rispettare mediante gli organismi di controllo che i loro statuti pure prevedono, proprio per questo scopo? Tangentopoli non è un ricordo lontano. La situazione attuale ne è la continuazione su di un piano ancora più basso. Perché se là (“rubavo per il partito”) c’era il tentativo di giustificare i costi del sistema dei partiti, qua siamo all’arricchimento individuale, alla casta che si nutre del sangue dei contribuenti per perpetuarsi, sorda e indifferente al “grido di dolore” che sale dalla società.

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