La nevicata del ’15

«Nesci fora, miserabili!».

A oltre vent’anni di distanza sembra di sentirle ancora le parole di sfida di compare ’Ntoni Garzo al nipote Salvatore, tuffatosi letteralmente sotto il lettone dei nonni una volta scoperto del tentativo di sottrarre furtivamente dal comodino le chiavi della Panda 4×4 protagonista dei nostri testacoda notturni sulle strade innevate dei primi anni ’90. Perché la gente mormorava anche allora e all’orecchio del quasi ottantenne vucceri in pensione, ma vecchio uomo di mondo, la soffiata era arrivata tempestiva e a niente era servita l’accortezza che usavamo nel ripassare la macchina con la pelle di daino per asciugarla, prima di richiuderla nel garage.

Ho pensato a ’Ntoni Garzo stamattina, forse perché anche quella volta – come oggi – percorsi a piedi le strade del paese e in piazza mi fermai a parlare proprio con lui, personaggio mitico e simpaticissimo che noi ragazzi adoravamo, ricambiati. Se scalo ulteriormente la montagna dei ricordi rivedo invece mio fratello Mario mingherlino, incantato dal librare lieve e muto dei fiocchi e con il naso attaccato alla finestra per tutta la notte, che di primo mattino salta fuori per andare a scattare fotografie, “prima che la neve venga calpestata”.

È quello che ho cercato di fare, che molti altri come me hanno fatto, perché una nevicata così non capitava da anni e ora chissà quando ricapiterà. Ho mangiato neve e succhiato ghiaccioli, come in quel tempo lontano che di colpo si è ripresentato lungo le stradine solitarie dei Candilisi e di Crasta, nei tornanti che si arrampicano fino alla Campagnola.

E pazienza se l’incanto è durato poco: troppe jeep, molti piloti scatenati su macchine trasformate in spazzaneve, tanto che verrebbe da invocare un divieto di circolazione su mezzi a motore per “ragioni di poesia”, per non avere altra compagnia che il crocchiare della neve sotto gli scarponi, restare a guardare i merli grassi volare da un ramo all’altro, farsi illudere dal canto libero della fiumara che si gonfia e allunga il passo per giungere a valle.

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“U Burgu” in fiamme

Ninuzzo è un dodicenne vivace, che non sta fermo un secondo neanche a tenerlo legato. Sempre in giro ad armari chiacchi per le lucertole che, una volta catturate, si diverte a portare al guinzaglio. Un paio di scarpe con le ttacce che spesso toglie perché gli sono d’impaccio quando deve correre veloce per portare in salvo la frutta rubata negli orti che fanno da corona al centro abitato. Pantaloni di tarpa e maglie grosse anche d’estate: è importante essere preparati ad affrontare il freddo, quando arriverà; alla calura si può sempre ovviare rinfrescandosi con l’acqua del gurnali a Crasta tra rane, bisce, trote.
Gli piacciono gli animali, nel 1902 ce ne sono ovunque a Sant’Eufemia. Cani e gatti per strada, galline, capre da mungere ogni mattina per la colazione e le famiglie più fortunate anche il mulo nel pianterreno; in quello di sopra ci si stringe alla meglio, sei-sette ma anche di più tra adulti, bambini e anziani. L’acqua viene versata dalle bumbule riempite nelle fontane pubbliche, per il bucato si utilizzano i lavatoi di Diambra o della Nucarabella.
La sua passione sono i gatti, se ne trovano in quasi tutte le case. Vivono tra il fieno del basso e fanno da guardia alle scorte alimentari esposte alla costante minaccia dei topi. Da un po’ di tempo un pensiero occupa la sua mente dalla mattina alla sera: controllare se i gattini nati da qualche giorno stanno bene. Ogni paio d’ore afferra la lampada a petrolio e va a scovare il rifugio che mamma gatta ha rimediato in un angolo del deposito dell’abitazione in cui vive, nel rione “Borgo”.
Sono appena trascorse le tredici del 18 settembre, due giorni prima ci sono stati i festeggiamenti in onore della santa patrona: Ninuzzo appoggia a terra il lume e accade l’irreparabile. Una favilla schizza sul fieno, che prende fuoco. Quando il ragazzino se ne accorge è troppo tardi, o forse non fa neanche in tempo a comprendere quello che sta accadendo. Può darsi che la scintilla abbia portato a termine il suo tragico lavoro in un secondo momento. Con Ninuzzo già lontano. Il rapporto trasmesso al prefetto di Reggio Calabria su questo punto non è chiaro. Fatto sta che l’incendio si sviluppa rapido e le fiamme, alimentate dallo scirocco, si propagano nelle case vicine, “costituite da quattro muri perimetrali in muratura e da vari tramezzi ed impalcature in legname”. La maggior parte sono vuote perché i proprietari sono contadini impegnati nel lavoro dei campi. Proprio per questo non ci saranno vittime, ma proprio per questo l’incendio divamperà violentissimo. Due donne lanciano l’allarme, subito dopo accorrono sul posto il brigadiere e due carabinieri. Quindi si precipitano tra le viuzze del “Borgo” le autorità locali, le guardie municipali e quelle campestri, volontari giunti d’un fiato persino dalla vicina Sinopoli, allarmati dallo spettacolo drammatico delle lingue di fuoco altissime contro il cielo cobalto. Nel volgere di quattro interminabili ore l’incendio viene circoscritto, alle 21.10 al prefetto viene comunicato che le fiamme sono state finalmente domate. I soccorritori riprendono a respirare, si passano stracci bagnati a togliere cenere e fumo incrostati dai visi stanchi, si lasciano cadere a terra come in una liberazione, vinti dall’emozione e dalla fatica.
Il bollettino finale è da guerra: 7.500 metri quadrati di area urbana devastati dalle fiamme, 126 case distrutte completamente e 11 parzialmente, quasi 500 cittadini senza un tetto sotto il quale ripararsi, 141 nominativi inseriti nell’elenco delle persone danneggiate. Il presidente del consiglio provinciale, l’eufemiese Michele Fimmanò, denuncia danni per duecentomila lire, anche se il sottoprefetto di Palmi dimezza la stima della somma necessaria per coprire i costi di ricostruzione delle abitazioni e risarcire il danno per la perdita delle derrate.

Le vittime trovano ospitalità nei locali delle scuole e nelle chiese, dalla seconda notte nelle tende da campo montate dai militari dell’esercito, infine in abitazioni messe a disposizione dall’amministrazione comunale, che provvede al pagamento dell’affitto e alla distribuzione di buoni spesa per pane e pasta. Nell’immediato servono almeno 5.000 lire. Il ministero dell’Interno stanzia 1.600 lire di sussidi (più ulteriori 900 a distanza di poco tempo), altre 2.000 le invia il re d’Italia Vittorio Emanuele III affinché siano distribuite “fra gli abitanti più bisognosi”, circa 1.000 vengono invece raccolte grazie alle sottoscrizioni del “Comitato provinciale di soccorso”, composto dalle personalità più rappresentative della provincia: il consigliere di prefettura Alfredo Pacetti (delegato del prefetto), il deputato nazionale Giuseppe De Nava, il presidente del consiglio provinciale Michele Fimmanò, il presidente della deputazione provinciale Francesco Carlizzi, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Carbone, il sindaco di Sant’Eufemia Francesco Capoferro, il presidente della Camera di Commercio Giuseppe Spinelli, il direttore della succursale della Banca d’Italia Tranquillino Squillace, il direttore del Banco di Napoli.

Come spesso accade quando la sventura si accanisce contro una comunità, si mette in moto una gara di solidarietà che tuttavia non riesce ad alleviare i disagi della popolazione colpita dal disastro. A un anno di distanza il sindaco di Sant’Eufemia è infatti costretto a richiedere al ministero dei Lavori Pubblici l’invio di un ingegnere del genio civile, affinché accerti definitivamente il danno patito dalle vittime dell’incendio e proceda alla redazione del progetto di ricostruzione di circa ottanta case, mentre ancora nell’estate del 1904 definisce insufficiente la raccolta di fondi per la ricostruzione del quartiere raso al suolo dal fuoco.

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Don Beniamino

Mi vuole bene don Beniamino. Mi vuole bene perché sono la cassaforte dei suoi piccoli peccati. Cose veniali, niente a che vedere con le pallottole calibro 38 che ogni tanto vende a chi non dovrebbe. Per quieto vivere, perché non smania di mettersi contro certi pezzi di malacarne del paese. Avrebbe solo da rimetterci: la vetrata dell’armeria o le gomme della sua Vespa. Chi glielo fa fare? Tanto lo sa che quelli sparano solo per uccidere l’anno vecchio – che mai si comporta bene, mai – e per presentarsi com’e cristiani a quello che inizia. Affinché il nuovo si sappia regolare. E poi, di questi tempi la modernità di giovani senza educazione consiglia la riserva di una buona scorta di munizioni: per ribadire le gerarchie del rispetto, se necessario. Ma qua siamo a posto, non abbiamo di questi problemi. Ognuno fa il suo e non disturba gli altri.
Mi sono inventato il lavoro investendo qualche soldo di famiglia per acquistare la macchina dei miei sogni, una Fiat 1100 solida come un carrarmato. Mi chiamano piede amaro proprio per lei, l’auto che al cinema di Mico “il vichingo” ho visto guidata da Nino Manfredi. Resto parcheggiato tutto il giorno in piazza, scambio con gli amici parole, risate, imprecazioni per la Sisal sfuggita d’un soffio – ma la prossima volta non mi frega – e aspetto che qualcuno mi chieda di essere portato a Palmi, Bagnara o Reggio. Perlopiù faccende di ospedali e medici, avvocati e tribunali.
La piazza ha la vivacità lenta dei paesini di montagna. Di domenica diventa però un formicaio umano che rimbalza da una bancarella all’altra, occhi clandestini che dal muretto accarezzano morbidi fianchi distanti, apparentemente rapiti dai fichi d’india che le mani esperte della vagnarota sfilano dai còfani del mulo, sbucciano e porgono a ragazzi voraci, dieci lire ogni quattro frutti, fino a vuotarli.
Don Beniamino spunta dall’angolo del bar, saluta gli amici alle prese col tressette tra i tavoli che attraversa allegro, una pacca qua e una là, apre il sorriso e mi dà appuntamento per il pomeriggio: «Più tardi andiamo a bere un buon caffè».
Il caffè di don Beniamino “dura” almeno cinque ore. Un tempo sospeso tra i tornanti che lenti scivolano fino a Bagnara, alle spalle la mano protettiva dell’Aspromonte ad accarezzare il nostro cammino, di fronte lo Stromboli piantato sull’orlo del mare, nel punto in cui l’acqua si confonde con il cielo. Quindi di corsa verso Scilla, da superare a tutto gas come per sfuggire al latrato dei sei cani del mostro; infine Villa San Giovanni con i suoi fazzoletti di saluto per le fughe di vite dal finale altrimenti prevedibile, che sarà invece riscritto nelle Americhe o in Australia.
Al rientro, sul traghetto, don Beniamino si fa sempre incartare per la moglie un paio di arancini. Non le “arancine” della tradizione palermitana: l’aranciu è maschio, non femmina. E pazienza se nella “scuola” messinese hanno la forma conica della pera, non quella rotonda dell’arancia.
All’andata non consuma niente, concentrato com’è a pregustare con la mente l’aroma che inebrierà le sue narici al tavolino del bar “Irrera”, non appena sarà svanita l’estasi di un cannolo gigante. Vada a farsi fottere la glicemia alta: l’avrebbe detto pure Seneca duemila anni fa, che però giustificava un solo colpo di pazzia all’anno, non la puntualità settimanale di don Beniamino.
Peccati dolci come la crema di ricotta e le ciliegine candite che il mare di mezzo assolve, collocandoli in una realtà parallela, foderata con la carta da parati delle stanze dell’albergo “Monza” o “Del Sole”, dove don Beniamino s’intrattiene per placare bollori non ancora attenuati dall’incedere dell’età, mentre io inganno l’attesa davanti alle vetrine del viale San Martino.

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Giancarlo e Antonia, o dell’opportunità di diffondere immagini che commuovono il web

Un ragazzo che tiene sulle ginocchia la nonna ottantasettenne affetta da Alzheimer, abbracciandola come se la stesse cullando, un commento postato da Gioia Tauro un’ora dopo la mezzanotte di capodanno: “Anche questo è amore… non è stato il 31 dicembre migliore della mia vita forse… ma anche questo fa parte della vita… una volta mi tenevi tu sulle tue gambe adesso lo faccio io nonnina, senza vergogna e senza timore… per ricordare a tutti che la vita va vissuta e va combattuta… è facile scrivere parole su Facebook o altro… nella vita si deve essere presenti sempre e comunque… questo è il mio augurio per il 2015, la presenza di qualcuno accanto che ci possa proteggere e confortare ma anche essere felice e sorridente con noi”.

Sono loro i protagonisti della prima fotografia virale del 2015: “l’immagine che fa commuovere il web”. Ne parlano i giornali nazionali e la stampa straniera, in pochi giorni il post sfiora i 500.000 “mi piace”, ottiene più di 50.000 condivisioni e quasi 1.500 commenti. Commozione, dolcezza, amore in un mondo che fatica a difendere i valori autentici, semplici, che dovrebbero regolare le azioni quotidiane di ognuno di noi. I commenti parlano di buoni sentimenti e danno una spruzzata di ottimismo a questo inizio d’anno: non tutto è perduto se ancora ci sono giovani capaci di gesti d’amore come quello di Giancarlo Murisciano nei confronti della nonna Antonia.

Lo so che rischio l’impopolarità, ma la mia prima impressione non è stata questa. Riflettendo più a mente fredda ho poi pensato che forse qualche efficacia la diffusione dell’immagine potrà pure averla, che certamente il messaggio veicolato è positivo. So anche che l’impatto mediatico di una fotografia è superiore, e di molto, a quello di uno “stato” privo di immagine, contenente solo parole. Chiunque possieda un profilo Facebook può facilmente verificarlo.

Eppure non mi convince questo bisogno di rendere tutto pubblico, anche i sentimenti privati. Ha un retrogusto amaro. E non perché ciò debba per forza nascondere una forma di esibizionismo. Giancarlo ha fatto tutto con amore, non lo metto in dubbio. Però i soggetti deboli, si tratti di bambini, anziani, malati, vanno trattati con prudenza, delicatezza, pudore. Abbiamo assistito a campagne con protagonisti uomini e donne affetti da gravi patologie, volte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza di raccogliere fondi o per pretendere dalle istituzioni l’attivazione di politiche adeguate. Ma sono stati gli stessi soggetti in questione ad autorizzarne la diffusione. Nel caso di Antonia manca invece la volontà dell’anziana donna.

Sia chiaro: la preferenza per la strada della discrezione, quando si incrocia il dolore delle persone, non sottintende in me alcuno spirito polemico nei confronti di questa specifica vicenda. Nel caso dovesse un giorno capitare a me, so però che non avrei piacere a subire una decisione assunta da altri e lesiva, seppure in buona fede, del mio probabile desiderio di non mostrarmi in una condizione non rispettosa della mia dignità di uomo, quale un’immagine che rivelasse la mia incapacità di intendere e di volere.

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Il mio 2014

Non amo particolarmente i bilanci. Sanno di pannelli didattici di alcune mostre, che li leggi e cerchi di comprendere vicende e protagonisti, anche se è difficile riuscire a spiegare tutto in un paio di righe. Lo spazio a disposizione è limitato, la sintesi della didascalia dice e non dice, perché è risaputo che il diavolo si nasconde in dettagli impossibili da riportare in poche righe. Il punto di vista, poi, rimane sempre quello di chi scrive, anche se la storia è il “piatto di grano” e le mani ignote che l’hanno raccolto prima che diventasse immagine o parole cantate sbadatamente, senza prestare molta attenzione.
Fa bene chi specifica “bilancio personale”: per farne uno completo, “obiettivo”, occorrerebbe scomodare le centinaia di persone che hanno condiviso con noi gli attimi lenti e quelli veloci dell’anno appena concluso. Chiedere a loro della nostra vita. A loro che ci hanno visto vivere.
La realtà è fluida, difficilmente si lascia intrappolare in un giudizio che puoi tenere in tasca come il portachiavi da tirare fuori davanti al portone. Siamo talmente impegnati a viverla che a volte diventa dura riuscire anche a comprenderla.

Non si può tirare una riga verticale sulla pagina del 2014, mettere a sinistra le cose negative e a destra quelle positive, richiudere il foglio, riporlo nel cassetto degli anni andati e ripartire.
Quindi non farò un bilancio. Non proverò a mettere ogni cosa al suo posto, un gioco che non conosco perché so che domani potrei essere chiamato a rivedere tutto, a segnare di qua ciò che avevo collocato di là. Il presente è fatto di emozioni che nessuna tabella può contenere per sempre. Non esistono avvenimenti memorabili o da dimenticare; siamo esistiti noi in quel preciso istante, noi che già mentre leggiamo potremmo essere cambiati e provare emozioni nuove, diverse.
Esistono invece stati d’animo da difendere gelosamente, fatti di benessere interiore e coscienza a posto. Di qualche sorriso, anche. Ricevuto, donato. Di tante belle persone incontrate, con le quali è stato bello condividere parole e sentimenti, riconoscersi.

Credo in ciò che posso toccare con le mani e vedere con gli occhi. Credo nell’impegno quotidiano che pur non avendo riscontri immediati è acqua che disseta e sole che riscalda. Ognuno di noi ha impegni da onorare e responsabilità più o meno gravose. Individualmente, nelle famiglie e nella società. Il principio è giocarsi anche “l’ultimo frammento di cuore”, se si pensa che ne valga la pena. E pazienza se a volte ci si scontra con incomprensioni assurde. Pazienza se qualcuno vuole per forza scorgere nell’attività dell’altro chissà quale secondo fine; se confonde la lealtà per sudditanza; se pensa che la propria pur legittima ambizione personale possa passare come un rullo compressore sulla dignità altrui, senza innescare meccanismi istintivi di autodifesa.
È stato l’anno in cui come mai in passato sono stato a un passo dall’andare, ma dopo un paio di notti insonni ho deciso ancora una volta di restare, testardamente e convintamente.

È stato un anno che ho vissuto come ho potuto e come ho voluto, dando tutto ciò che avevo da dare. Senza rimpianti.
E quindi va bene così.

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Il Natale di solidarietà dell’Agape

Siamo contenti perché quest’anno siamo riusciti a coinvolgere nuove energie, com’era già capitato nella colonia estiva. Sabato 20 abbiamo effettuato, a gruppi, una ventina di visite domiciliari ad anziani soli o ammalati: abbiamo parlato con loro, soprattutto abbiamo ascoltato (che è la cosa che più fa piacere a chi passa da solo gran parte della sua giornata), quindi abbiamo consegnato un pensierino natalizio, che nel pomeriggio abbiamo portato anche agli ospiti della Residenza Sanitaria per Anziani “A. Messina”.

Martedì 23 ci siamo stancati e divertiti (in ogni caso più divertiti che stancati) con la “tombolata di beneficenza”: un’iniziativa molto importante per noi perché di autofinanziamento per le attività dell’associazione. La sala del ristorante “Le Macine” era pienissima e quindi siamo molto soddisfatti. Grazie a chi c’è stato e grazie a chi non c’era ma è stato lo stesso con noi e con i ragazzi che ogni anno partecipano alla colonia estiva per disabili, per lo più realizzata proprio con il ricavato della tombolata.

Mercoledì 24 abbiamo infine diviso tra due famiglie in difficoltà del paese il carrello della spesa che i nostri generosi concittadini avevano riempito nei giorni precedenti presso il Market Verdeblu.

Vorremmo fare di più, ma sappiamo di avere fatto quello che andava fatto, con le risorse che abbiamo e con l’amore che sappiamo.

Grazie a tutti

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Natale sarà

Fino a quando non ci metti piede dentro senti di essere ancora un uomo. Un uomo con la sua dignità di uomo dallo sguardo fiero e dritto. Acciaccato, ma uomo. Nonostante i colletti delle camicie graffiati dalla barba, i tacchi di gomma deformati sul bordo esterno, la tasca posteriore dei pantaloni bucata perché il portafogli si sistema sempre di traverso ed è una partita senza storia quella tra lo spigolo di finta pelle e l’angolo di stoffa nei pressi della cucitura.

Varchi quella soglia e sei un fallito. Per sempre.

Mi sono fatto forza e sono entrato. Di fretta, quasi col fiatone e con le parole che martellavano al centro del petto. Non è stato affatto semplice, no. Orgoglio, forse vergogna. Chissà che aspetto avevo mentre casualmente giravo intorno all’isolato. Avanti e indietro per un paio di giorni, aspettando che la città si distraesse. Che non badasse a me e al colletto della mia camicia spelacchiato. Con tutte le lucine che le facevano l’occhiolino, perché sembrava interessata soltanto alla mia andatura rassegnata, a questo sguardo che punta e non guarda?

Non la ricordo neanche la scritta dell’insegna. I colori, sì. Nero e giallo come la divisa del Borussia Dortmund, quelli del 3-1 alla Juve nella finale di Champions 1997. Sfondo nero e scritta gialla, a caratteri cubitali: COMPRO ORO. Sotto, qualcosa che si riferiva al pagamento: “in contanti”, “immediato”, o giù di lì.

Nel periodo di Natale la quotazione dell’oro dovrebbe salire, è bene approfittare di quei giorni per concludere un buon affare.

Credo di averla ascoltata da qualche parte questa dritta, qualcuno deve avermela soffiata come rimedio da adottare in caso di emergenza. Che puntualmente è arrivata.

Non avevo altra scelta, con il piano di rateizzazione per il pagamento della bolletta appeso all’albero come una pallina. Va bene l’affitto scaduto da mesi e mesi, bontà del proprietario della mia abitazione, ma il taglio della corrente no. Inizierò a pagare alla fine di gennaio, quattro rate mensili. Nel frattempo arriverà il primo trimestre del prossimo anno, ma che importa. Non sono nella condizione di pensare a cosa potrà accadere da qui a quattro mesi. Non so neppure se sarò ancora vivo, tra quattro mesi.

Ricordo però il sorriso dell’uomo dell’oro. Uguale a quello del mio medico da bambino, quando tentava di farmi ingoiare l’antibiotico:

È uno sciroppo buonissimo. Dolce. Non è vero che è amaro. Lo bevono tutti i bimbi che vogliono diventare imbattibili nella corsa.

Quel sorriso che non riesce affatto a nascondere il trucco. Che sa di fregatura lontano un miglio. Però non mi ha chiesto nemmeno la carta d’identità, una cortesia inconsueta che ho apprezzato. È stato come andare da una puttana senza essere riconosciuto da nessuno. Tutto sommato, va bene così.

La bilancia elettronica è stata feroce: 22 grammi. E sì che avevo rovesciato sul bancone i miei quarant’anni tradotti in oro. Battesimo, comunione, anniversari e altri eventi meritevoli di gioielli insignificanti che mai ho indossato. Non abbiamo idea di quanta vita possa contenere un sacchetto di carta per le caramelle. Pazienza se equivale a otto banconote da 50 euro e due da 20. Quel che conta è che Babbo Natale arriverà anche per i miei figli. Ci concederemo un pranzo diverso da quello striminzito che ogni tanto attendo tra un clochard e un indiano, in fila alla mensa della Caritas. Stapperemo anche lo spumante, se spumante può contenere una bottiglia prezzata 99 centesimi.
E sarà Natale anche per noi.

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Il resoconto della presentazione di Minita, a cura di Disoblio Edizioni

Il resoconto della presentazione del libro, a cura di Disoblio Edizioni.

(Per la casa originale, cliccare al seguente link: https://www.messagginellabottiglia.it/2014/12/santeufemia-daspromonte-presentato-il.html)

Si è svolta sabato 13 dicembre, presso la Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). Alla presentazione, moderata da Carmela Cutrì (Docente di Lettere presso il Liceo Scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte), sono intervenuti: Carmelo Pirrotta (Assessore alla Cultura di Sant’Eufemia d’Aspromonte), Fabio Cuzzola/Lou Palanca (Scrittore), Salvatore Bellantone (Editore), Domenico Forgione (Autore del Libro).

Carmela Cutrì ha introdotto i lavori, ricalcando come Domenico Forgione sia uno scrittore multiforme che propone in maniera avvincente una serie di racconti dotati di grande sensibilità umana. Il suo stile narrativo ricorda molto Umberto Saba, perché mette in evidenza le figure al margine della società. Come lo definisce Antonio Calabrò nella sua prefazione, l’autore è un artista del sentimento e un artigiano della speranza.

Carmelo Pirrotta ha spiegato l’importanza della presentazione di Minita per la città di Sant’Eufemia d’Aspromonte perché con questo libro Domenico Forgione ci arricchisce tutti, evidenziando come non possa esserci crescita alcuna se non attraverso la cultura e la lettura. Il suo libro sottolinea come il cambiamento provienga da ognuno di noi, con la consapevolezza di trasmettere ai più giovani dei modelli di vita sana.

Fabio Cuzzola/Lou Palanca ha spiegato come il libro di Domenico Forgione metta in risalto un nuovo genere letterario proveniente dal mondo della blogosfera e poi diventato un libro vero e proprio. Come dice Deleuze, occorre parlare al mondo e del mondo dal microcosmo da cui si proviene, senza mai dimenticare il luogo da cui si parla. La forza di Domenico Forgione è proprio questo, l’approccio meticcio alla globalità e al linguaggio. Come Anteo, l’autore è un gigante ben radicato nella propria terra, anche da un punto di vista etico, soltanto che gli dèi lo guardano solo. Parla dei vinti, dei semplici, di coloro che sembra non facciano storia invece ne sono i tasselli essenziali. Minita è un libro di resistenza contro tutte le oppressioni e un libro di radicamento alla propria terra.

Salvatore Bellantone ha chiarito come Domenico Forgione sia uno scrittore poliedrico. Come un arcobaleno, dentro di sé ha tanti di quei colori che rendono bella la sua scrittura, capace di raccontare qualsiasi cosa. Minita narra una grande trasformazione, da una vita a un’altra, in direzione di una chiara visione delle cose, nella quale tutto sarebbe diverso se ognuno di noi facesse la sua piccola parte. Il libro propone un viaggio alla scoperta della propria vera identità, coincidente con l’urgenza di non essere più così come il sistema impone con le sue mode, ideali e reali, e con i suoi strumenti di controllo e di manipolazione. Tale ritrovamento consiste nel recupero della coscienza e dello sguardo sul mondo proveniente dalla realtà in cui si è cresciuti, senza le macchie della società dei consumi, della fretta e del capitalismo. Minita è un libro di resistenza, di ribellione a tutti gli schemi manipolanti imposti dall’alto e a tutti i costumi degenerati della nostra società. Impone la fermata del tempo del potere e dell’economia, e l’accesso a un diverso tempo nel quale c’è ancora la propria unicità.

Domenico Forgione ha chiarito come Minita sia il libro più sofferto che ha scritto, perché parla di lui senza veli. Molti degli scritti presenti nel libro provengono dal blog “Messaggi nella bottiglia”, e contiene svariati racconti: giornalistici, di storia grande e piccole storie, di personaggi locali. Il libro racconta il mio ritorno a quello che ero. È un mix di cultura alta e bassa, di ironia e dramma. Ho voluto trattare dei sentimenti umani, lasciando al lettore la libertà di farsi un’idea e di ricercare le proprie citazioni che riempiono il proprio mondo. Come direbbe De André, “in ognuno brilla una goccia di splendore”. Occorre abituarsi a vedere le cose e le persone nella loro giusta dimensione ma ciò è possibile cominciando a fare qualcosa per gli altri ogni giorno. È questa la rivoluzione di cui necessitiamo, tornare al buon senso e alla responsabilità.

Accesa infine la lanterna della Disoblio, Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata irradiata dalla luce della conoscenza, un bagliore nella notte portatore di una diversa visione delle cose, incentrata nella convivenza e nella condivisione.

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Minita in libreria

Minita è stato il primo post che ho pubblicato sul blog, più di quattro anni fa. Oggi è diventato il titolo di un libro.

 

“Nei momenti di difficoltà ho sempre avuto l’abitudine – quasi un riflesso – di ascoltare canzoni che so a memoria e di scrivere. È stato per me naturale provare a riempire la sensazione di vuoto allo stomaco continuando a “tenermi impegnato” con quello che avevo sempre fatto: un po’ per pigrizia, un po’ perché Massimo Troisi aveva ragione ad obiettare che non se la sentiva di ricominciare da zero, sentendo in cuor suo che due o tre cose discrete nella vita le aveva comunque fatte. E anche se così non fosse, dedicarsi a ciò che procura serenità indubbiamente rappresenta per lo spirito un efficace ricostituente”.

[Dalla premessa]

“Il libro scorre veloce: l’ironia garbata, a volte pungente, invita al sorriso. La malinconia a tratti lacera, ma diventa piacevole nella speranza di un ricordo. Ricordando spera, e sperando ama; cesella distanze che sembrano infinite, unisce due rette con uno scherzo ben riuscito, colora ogni spazio bianco e diluisce quelli neri con una scolorina lirica frutto del suo ingegno.
Non appiattisce, anzi rimarca le differenze: si limita a svelare i trucchi disneyani di un mondo voluto a forza manicheo; suggella le enormi differenze tra gli uomini, tra tutti gli uomini, intingendo direttamente la penna nel suo cuore messo a nudo: non ci sono buoni e cattivi, ci sono fatti, circostanze, e persone che si trovano nella mischia, a volte senza neanche uno scudo per difendersi. La realtà è così complessa che vale la pena di essere vissuta, canticchiando Because The Night e gustando U Mangiari i San Giuseppi”.

[Dalla prefazione di Antonio Calabrò]

“E allora vedremo la bellezza di ieri, i personaggi semplici di paese, i maestri di scuola e i genitori di una volta, gli insegnanti di vita, le amicizie, i giochi, la centralità dello studio e della formazione politica; le comunità preoccupate per il destino dell’altro, gente affamata e povera, racconti di guerra, di emigrazione, di morte sul lavoro, personaggi illustri, mastri e tipi divertenti; e anche esempi di solidarietà, di condivisione, di amicizia nella disabilità, storie di bufale, leggende ed episodi fatali.
[…] Diventando Minita, Domenico Forgione non scappa via dalla nostra terra “perché sa dove andare”. Il suo compito è raccontare “i colori da dietro”, da altri punti di vista; è dire alla gente che “basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie”; è indicarle la necessità di imparare a convivere con la ragione dell’altro”.

[Dalla postfazione di Salvatore Bellantone]

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