
Aprilia, 17 febbraio 2014. Settant’anni dopo, Roger Waters fa pace con la memoria del padre eseguendo “Outside The Wall” con la tromba nel luogo in cui Eric Fletcher Waters perse la vita durante lo sbarco di Anzio. Il corpo del tenente dell’esercito britannico non è mai stato trovato e, soltanto dopo una ricerca durata decenni, si è finalmente riusciti ad individuare il punto esatto dello scontro tra alleati e tedeschi. Il giorno dopo, inaugura la stele dedicata alla memoria dei caduti dello sbarco rimasti senza sepoltura: «Sono arrivato alla fine del mio viaggio», la sua dichiarazione.
La fine del viaggio. Tenere bene in mente queste quattro parole prima di fare un salto all’indietro, al 1983 e all’uscita di “The Final Cut”, l’album più divisivo della storia dei Pink Floyd. Altrimenti si corre il rischio di non capirci niente.
Per alcuni si tratta dell’atto conclusivo, richiamato anche nel titolo, della vita della band londinese prima della separazione. Altri sostengono che l’album pubblicato con la nota “Requiem per il sogno del dopoguerra. Di Roger Waters, eseguito dai Pink Floyd”, sia in realtà il primo da solista del bassista del gruppo. Cifre delle vendite alla mano (comunque oltre tre milioni di copie, senza neanche una tournée), molti concordano sul flop discografico. Scorie dell’infinita quanto stupida tenzone tra gilmouriani e watersiani. Vero è che siamo alla fine di un ciclo, che Richard Wright è stato estromesso dal gruppo, che David Gilmour e Nick Mason soffrono la preponderanza del genio creativo di Waters. Vero è che il titolo iniziale doveva essere “Spare Bricks” (“mattoni avanzati”) e che quattro canzoni erano state scartate da “The Wall”. Eppure non si possono capire “Animals” e “The Wall” senza “The Final Cut”. Per questo l’album è pienamente Pink Floyd.
Sgombro subito il campo: se non fosse insulso stilare una classifica tra gli album dei Pink Floyd, “The Final Cut” starebbe sul mio personalissimo podio accanto a “The Dark Side Of The Moon” e “The Wall”.
L’ultimo capitolo dei Pink Floyd “con Waters” è un disco musicalmente sublime, da ascoltare e riascoltare, possibilmente con le cuffie. Esplosioni, rumori, suoni, voci: il sottofondo è musica. Dannata, paranoica.
Al centro c’è ovviamente il doloroso percorso di elaborazione del lutto di un uomo che a cinque mesi perde il padre. Ma c’è soprattutto una visione politica netta che Waters riprenderà e sublimerà da solista in quel capolavoro assoluto che è l’album “Amused to death” (1992). “The Final Cut” è un atto di accusa violentissimo contro tutti i conflitti, causati dagli “sprecatori di vita e di membra” che immaginerà chiusi in un ospizio intitolato al padre, una “casa per tiranni incurabili e re” dove i potenti della Terra possono continuare a giocare alla guerra. Ci finisce anche il primo ministro inglese, Margaret Thatcher: «Maggie, cosa abbiamo fatto?», la domanda con la quale Waters esprime la propria contrarietà alla guerra delle Falkland, scoppiata nel 1982.
Gli aggettivi per definire l’opera sono stati sprecati: intima, parossistica, claustrofobica, rabbiosa. Una seduta psicanalitica nella quale Waters si spoglia di ogni maschera (il Pink di “The Wall”, le bestie orwelliane di “Animals”) e si mostra nudo, con il suo dolore esibito senza filtri. Fantasmi e demoni corrono sul filo di parole pronunciate a labbra strette, lame di coltello che incidono la carne facendola sanguinare. Un pugno sferrato nello stomaco, che fa piegare le ginocchia. Un canto dolorosissimo che trascina nel buco nero dell’assenza, accompagnato ora dal sassofono straziante di Rafael Ravenscroft, (“The Gunner’s Dream”, “Two Suns In The Sunset”), ora dagli assoli sontuosi di Gilmour (“Yuor Possible Pasts”, “The Fletcher Memorial Home”, “The Final Cut”).
«Badate ai suoi sogni», raccomanda “The Gunner’s Dream”: un mondo senza guerre, cibo sufficiente per tutti, nessuno che uccide più i bambini. Il sogno pacifista destinato ad essere calpestato nel finale apocalittico di “Two Suns In The Sunset”, che racconta l’incubo nucleare, la razza umana giunta al capolinea e l’inutilità della rivelazione ultima: «Carbone e diamanti/ nemico e amico/ tutti siamo uguali/ alla fine».
«The Final Cut – aveva dichiarato Waters – parla di mio padre: ho iniziato a fare i conti con il mio obbligo verso di lui e forse mi sono alleggerito un po’». La fine del viaggio.
