I settant’anni di Vasco

Chi l’avrebbe detto? Forse neanche lui contava di arrivare a settant’anni. Ma poco importa. I miti restano sempre giovani e Vasco è lì a ricordarcelo con il suo rock. Meno capelli e qualche chilo in più, ma niente di disastroso. Tutto sommato, è invecchiato benissimo. Anzi, la maturità gli ha consegnato un’autorevolezza che prima non gli era riconosciuta. Tranne che dai fans, ovviamente, per i quali è da sempre un dio.
Per me rimane il personaggio malinconico e incazzato del poster che tenevo nella cameretta, tra Karl Heinz Rummenigge e Diego Armando Maradona. Mano appoggiata sull’asta del microfono, quasi aggrappato come il naufrago alla fune.
Ci siamo innamorati con le sue canzoni: Ogni volta e Canzone, la mia preferita e negli anni diventata il momento più toccante dei suoi concerti con quel «Viva Massimo Riva» che ripete alla fine dell’esecuzione per ricordare l’amico e chitarrista morto di overdose: «È nell’aria/ ancora il tuo profumo/ dolce caldo morbido/ come questa sera/ mentre tu/ mentre tu/ non ci sei più».
Ho “incontrato” Vasco quando avevo circa 12 anni, nella metà degli anni Ottanta. Saltò fuori dal taschino del giubbotto di jeans di un ragazzo più grande di me che frequentava la sala biliardi del “Bar Mario”: era la musicassetta di Non siamo mica gli americani!, album del 1979 celebre perché conteneva la traccia Albachiara, probabilmente la canzone più cantata dai seguaci del rocker di Zocca. Le sue due recenti ed uniche partecipazioni al Festival di Sanremo (1982 e 1983) erano andate malissimo con due brani che poi avrebbero fatto la storia del rock italiano: Vado al massimo e Vita spericolata. Con mio fratello Luis cominciammo a comprare le sue musicassette, prodotte dall’etichetta “Carosello Records”, con la caratteristica custodia arancione. Ma negli anni a seguire acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Lui sbatteva in faccia al mondo il dito medio urlando Siamo solo noi e noi ci sentivamo meno soli. Le sue canzoni sembravano scritte per noi, che fossimo innamorati, delusi, incazzati (Portatemi Dio). Un po’ sopra le righe o strafottenti (Sensazioni forti), quando cedevamo al fatalismo (Anima fragile) o non trovavamo il nostro posto nel mondo (La noia). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: «E intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano».
Quella scritta non c’è più; non ci sono più neanche quella panchina e quella piazza. E non c’è più nemmeno quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere o di Stupendo: «Ed ora che non mi consolo/ guardando una fotografia/ mi rendo conto che il tempo vola/ e che la vita poi è una sola».

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E le abitudini cambiano

Due settimane fa sono state sessanta primavere per Vasco Rossi, l’unica vera leggenda rock italiana. E con questo incipit mi gioco la simpatia dei fans di Ligabue, anche se sinceramente ho sempre pensato che la rivalità tra i due sia un’invenzione giornalistica. Comunque sia, rispetto per il lavoro del Liga, ma Blasco è Blasco. Ho avuto modo di assistere a concerti di entrambi. Non c’è partita. L’adrenalina che trasmette l’artista di Zocca ti rimane in corpo per una settimana. L’unica similitudine possibile riguarda semmai la rispettiva recente produzione, che non mi sembra all’altezza degli anni d’oro. Ma questa è un’impressione personale, alimentata forse anche dall’età, che non è più quella in cui Ogni volta e Canzone (la mia preferita) accompagnavano le mie giornate. Non so dire se sono io ad essere invecchiato, se Vasco si è imbolsito, o se siamo tutti e due da rottamare. Fatto sta che mi sono fermato all’album Nessun pericolo per te (1996). Da lì in avanti, credo sia diventato un altro Vasco, un po’ monumento di se stesso, al quale non sono più riuscito a stare dietro. Nonostante diverse altre belle canzoni e una presenza scenica sempre in grado di suscitare intense emozioni.
L’ho “conosciuto” attorno ai 12 anni. Me lo “presentò” alla sala biliardi di mio padre un ventenne, tirando fuori dal taschino del giubbotto di jeans la musicassetta di Non siamo mica gli americani, album inciso almeno cinque anni prima e celebre per Albachiara. Aveva già fatto in tempo a classificarsi penultimo (!) al Festival di Sanremo con Vita spericolata (1983), ad essere arrestato per droga (1984) e ad accrescere a dismisura la fama di esempio da non imitare. Con Luis cominciammo a comprare le sue musicassette (Carosello, dalla caratteristica custodia arancione), ma poi acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita. Nella nostra classifica “rossiana” del tempo, per me al primo posto c’era Albachiara; per mio fratello, che è sempre stato molto più rock di me, Siamo solo noi, compreso il dito medio sbattuto in faccia al mondo. In camera avevamo un poster che lo ritraeva nella sua classica posa, con una mano appoggiata sull’asta del microfono. Non chiedetevi quante locandine ci fossero nella nostra stanzetta. Tanti. Pink Floyd, James Dean, Rambo, Bruce Springsteen, Rummenigge, un boxer (che anticipò l’arrivo di Eros) e altre che “ruotavano”: Maradona, per esempio, che adoravo nonostante la mia fede nerazzurra. A differenza della Juve di Platini e Boniek (mamma) e del Milan di Sacchi (Mario), che pure ho dovuto tollerare, attaccati accanto allo sguardo triste di Ayrton Senna. E fortuna che avevamo la possibilità di dirottare nella sala biliardi tutto il resto: l’Italia Mundial ’82 (in cornice), l’Inter dei record, Ivan Lendl, Gianni Bugno e molti altri miti dello sport.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Andava bene quando eravamo innamorati, delusi, incazzati (quante volte ho urlato Portatemi Dio); quando volevamo fare i pazzi (Sensazioni forti) o gli strafottenti, perché la vita è questa e bisogna viverla andando “al massimo”; quando tutto sembrava congiurare contro di noi (Lunedì) e cedevamo al fatalismo (Anima fragile). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: “e intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano”. Quella scritta non c’è più, come la panchina e la pavimentazione, sostituite quando la piazza fu ampliata e completamente rifatta. E come quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere.

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