Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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Ragazze al bivio

Scampoli di estate, valigie quasi pronte e quella tristezza che assale chi deve andare. Certo, c’è anche chi non vede l’ora di lasciarsi alle spalle “quattro case e un forno” e i “quattro gatti” che ci abitano. Accompagnando magari la partenza con una buona dose di ingenerosità (chi sta fuori, spesso, lo fa sulle spalle di chi, a casa, compie enormi sacrifici): “ma che ci torno a fare qua?”.

Già, perché tornare? Ci sono infinite ragioni per mettere quanti più chilometri possibile tra sé e un piccolo paese che ha poco da offrire, soprattutto ai giovani. E ancora di meno a una ragazza.
Pochissimo lavoro, spazi di socialità quasi inesistenti, molto tempo libero che diventa tempo sprecato, non avendo granché da fare. Parcheggiate in qualche Università, per una laurea che spesso è a pieni voti, ma desolatamente inutilizzabile. Il passaggio da ragazza a zitella è brevissimo, dalle nostre parti. Dura il tempo del corso accademico. Fino a quando si studia, si ha un alibi. Dopo, diventa tutto più difficile. Valla a trovare una giustificazione, se a venticinque-trenta anni non lavori, non sei sposata e nemmeno prossima al matrimonio.

Ho ricevuto una email che spiega questo duplice stato d’animo. Lo sradicamento che vive chi torna due-tre volte l’anno in paese, con quella “paura” di diventare un “estraneo” anche alle persone care, quando la frequentazione diventa saltuaria e il rapporto si allenta. E poi la difficoltà ad essere donna, qui. Anch’io penso che occorra “il triplo della fatica”, anche se fortunatamente non è sempre così.
Sottopongo a voi l’email che ho ricevuto. Spero anche di riceverne altre, su qualsiasi tema. Il blog è a disposizione di chiunque abbia qualcosa da dire e intenda qui condividerla.

Vuoi sapere che cosa provo quando lascio la mia casa?

Lasciare la mia casa è sempre un po’ pesante, un po’ straziante.

Lasciare la mia casa è un po’ come entrare in coma e riuscire a svegliarsi solo alla fine del viaggio con gli occhi ancora un po’ pieni di lacrime e un nodo in gola che è meglio non vedere nessuno per qualche ora.

Lasciare la mia casa è un po’ come spogliarsi dell’abito più bello: sai che devi toglierlo ma vorresti tenerlo, ancora un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come rimanere orfani. E ti senti sperduto e spaesato e, pur non essendolo, ti senti solo, almeno per un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come perdere l’infanzia e il suo sapore, senza sapere come.

Lasciare la mia casa è un po’ come sparire e avere la paura nel cuore di diventare estraneo per quelle persone care, anche solo un po’.

Lasciare la mia casa è sempre un po’ un dovere da mantenere per credere di farcela, anche soltanto un po’.

Lasciare la mia casa è sempre una certezza e una speranza: so di ritornare, magari per un po’, spero di restare, molto più di un po’…

Se solo ci fosse anche solo una possibilità di restare a casa mia la sfrutterei senza pensarci perché amo la mia terra e vorrei fare qualcosa per cambiarla. Ma voglio anche riuscire a fare qualcosa della mia vita… Essere donna qui è pesante, ci vuole il triplo della fatica.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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19 agosto 1970

Il campo sportivo è il “Claudio Morisi” nella versione precedente, con il rettangolo di gioco perpendicolare rispetto all’attuale.

La combriccola, invece, era composta da un gruppo di ragazzi oggi con i capelli grigi.

La partita, un incontro estivo tra giovani promesse e vecchie glorie, un’occasione per trascorrere in allegria un caldo pomeriggio d’agosto.

Dedico questo post alla memoria di Giuseppe Saccà (“U pileri”), un amico che ci ha lasciati troppo presto.

Sant’Eufemia d’Aspromonte, 19 agosto 1970

Eufemiese Vecchie Glorie – Eufemiese Juniores 2-3

Eufemiese Juniores:

In alto, da sinistra: Vincenzo Tripodi (allenatore), Enzo Galante, Pino Luppino, ‘Ntoni Migliardi, Edy Petris, Pino Fedele, Mimmo Fedele (presidente), Pasquale Creazzo (segretario).
In basso, da sinistra: Pino Pangallo, Saverio Garzo, Luigi Nolgo, Peppe Saccà, Carmelo Delfino, Nino Lupoi.

Un grazie ad Elisa, che ha gentilmente messo a disposizione del blog la foto.

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L’autostrada più bestemmiata del mondo

Al tg2 delle 13 è stata data una buona notizia: sulla Salerno – Reggio Calabria sono stati chiusi quattro cantieri e riaperti non ricordo quanti chilometri di autostrada.
Poi dice che uno diventa un bufalo fumante. Ovvio, quando si parla dell’autostrada più bestemmiata del mondo.

Due giorni fa, nei pressi di Scilla, si è staccato il cornicione di una galleria e solo per una fortuita coincidenza non ci è scappato il morto. Autostrada chiusa e traffico deviato nel centro di Scilla, in una lunga notte di passione, per i residenti e per gli automobilisti bloccati in qualche stretto tornante della strada provinciale. Il giorno successivo, concessione – non richiesta – del bis, con Anas e Polizia stradale sempre più nel pallone, incerte se riaprire o no. Perché diventa una responsabilità pesantissima autorizzare il traffico su un tracciato maledetto da Dio e dagli uomini. Il problema vero è che la manutenzione sul vecchio tracciato è quasi inesistente, da quando sono cominciati i lavori per l’ammodernamento del quinto macro-lotto della SA-RC. In alcune gallerie piove, letteralmente a dirotto. Altro che infiltrazioni: non so come si possa autorizzare la viabilità e spero, per i responsabili, che non succeda mai niente. Ma ogni volta che ci passo, mi ripeto: “speriamo che non venga giù tutto”.
Ovviamente, i telegiornali si guardano bene dal dare simili notizie. Non è una novità. E poi, si rischierebbe di mettere paura a chi ha intenzione di mettersi in viaggio e puntare a Sud.

Nel frattempo, a Sant’Eufemia d’Aspromonte abbiamo perso lo svincolo autostradale. Tagliati fuori dalle grandi (si fa per dire) reti di comunicazione, siano esse stradali o ferroviarie, con ricadute intuibili sulla nostra già asfittica economia. Per collegarsi al nuovo tracciato, occorrerà fare i salti mortali, con dispendio di tempo, soldi e bile. L’assessore regionale ai trasporti, Luigi Fedele, eufemiese, per il momento tace. L’ex sindaco Saccà preannuncia battaglia. Come l’attuale, Creazzo.
La mia opinione è che ci sia poco da fare, perché è tutto deciso. E non da ora, nonostante certe periodiche e rassicuranti dichiarazioni. A ogni modo, mi permetto un piccolo suggerimento a tre politici che rappresentano – credo – la quasi totalità della cittadinanza eufemiese. Mettete da parte ogni tentazione personalistica. Sulla vicenda dello svincolo, ci sono già state troppe strumentalizzazioni. Soprattutto, bando alle chiacchiere, ai tavoli e agli incontri più o meno chiarificatori con Anas, prefetto, istituzioni politiche. L’unica strada da percorrere, per diventare “visibili”, è creare il massimo disagio a quanto più persone possibili. Si blocchi l’autostrada, sine die, fino a quando non ci sarà la certezza che lo svincolo si farà o fino a quando non ci arresteranno tutti. Solo su questa base vi seguiremo. Siete pronti a prendervi qualche denuncia? Altrimenti, lasciate perdere, sarebbe tempo sottratto a qualche bella giornata di mare. Si creeranno disagi a gente che non ha colpe? Perché, noi che colpa abbiamo ad avere questa autostrada e a passarvi sopra ore di inferno, da quasi dieci anni?

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Quantomar per l’Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.

Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.

Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.

Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.

Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.

Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.

Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.

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Mangiafuoco

E due. Dopo Giovanni Fedele, candidato a sindaco per la lista Colomba, si è dimesso anche Salvatore Coletta, primo dei non eletti, che era subentrato qualche settimana fa. Un consiglio comunale a testa e poi basta. Esperienza finita. In barba alla volontà e alla fiducia degli elettori che certo non avevano vincolato il voto al successo della lista. Verrebbe da dire “troppo comodo” fare il consigliere di maggioranza e abbandonare la nave quando si perdono le elezioni. Ma così va il mondo. Male. Non ci sorprende. Semmai, conferma riflessioni già espresse sulla marginalità della “politica” in alcune candidature.

Per questo, non ci persuade la giustificazione ufficiale fornita da Fedele: “mi dimetto per rispetto degli elettori che non mi hanno votato”. Saranno dello stesso avviso i 1.156 elettori che certamente avevano votato l’uomo e il politico, prima che la carica?
Ora che la scure governativa ha ridotto al minimo la rappresentanza politica degli enti locali, sarebbe utile e auspicabile la presenza di personalità competenti in seno al consiglio comunale. Fedele, già sindaco per un quinquennio e ora dirigente alla Regione Calabria, sarebbe stato una garanzia per tutti e avrebbe saputo svolgere al meglio la delicata funzione di controllo dell’attività di governo dell’attuale maggioranza. Probabilmente, questa considerazione non è stata fatta o non ha avuto alcun peso. Peccato.

Coletta non ha invece avuto niente da dire, almeno pubblicamente. Ma i 167 eufemiesi che avevano scritto, fiduciosi, il suo nome sulla scheda avrebbero diritto a qualche spiegazione. Altrimenti, davvero va a finire che è tutta colpa di Mangiafuoco, quello che muove i fili e decide per tutti.

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Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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Qualche considerazione a margine della presentazione del libro “La lingua dell’altro”, di Francesco Idotta

Non posso recensire il libro di Francesco Idotta, La lingua dell’altro (sottotitolo: Il problema del dialetto nell’apprendimento scolastico. Uno sguardo didattico-filosofico, edito da Città del Sole), che ancora non ho letto. Intendo però commentare la presentazione del volume curata dall’Associazione culturale “Terzo millennio” presso la scuola media statale “Vittorio Visalli”, perché ritengo che debba essere data più risonanza possibile alle manifestazioni fatte bene e perché sono convinto che i singoli e le associazioni, impegnati ad elevare il livello culturale della nostra cittadina, vadano sostenuti e incoraggiati a percorrere una strada parecchio accidentata. Chi fa parte di una qualsiasi associazione conosce le difficoltà che si incontrano quotidianamente: il tempo da sottrarre alla propria famiglia; la “crisi delle vocazioni” che, dopo il boom registrato a cavallo del nuovo millennio, ha visto sensibilmente calare il numero dei volontari; la penuria delle casse, alla quale, in un periodo di crisi economica e di sempre minori contribuiti pubblici al settore, si cerca di ovviare con l’autotassazione.

Ci si accorge dell’importanza delle cose e delle persone quando esse vengono meno. Che Sant’Eufemia avremmo senza la recita organizzata dal Terzo Millennio, senza la sagra della patata della Proloco, senza la colonia per i disabili dell’Agape, senza il défilé dell’associazione dei sarti? Cito quelle che, a mio avviso, sono tra le iniziative più riuscite, senza volere sminuire le altre, né dimenticare chi, anche al di fuori delle associazioni, svolge un’opera meritoria di promozione del territorio e di pedagogia civile. Ecco perché vedere, in un sabato di primavera, gente in piedi perché le poltrone del teatro erano tutte occupate, rigenera e induce all’ottimismo. Sì, c’è molta passività in giro, tanti trovano sempre qualcosa di meglio da fare. Però, se si pizzica la corda giusta, la comunità dà risposte positive. È evidente che Sant’Eufemia ha fame di cultura. Tutte le presentazioni di libri e i convegni storici o letterari svolti nell’ultimo quinquennio hanno sempre avuto un grande successo di critica e di partecipazione.

Il libro di Idotta tocca un argomento molto sentito. Senza pretendere di salire in cattedra per dire ai colleghi docenti come comportarsi, l’autore si sofferma sul linguaggio “dell’altro”, degli stranieri e dei bambini dialettofoni. Un problema che Idotta conosce bene per averlo affrontato nel corso di un decennio di scuola primaria, sperimentando metodi di insegnamento che hanno avuto riscontri incoraggianti. Una questione che è didattica, ma che rientra nella discussione più ampia sull’integrazione come approdo necessario per risolvere positivamente il dibattito sulla diversità delle culture che si incontrano (e si scontrano) in un Mediterraneo restituito all’antica centralità.

Prima delle conclusioni dell’autore, Rossella Morabito ha catturato l’attenzione del pubblico con una relazione brillante e autorevole, centrata sul tema e ricca di suggestioni letterarie, riferimenti qualificati e rimandi ad ulteriori approfondimenti. A dare “colore” all’iniziativa, la lettura di alcuni brani del libro (Martina Napoli, Enza Saccà, Iole Luppino), la rappresentazione “alla Terzo Millennio” di una poesia dialettale (Enzo Fedele, Paolo Occhiuto, Eurema Pentimalli) e due arie della “Cavalleria Rusticana”, eseguite dal soprano Giuseppina Violani e dal tenore Francesco Tripodi. In chiusura, la serie di interventi del pubblico ha attestato la legittimità della soddisfazione espressa dal presidente Francesco Luppino (“anche questa volta, ci abbiamo azzeccato”).

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Bentornato, Salvatore

Domenica mattina, Sant’Eufemia si è svegliata con una di quelle paure che prendono allo stomaco e non si riescono a scacciare: “Salvatore si è perso”.
Dal giorno prima non si avevano notizie di uno dei personaggi più caratteristici del paese, grande amico dei cani, raccattapalle al campo sportivo e tutta una serie di altre cose che spingono gli eufemiesi ad un moto di naturale simpatia nei confronti di questa mascotte quarantenne.
Proprio il giorno della sua scomparsa ero passato da casa sua per chiedergli se fosse interessato ai tre cagnolini che avevo trovato, ma non c’era. Cosa non inusuale, alla quale non avevo dato alcuna importanza. In serata si era però sparsa la voce che si era smarrito nell’area attorno alla diga del Menta, dove si era recato, presumibilmente per pescare trote, con altre due persone che poi avevano dato l’annuncio della sua scomparsa: per qualche motivo si era allontanato dagli altri, che non erano più riusciti a rintracciarlo.
Salvatore lo conosciamo tutti: è capace di uscire indenne dall’inferno. Il timore che molti avevamo non era dovuto tanto alla nottata trascorsa all’addiaccio, quanto all’eventualità che potesse essersi ferito cadendo in qualche burrone. Perdersi no: eravamo sicuri che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe seguito il corso della fiumara fino al mare. Da qualche parte sarebbe spuntato.
Di primo mattino, però, in paese ancora non si avevano novità. E la preoccupazione aumentava, nonostante l’impegno degli uomini del soccorso alpino della finanza, del corpo forestale, dei vigili del fuoco, dei carabinieri e di qualche volontario che conosce la montagna palmo per palmo. Alla fine, come ha poi candidamente dichiarato, Salvatore ha trovato loro. Scavando con le mani, aveva allargato una fossa naturale accanto alla fiumara e lì aveva passato la notte, fino a quando non si era alzato per dirigersi verso i soccorritori che lo stavano cercando. Solo uno spavento, quindi, più per noi che per lui. Appena rientrato in paese, la sua abitazione è diventata la meta di tantissima gente che ha voluto esprimere il proprio affetto e che ha tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Subito dopo, era già fuori per riprendere la sua vita di sempre.
Bentornato, Salvatore.

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