Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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Ceu Galera

Ero amico di Vincenzo Pinneri (Ceu “Galera”), capo dell’omonima banda che tra il 1943 e il 1944 terrorizzò Sant’Eufemia e dintorni e si rese protagonista della faida con la banda Leonello di Sinopoli.
Il Pinneri uscito dal carcere alla fine degli anni Settanta non era il bandito, già fratricida, evaso dal carcere e latitante, che faceva il giro delle campagne per estorcere cibo, denaro e armi. Non era l’ergastolano condannato per una ventina di reati (un altro omicidio, diversi tentati omicidi, estorsioni, violenze), né il leader giovanissimo – ma lui ha sempre negato di essere stato capo di qualcuno: “erano gli altri che mi seguivano anche se non li volevo” – di una banda di sbandati, il cui arresto con tanto di passarella per le vie del paese, ammanettato alla sponda di un carro bestiame, da molti fu salutato come una liberazione.

Il Pinneri che ho conosciuto io era un affettuoso signore anziano che ha sempre vissuto da solo, adorava i bambini e ti metteva in imbarazzo se lo invitavi a pranzo, perché arrivava con due buste stracolme di salumi, formaggio, carne, frutta, biscotti.

Si commuoveva spesso: di fronte alla morte di un giovane; per quel ragazzo che non riusciva a trovare lavoro; per l’altro costretto ad emigrare, cui portava un pacco di roba da mangiare ogni volta che doveva ripartire.

Imbattibile al gioco della dama, si dilettava con le carte: poco a “scopa”, perché troppo forte e senza rivali: ricordava tutte le giocate e sapeva “contare il quarantotto”; di più a “scala quaranta”: ma non con tutti, solo con chi gli stava simpatico. Mai a soldi e sempre “a consumazione”: merendine, caramelle e bibite che puntualmente regalava a qualcuno. Prediligeva le boccette e, dalle bestemmie, anche chi si trovava nel parcheggio, fuori dalla sala biliardi, capiva se avesse vinto o perso.
Stravedeva per me e mi aveva eletto “biografo ufficiale” delle sue gesta. Probabilmente, un giorno lo diventerò, mettendo insieme la lunga e inedita intervista che abbiamo realizzato a più riprese, gli articoli che lo hanno riguardato e che mi ha affidato insieme alle pagine di un suo diario e ad altre autografe, scritte in diversi momenti (l’ultima, due mesi fa, dal letto dell’ospedale), le poche foto che lo ritraggono a Fossombrone, Saluzzo o Pianosa, le carte giudiziarie già fotocopiate e quelle che occorre recuperare.

Il Pinneri che ho conosciuto io era anche, però, l’uomo pronto a sparare e uccidere nuovamente, ai primi anni Ottanta, davanti al bar, se non ci fosse stato il tempestivo intervento di un avventore, che prima con coraggio gli bloccò la mano armata e poi riuscì a calmarlo e a farlo desistere dall’insano proposito. Era l’ultraottantenne vittima del furto della sua inseparabile “Ape 50”, il quale, costretto a presentare denuncia, all’esterrefatto maresciallo che gli chiedeva se nutrisse qualche sospetto rispose: “E secundu vui, se sapiva cu fu, veniva a caserma?”.

Qualche giorno fa mi è stato chiesto come mai non gli avessi ancora dedicato un articolo. Ecco, ho il sospetto che molti, soprattutto tra i giovani, siano affascinati dal Pinneri bandito e “giustiziere”, un po’ come avviene con quelle fiction televisive che trasformano in eroi certi personaggi negativi. Io ritengo che sia giusto ricordare con affetto il Pinneri che in tanti abbiamo conosciuto come persona a suo modo dolce, sensibile, premurosa e, se vogliamo, perseguitata da antichi fantasmi e da un “ruolo” sopravvissuto allo scorrere del tempo. Andrebbe invece consegnato alla dimensione storica e sociologica il mito del Pinneri impavido e violento, grilletto facile e bombe a mano sempre in tasca nel contesto sociale caotico del dopo 8 settembre, protagonista di un incredibile assalto alla caserma dei carabinieri e, nell’immaginario collettivo, ancora assiso dietro a un treppiedi all’ingresso del paese, pronto ad accogliere a sventagliate l’arrivo del questore di Reggio Calabria.

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L’ultima lezione

Ho sempre immaginato gli intellettuali come tanti Pollicino, le tasche piene di sassolini da seminare lungo il cammino, a beneficio di chi verrà dopo. Un’indicazione, un segnale che aiuti l’altro ad orientarsi o anche soltanto serva da conforto quando la solitudine del pensiero stringe il petto: “sì, sei sulla strada giusta”.

Il professore Rosario Monterosso è uno che di sassolini ne ha lasciati parecchi, ovunque e in ogni momento. Chi ha avuto il privilegio di essere suo alunno, suo amico, o entrambe le cose, ora non può che avvertire smarrimento. Ci ha lasciato in punta di piedi, con uno stile che abbiamo apprezzato anche quando ci è costata dolore la sua decisione di chiudere con il mondo, nel momento in cui tutto era diventato ineluttabile.
Sant’Eufemia era il suo secondo paese e il liceo scientifico “E. Fermi” la sua seconda casa. Stamattina, nella casella di posta elettronica, ho trovato una email: “Penso che il nostro liceo sia stato il luogo che lui ha maggiormente amato, insieme alla sua incredibile biblioteca e al suo orticello”. Dalla notizia della sua morte è un continuo telefonare, chiedere, esprimere tristezza tra noi ex alunni. Questa è la sua eredità: altri sassolini.
I ricordi si accavallano, come in un puzzle di sentimenti che vorrebbe tradurre lo stato d’animo in immagini e parole. Sono in difficoltà. Per me Rosario Monterosso è stato molto di più che il mio professore di storia e filosofia negli anni del liceo. La presentazione del mio libro su Sant’Eufemia mi diede l’occasione di riconoscere pubblicamente il debito che avevo (ed ho) nei suoi confronti. Per avermi fatto innamorare delle discipline storiche, per avere rappresentato, con il suo esempio di vita, di impegno civile e sociale un modello positivo. Anche in quella occasione fu generoso, con la sua presenza dietro al tavolo degli oratori e con le parole della sua relazione. Così com’è stato sempre presente, ogni volta che qualcuno a Sant’Eufemia ha organizzato un evento culturale e ha chiesto il suo autorevole contributo. Credo sia stato questo il tratto distintivo della sua personalità. Sul piano intellettuale, la brillantezza del pensiero, quel suo sapere tradurre la complessità del ragionamento in chiarezza espositiva. Dopo, tutto appariva più limpido, come se una luce avesse illuminato la stanza buia.

La sua biblioteca è stata la biblioteca dei suoi alunni. I primi prestiti, per me, furono “Dei doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini e “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. E poi i dissidenti russi: Solgenitsin, Sacharov, Salamov. Devo a lui l’amore per Leonardo Sciascia e per Italo Calvino. Devo a lui suggerimenti preziosi e molti testi utilizzati nelle mie ricerche e pubblicazioni.

Devo a lui l’insegnamento che non bisogna mai fermarsi all’apparenza delle cose, ma scavare con certosina pazienza nella realtà che ci circonda, nell’oggetto del nostro studio, nella nostra anima e in quella degli altri.

Di sinistra, ma di una sinistra che non può albergare in nessun partito quando l’etica viene mortificata dalla prosaica gestione del potere. Una vicenda che partiva da lontano, dal lamento di Ignazio Silone, “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.

Con il professore Monterosso spesso “scandagliavamo” l’attualità politica ed era per me consolante constatare che molte idee collimavano. “Il posto del partito socialista è a sinistra”, concordammo nel momento dell’ubriacatura forzista di tanti compagni, nonostante avessimo bene in mente che molti dei carnefici di quell’esperienza fossero a sinistra. In quella sinistra che era stata sconfitta dalla storia e che, appunto per questo, riconfermava la validità del concetto pertiniano di libertà e giustizia sociale: “libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà”.

Ho ammirato la sua decisione di candidarsi a sindaco di Bagnara, nonostante egli per primo fosse consapevole di essere l’agnello sacrificale di una sinistra votata alla sconfitta. La vita è fatta anche di esempi da dare al prossimo: “ci sono quelli che prendono il 70% dei voti, ma ci siamo anche noi che non ci omologheremo mai a un sistema di potere che condanniamo. Abbiamo il dovere morale di testimoniare la possibilità di un altro destino”. Questo il senso della sua scelta. Ancora sassolini, ancora un’altra lezione. Da mandare a memoria come l’ultima, di questi mesi, in realtà il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Una dichiarazione d’amore per moglie e figli, bellissima nella sua tragicità.
Da oggi, siamo tutti un po’ più soli.

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Epic Fail

Nel linguaggio dei social network, con Epic Fail (fallimento epico) s’intende un enorme sbaglio (qualcosa di simile a una figuraccia), immortalato in un video o in una foto. Ad esempio, certe scritte sgrammaticate che si leggono sui muri delle città.

O immagini buffe, incredibili, che suscitano istintivamente una fragorosa risata.

Qualcosa di simile è capitato con il post che ho pubblicato stamattina per rispondere a un fantomatico Rocco Cutrì. “Fantomatico” non perché Rocco non esista, ma perché non è lui l’autore del commento all’articolo Strettamente personale che aveva provocato la mia reazione.
Negli ultimi tempi sul blog registro, con maggiore frequenza rispetto al passato, incursioni incresciose. Per questo sono stato costretto a inserire la funzione “moderazione” nei commenti, che non pubblico se contengono attacchi o offese anonime nei confronti di chicchessia. In questa circostanza, sono stato tratto in inganno dal fatto che l’intervento era sottoscritto con nome e cognome, anche se per tutta la giornata di ieri ho avuto il dubbio che si trattasse di un troll (chi, su internet, pubblica messaggi provocatori).
Conosco Rocco, al quale ho pure avuto modo di esprimere (qui) il mio apprezzamento, ai tempi della sua esperienza amministrativa, e proprio per questo ero rimasto sorpreso e amareggiato. Purtroppo, non sono però riuscito a rintracciarlo, prima di postare l’articolo, per accertare al cento per cento che quelle parole fossero davvero roba sua. Errore da matita blu: mea culpa.
Ne hanno fatto le spese, involontariamente, anche Nino Creazzo e Carmen, intervenuti in mia difesa con parole abbastanza pesanti. Mea culpa, anche nei loro confronti.

Ho eliminato dal blog il post che avevo scritto stamattina e i commenti che hanno suscitato questo vespaio, a partire, ovviamente, da quello inviato dal simpatico usurpatore.

Nella foto sotto, eccomi nel momento in cui scopro di essere stato “trollato”, un attimo prima di sbattere contro la verità (è quella cosa di ferro orizzontale).

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Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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Ragazze al bivio

Scampoli di estate, valigie quasi pronte e quella tristezza che assale chi deve andare. Certo, c’è anche chi non vede l’ora di lasciarsi alle spalle “quattro case e un forno” e i “quattro gatti” che ci abitano. Accompagnando magari la partenza con una buona dose di ingenerosità (chi sta fuori, spesso, lo fa sulle spalle di chi, a casa, compie enormi sacrifici): “ma che ci torno a fare qua?”.

Già, perché tornare? Ci sono infinite ragioni per mettere quanti più chilometri possibile tra sé e un piccolo paese che ha poco da offrire, soprattutto ai giovani. E ancora di meno a una ragazza.
Pochissimo lavoro, spazi di socialità quasi inesistenti, molto tempo libero che diventa tempo sprecato, non avendo granché da fare. Parcheggiate in qualche Università, per una laurea che spesso è a pieni voti, ma desolatamente inutilizzabile. Il passaggio da ragazza a zitella è brevissimo, dalle nostre parti. Dura il tempo del corso accademico. Fino a quando si studia, si ha un alibi. Dopo, diventa tutto più difficile. Valla a trovare una giustificazione, se a venticinque-trenta anni non lavori, non sei sposata e nemmeno prossima al matrimonio.

Ho ricevuto una email che spiega questo duplice stato d’animo. Lo sradicamento che vive chi torna due-tre volte l’anno in paese, con quella “paura” di diventare un “estraneo” anche alle persone care, quando la frequentazione diventa saltuaria e il rapporto si allenta. E poi la difficoltà ad essere donna, qui. Anch’io penso che occorra “il triplo della fatica”, anche se fortunatamente non è sempre così.
Sottopongo a voi l’email che ho ricevuto. Spero anche di riceverne altre, su qualsiasi tema. Il blog è a disposizione di chiunque abbia qualcosa da dire e intenda qui condividerla.

Vuoi sapere che cosa provo quando lascio la mia casa?

Lasciare la mia casa è sempre un po’ pesante, un po’ straziante.

Lasciare la mia casa è un po’ come entrare in coma e riuscire a svegliarsi solo alla fine del viaggio con gli occhi ancora un po’ pieni di lacrime e un nodo in gola che è meglio non vedere nessuno per qualche ora.

Lasciare la mia casa è un po’ come spogliarsi dell’abito più bello: sai che devi toglierlo ma vorresti tenerlo, ancora un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come rimanere orfani. E ti senti sperduto e spaesato e, pur non essendolo, ti senti solo, almeno per un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come perdere l’infanzia e il suo sapore, senza sapere come.

Lasciare la mia casa è un po’ come sparire e avere la paura nel cuore di diventare estraneo per quelle persone care, anche solo un po’.

Lasciare la mia casa è sempre un po’ un dovere da mantenere per credere di farcela, anche soltanto un po’.

Lasciare la mia casa è sempre una certezza e una speranza: so di ritornare, magari per un po’, spero di restare, molto più di un po’…

Se solo ci fosse anche solo una possibilità di restare a casa mia la sfrutterei senza pensarci perché amo la mia terra e vorrei fare qualcosa per cambiarla. Ma voglio anche riuscire a fare qualcosa della mia vita… Essere donna qui è pesante, ci vuole il triplo della fatica.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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19 agosto 1970

Il campo sportivo è il “Claudio Morisi” nella versione precedente, con il rettangolo di gioco perpendicolare rispetto all’attuale.

La combriccola, invece, era composta da un gruppo di ragazzi oggi con i capelli grigi.

La partita, un incontro estivo tra giovani promesse e vecchie glorie, un’occasione per trascorrere in allegria un caldo pomeriggio d’agosto.

Dedico questo post alla memoria di Giuseppe Saccà (“U pileri”), un amico che ci ha lasciati troppo presto.

Sant’Eufemia d’Aspromonte, 19 agosto 1970

Eufemiese Vecchie Glorie – Eufemiese Juniores 2-3

Eufemiese Juniores:

In alto, da sinistra: Vincenzo Tripodi (allenatore), Enzo Galante, Pino Luppino, ‘Ntoni Migliardi, Edy Petris, Pino Fedele, Mimmo Fedele (presidente), Pasquale Creazzo (segretario).
In basso, da sinistra: Pino Pangallo, Saverio Garzo, Luigi Nolgo, Peppe Saccà, Carmelo Delfino, Nino Lupoi.

Un grazie ad Elisa, che ha gentilmente messo a disposizione del blog la foto.

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L’autostrada più bestemmiata del mondo

Al tg2 delle 13 è stata data una buona notizia: sulla Salerno – Reggio Calabria sono stati chiusi quattro cantieri e riaperti non ricordo quanti chilometri di autostrada.
Poi dice che uno diventa un bufalo fumante. Ovvio, quando si parla dell’autostrada più bestemmiata del mondo.

Due giorni fa, nei pressi di Scilla, si è staccato il cornicione di una galleria e solo per una fortuita coincidenza non ci è scappato il morto. Autostrada chiusa e traffico deviato nel centro di Scilla, in una lunga notte di passione, per i residenti e per gli automobilisti bloccati in qualche stretto tornante della strada provinciale. Il giorno successivo, concessione – non richiesta – del bis, con Anas e Polizia stradale sempre più nel pallone, incerte se riaprire o no. Perché diventa una responsabilità pesantissima autorizzare il traffico su un tracciato maledetto da Dio e dagli uomini. Il problema vero è che la manutenzione sul vecchio tracciato è quasi inesistente, da quando sono cominciati i lavori per l’ammodernamento del quinto macro-lotto della SA-RC. In alcune gallerie piove, letteralmente a dirotto. Altro che infiltrazioni: non so come si possa autorizzare la viabilità e spero, per i responsabili, che non succeda mai niente. Ma ogni volta che ci passo, mi ripeto: “speriamo che non venga giù tutto”.
Ovviamente, i telegiornali si guardano bene dal dare simili notizie. Non è una novità. E poi, si rischierebbe di mettere paura a chi ha intenzione di mettersi in viaggio e puntare a Sud.

Nel frattempo, a Sant’Eufemia d’Aspromonte abbiamo perso lo svincolo autostradale. Tagliati fuori dalle grandi (si fa per dire) reti di comunicazione, siano esse stradali o ferroviarie, con ricadute intuibili sulla nostra già asfittica economia. Per collegarsi al nuovo tracciato, occorrerà fare i salti mortali, con dispendio di tempo, soldi e bile. L’assessore regionale ai trasporti, Luigi Fedele, eufemiese, per il momento tace. L’ex sindaco Saccà preannuncia battaglia. Come l’attuale, Creazzo.
La mia opinione è che ci sia poco da fare, perché è tutto deciso. E non da ora, nonostante certe periodiche e rassicuranti dichiarazioni. A ogni modo, mi permetto un piccolo suggerimento a tre politici che rappresentano – credo – la quasi totalità della cittadinanza eufemiese. Mettete da parte ogni tentazione personalistica. Sulla vicenda dello svincolo, ci sono già state troppe strumentalizzazioni. Soprattutto, bando alle chiacchiere, ai tavoli e agli incontri più o meno chiarificatori con Anas, prefetto, istituzioni politiche. L’unica strada da percorrere, per diventare “visibili”, è creare il massimo disagio a quanto più persone possibili. Si blocchi l’autostrada, sine die, fino a quando non ci sarà la certezza che lo svincolo si farà o fino a quando non ci arresteranno tutti. Solo su questa base vi seguiremo. Siete pronti a prendervi qualche denuncia? Altrimenti, lasciate perdere, sarebbe tempo sottratto a qualche bella giornata di mare. Si creeranno disagi a gente che non ha colpe? Perché, noi che colpa abbiamo ad avere questa autostrada e a passarvi sopra ore di inferno, da quasi dieci anni?

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Quantomar per l’Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.

Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.

Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.

Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.

Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.

Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.

Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.

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