Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894

Alle ore 19 circa del 16 novembre 1894 è ormai piena notte: se ne hanno la possibilità, le famiglie sono attorno al braciere, oppure già sotto le coperte per non soffrire troppo gli schiaffi dell’inverno. Qualcuno si attarda nelle cantine per un bicchiere di vino, ma la maggior parte della gente si sta per addormentare. Quella notte però non si dormirà, né a Sant’Eufemia, né in molti altri centri pre-aspromontani. E di freddo, nelle strade, ne raccoglieranno parecchio gli sfollati del terremoto che in soli sedici lunghissimi secondi rade al suolo cittadine e villaggi. Il bilancio finale conta 98 vittime e ingentissimi danni, con il triste primato di perdite di vite umane toccato a San Procopio: 48 e il paese ridotto in macerie. Ma è tutto il circondario di Palmi a piangere morte e distruzione: sette vittime a Bagnara (alle quali vanno aggiunte le sei della frazione Solano), otto a Seminara e altrettante a Palmi, epicentro del sisma del 6.1 grado della scala Richter, altre a Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. Un numero che per Palmi sarebbe stato ben più elevato se in quei giorni la città non fosse stata teatro di un avvenimento che un anno dopo la Chiesa riconobbe come miracolo: il movimento degli occhi della statua della Madonna del Carmine, per oltre due settimane consecutive, che richiamò l’attenzione della stampa anche nazionale. Miracolo o caso, fu infatti proprio la processione organizzata il 16 novembre a fare sì che quasi tutta la popolazione si trovasse per strada quando la terra tremò e le case cominciarono a crollare.
Sant’Eufemia fu semidistrutta. Le vittime furono sette, cinque delle quali risiedevano nel Paese Vecchio, le altre due al Petto: Concetta Bagnato, 37 anni; Grazia Maria Monterosso, 72 anni; Antonino Condina, 36 anni; Maria Antonia Cutrì, 3 anni; Angela Nocito, 88 anni; Natale Occhiuto, 2 anni; Carmina Zagari, 95 anni. Più di 200 i feriti. La chiesa Matrice subì lesioni molto gravi, quella del Purgatorio rovinò parzialmente. Il quartiere Campanella (o “Rocca”) fu quello che subì danni minori insieme al Petto, dove però la chiesa crollò quasi completamente. Le case rimaste in piedi subirono danni talmente gravi da mettere in serio pericolo l’incolumità della popolazione, per cui in gran numero furono successivamente demolite: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. I danni furono quantificati in circa due milioni di lire.
Sui luoghi colpiti dal disastro giunsero nei giorni successivi reparti di truppa e squadre di operai sottoposti agli ordini del maggiore del Genio civile Angelo Chiarle, i quali si occuparono della demolizione delle case diroccate, della rimozione delle macerie, del puntellamento della abitazioni recuperabili, della costruzione delle baracche, della distribuzione di indumenti e di alimenti, dello svolgimento di servizi di pubblica sicurezza. Del coordinamento con la prefettura per tutte le operazioni di soccorso si occupò invece il consigliere provinciale Michele Fimmanò, il politico eufemiese più influente dall’Unità d’Italia al primo decennio del Novecento.
A fine febbraio 1895 furono consegnate 64 baracche: la chiesa, l’ospedale, le scuole femminili, il municipio, l’ufficio telegrafico e l’ufficio postale, oltre alle “baracche varie”. Furono inoltre puntellate 32 case, demoliti totalmente 5 fabbricati e parzialmente 64. Un anno dopo, l’area denominata “Pezza Grande” risultava così occupata da un vasto baraccamento strutturato con strade, piazze, una chiesa e una rivendita di privativa, che ospitava più di 200 famiglie e che costituì il primo nucleo urbano dell’assetto che Sant’Eufemia avrebbe definitivamente assunto dopo il terremoto del 1908, quando fu edificato l’intero omonimo rione.

* Tutte le fotografie sono tratte da “Il terremoto del 16 novembre 1894 in Calabria e Sicilia. Relazione scientifica della Commissione incaricata degli studi dal Regio Governo”, Roma 1907. In apertura, il campanile diroccato della chiesa del Purgatorio; a fine articolo, nell’ordine: case rovinate; chiesa del Petto; chiesa del Purgatorio.

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Vittorio Visalli, anche poeta

Forse non tutti sanno che Vittorio Visalli, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, fu anche poeta. Il maggiore storico del Risorgimento calabrese è celebre soprattutto per due opere: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862 (Torino, 1893) e Lotta e martirio del popolo calabrese. 1847-1848 (Catanzaro, 1928). Diede alle stampe anche diverse altre opere di carattere storico, i testi degli interventi pronunciati in conferenze tenute in tutta Italia e i volumi didattici di storia e di geografia scritti per gli alunni delle scuole elementari, delle scuole medie e delle classi inferiori del ginnasio. In anni più recenti l’editore Barbaro ha poi restituito alla comunità degli studiosi e agli appassionati di storia il volumetto Aspromonte (1995), curando la ristampa anastatica del lavoro che nel 1907 Visalli dedicò al ferimento di Giuseppe Garibaldi nel bosco degli “Zappineddi”, in contrada Forestali (29 agosto 1862).
Lo storico eufemiese ebbe riconoscimenti ufficiali già a un anno dalla morte, con la collocazione di un busto in bronzo presso la biblioteca comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria, che custodisce anche i circa 1.500 volumi del catalogo “Donazione Vittorio Visalli”, mentre le carte utilizzate per la stesura delle sue opere storiche sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
Per niente noto è invece il Visalli poeta. Eppure esiste una sua raccolta di 47 componimenti (Semel), stampata presso la tipografia Giuseppe Lopresti di Palmi nel 1894 e oggi praticamente introvabile. Il titolo del volume fa riferimento alla sentenza latina semel in anno licet insanire (“una volta all’anno è lecito impazzire”), come lo stesso autore precisa spiegando “in breve e sinceramente” il motivo della pubblicazione del libro: «Non v’è uomo che durante la sua giovinezza non abbia sentito il bisogno di dare una capatina, più o meno fortunata, nel regno delle Muse; che non abbia sentito nel cervello una fioritura spontanea di poesia, cui l’esuberanza del sentimento e dell’immaginazione alimenta e feconda. Ed anch’io feci come tutti gli altri, e molti fogli rabescai di sonettini e canzonette e versi sciolti, che andavo qua e là disseminando nei giornali o su gli scrittoi di persone amiche, senza curarmi più che tanto delle loro vicende. Ma ora che la rigida prosa della vita e qualche filo bianco tra i capelli mi cominciano ad avvertire che giunge il momento di ammainare le vele, ora ho voluto mettere insieme alcune delle superstiti paginette, e conservarle come ricordo delle fuggite illusioni, dei dolori sofferti. […] È stata una follia? Non lo so dire. Ma se la sapienza antica tollerava che s’impazzisse una volta all’anno, SEMEL IN ANNO, tanto meglio posso chiedere scusa io se sbaglierò, almeno in materia di versi, questa sola ed unica volta».
Le poesie del giovane Visalli, suddivise in tre sezioni (“Calabria”, “Spigolature”, “Pagine grigie”), risentono delle influenze letterarie di fine Ottocento: rime di carattere storico, nelle quali emerge il contrasto tra i grandi ideali del Risorgimento e la miseria della realtà dell’Italia unita; versi che rimandano al classicismo carducciano; liriche intimiste o impregnate del sentimento panico della natura. I temi prevalenti: pene d’amore e gioie dell’amore, morte e vita. Ma anche la condanna dei costumi del tempo, che costituisce il nucleo centrale di alcuni dei componimenti presenti nell’ultima sezione. Ad esempio in “Fine di un monologo”, una sorta di omaggio al poeta Giuseppe Giusti, massimo esponente della poesia satirica nell’Ottocento e creatore del personaggio Gingillino:

È ver: la penna, la vanga, il martello
non dàn guadagno e sciupan molto presto;
più rende una levata di cappello
che non sei mesi di lavoro onesto.

Bisogna che s’appoggi ad un Lucullo
e divenga un suo servo, suo trastullo,
chi non vuole morir povero e brullo.

Strisciar bisogna come Gingillino,
lodare tutto, volgere il pensiero
secondo il vento, e star dimesso e chino
come salcio piangente al cimitero.

Ahimè, la mia colonna vertebrale
è dritta, è salda, e sarà sempre tale!
Mi toccherà finire a l’ospedale.

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Graziadei Tripodi, il restauratore al servizio di Dio

A gran parte degli eufemiesi probabilmente dice poco il manifesto mortuario affisso in paese stamattina, che annuncia le avvenute esequie di Graziadei Tripodi, domenica scorsa nella Chiesa della Santissima Concezione ad Airola, in provincia di Benevento. Accade sovente, quando il defunto da molti anni vive fuori paese. Ci si limita a leggere i nomi dei congiunti, per capire a chi “appartenga” il deceduto e poi si passa oltre, distrattamente.
La morte di Graziadei Tripodi non può però passare inosservata, perché chi ci ha lasciato è (uso il presente, il tempo degli artisti, che tali rimangono per sempre) una grande personalità nel campo della scultura e della pittura: “il restauratore al servizio di Dio”.
Graziadei Tripodi, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 13 giugno 1932 al numero civico 2 di via Nucarabella, appartiene a una famiglia di artisti. Il padre, Carmelo, fu pittore, scultore, musico e fotografo. “Galileo Galielei” e “Sant’Antonio Abate” sono probabilmente i suoi dipinti più celebri (premiati all’Esposizione campionaria internazionale di Palermo, nel 1906 e nel 1907), ma molte altre sue opere d’arte sono sparse in diverse chiese della provincia (Acquaro di Cosoleto, Solano, Gioiosa Ionica, San Procopio, Palmi e ovviamente Sant’Eufemia), in Calabria e in Sicilia. Una passione per l’arte trasmessa dal genitore agli otto figli (due donne e tre maschi), in particolare al restauratore Graziadei, appunto, ad Agostino e al pittore Domenico Antonio (“L’Aspromontano”), artista di fama internazionale pluripremiato per le sue opere, esposte nelle sale più prestigiose di tutti i continenti.
Ma un ruolo non secondario per il successo dei figli lo giocò la madre Carmela Giordano, come riconobbe lo stesso Graziadei nella monografia dedicata al padre in occasione del cinquantesimo anniversario della morte (2000): «Carmela Giordano ha avuto il coraggio di lasciar andare via i propri figli, comprimendo il suo senso materno e i suoi affetti, alfine di evitare loro la “provincializzazione”, cioè il restare “chiusi”, come era successo al padre, nello stretto ambito locale, privo di significativa evoluzione nel campo dell’arte. […] Se noi, figli di Carmelo Tripodi e di Carmela Giordano, sparsi per la penisola, oggi, possiamo offrire qualche contributo all’arte, riconosciuto e gratificato, lo dobbiamo sì al gene paterno ma anche alla maternità e al sacrificio immenso di Carmela Giordano».
Di strada, nel campo del restauro, Graziadei Tripodi ne ha fatta molta. Autore di due lavori fondamentali  Il Restauro. Come e perché (Napoli, 1981), Fra restauro e pittura. Una vita al servizio dell’arte (Caserta, 2012) , le sue abili mani hanno ridato vita ad opere realizzate dai giganti del pennello e dello scalpello: su tutti, Giotto (Cappella Peruzzi, chiesa di Santa Croce in Firenze; ma anche la Cappella degli Scrovegni a Padova), ma anche gli affreschi del Solimena e del Cavallini a Napoli, oltre a un’infinità di opere, a carattere prevalentemente religioso, sparse tra Toscana e Campania, in particolare ad Airola e nel Beneventano.
A Sant’Eufemia Graziadei Tripodi fece ritorno, per un breve periodo, sul finire degli anni Ottanta. In quella circostanza fu promotore di manifestazioni a carattere religioso che ebbero uno straordinario successo (il “Presepe vivente”, tra le vie del Vecchio Abitato e la “Via crucis vivente”); quindi, diede prova della sua grande arte a San Procopio, Favazzina, ma soprattutto nel suo paese natio, grazie al restauro della statua della Santa Patrona.
Graziadei Tripodi, l’artista che portava inciso nel nome il proprio destino.

*La foto è tratta da: http://ettore.ruggiero.eu/il-maestro-graziadei-tripodi-un-capitolo-della-storia-di-airola/ 

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Archivio storico comunale, siamo sempre all’anno zero

“Se insisti e resisti, raggiungi e conquisti”: il buon vecchio Trilussa aveva le idee abbastanza chiare. Vale quindi la pena insistere, anche si rischia la figura del disco rotto. Insisto. Se non altro servirà a tenere i riflettori accesi su una questione che mi sta particolarmente a cuore e che più volte ho sollevato in convegni, presentazioni di libri, incontri con gli amministratori del comune: l’istituzione dell’Archivio storico comunale a Sant’Eufemia.
Parole al vento. Parole, che (a parole) tutti condividono, sulla valorizzazione del patrimonio culturale del nostro paese e sull’importanza del recupero della memoria storica locale, che però restano tali quando poi c’è da passare ai fatti. Ciò accade perché si investe poco sulla cultura, a tutti i livelli, non solo a quello comunale, ma anche perché manca una visione progettuale e ci si adagia su operazioni di corto respiro, che danno una visibilità immediata (e che costano anche poco, questo va detto). Da qui un rosario di iniziative, alcune dal valore discutibile, messe in campo soltanto per poterci attaccare sopra il bollino “cultura”, che tuttavia non offrono alcun contributo alla crescita culturale del paese.
L’istituzione dell’Archivio storico comunale consentirebbe invece di realizzare un bel salto di qualità. Chi ama la storia e ha familiarità con gli archivi, sa che essi costituiscono una fonte di primaria importanza per la storia di un territorio e per la ricostruzione dei processi sociali, storici e istituzionali di un comune. Un patrimonio di documenti, pergamene, carte e volumi fondamentali per riscoprire le proprie radici e comprendere le ragioni dello stare insieme, l’identità di un popolo; individuare il filo rosso che lega il presente di una comunità al proprio passato e lo proietta nel futuro.
Accanto al motivo ideale c’è poi anche la necessità di salvare dal progressivo e ineluttabile deterioramento un patrimonio che, nel caso di Sant’Eufemia, giace negli scantinati del palazzo municipale in registri e documenti privi di catalogazione, non consultabili, esposti all’umidità e alla polvere. Sul piano pratico, si tratta di riordinare, catalogare e inventariare il patrimonio documentario del comune: registri dell’anagrafe; verbali dei consigli comunali e delle giunte municipali; documenti ufficiali e corrispondenza con enti politici, uffici burocratici, personalità politiche di rilievo. Operazione che, evidentemente, potrebbe avere anche una non trascurabile ricaduta in termini occupazionali.
Sul finire del 2013, il settore cultura della Consulta cittadina aveva avanzato all’amministrazione comunale una proposta per l’istituzione dell’Archivio, che tra l’altro riprendeva uno dei punti del programma della lista vincitrice delle elezioni. Proposta purtroppo rimasta lettera morta, nonostante le iniziali buone intenzioni. Di nuovo parole al vento, impresse su carta e protocollate, dimenticate in qualche cassetto.

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L’importante è stare in compagnia

Tanto bella quanto complicata. Anzi, bella proprio perché complicata la colonia estiva dell’Agape edizione 2016. Ma i latini, con il loro per aspera ad astra, sapevano già tutto e pazienza se questo dispettoso agosto ci ha fatto penare con le sue nuvole cariche di sconforto. Setacciare il positivo nelle situazioni di difficoltà è esercizio virtuoso che aiuta a capire come va il mondo, tutto il resto è questione di volontà e di fantasia.
Nel caleidoscopio delle emozioni regalate dai nostri otto specialissimi amici ci mettiamo le parole di M., disarmanti nella loro semplicità, profonde come soltanto possono essere quella pronunciate da chi vive in una dimensione altra rispetto a quella terra terra della nostra scontata quotidianità: «Non fa niente se oggi non siamo potuti andare al mare, l’importante è stare in compagnia». Lei, sollevata perché era stato soltanto un brutto sogno il litigio con una volontaria; lei che quest’anno forse non doveva esserci, eppure è stata ancora una volta tra di noi: con il suo “time out!” per fermare gli schizzi dell’acqua e con le danze davanti alla Wii-U o tra le onde del mare, ritmi latini che sanno di sole e di allegria, di pizzette e dolci che arrivano come per miracolo sulla spiaggia di Favazzina, perché l’amore tra vicini di ombrellone è contagioso. “Paparazzina”, dove tutto ha avuto inizio quasi due decenni fa e dove quest’anno siamo stati “costretti” a tornare. Posto delle fragole vociante di bambini oggi adulti per le strade del mondo, un album di visi sfumati nel ricordo e assenze dolorose che ciascuno custodisce nel petto come dentro un’urna sacra.
Giorni a scrutare il cielo tentando di interpretare il cielo minaccioso, un occhio verso l’alto e l’altro sul display alla ricerca degli aggiornamenti meteo più attendibili. O forse soltanto più incoraggianti. Come se un po’ di pioggia avesse potuto rovinare lo spettacolo straordinario che ad ogni estate si ripete. Un’apnea lunga una settimana che in chiusura fa dire a G.: «I giorni per me sono stati tutti uguali, anche quei due trascorsi a casa: non faccio differenze». Il nostro supereroe che non era mai andato sull’altalena, ma si è fidato di quattro braccia e finalmente ha provato. Una fiducia totale che non ha bisogno di parole, che fa incrinare la voce e vela gli occhi. D’altronde, se qualcuno lo sorregge da dietro pronto ad intervenire quando le sue gambe si afflosciano, G. riesce anche a calciare il pallone. Con la forza che ha. Con tutta la forza che ha. Un destro più potente dei siluri di Cristiano Ronaldo, altroché.
Il chiasso allegro dei viaggi sul pullman della felicità, limousine giocosa per la nostra “lady” vanitosa nei suoi bikini perfetti e nella ricerca di una spalla sulla quale appoggiare la testa in posa davanti alla fotocamera, ci conferma che festa è stata. Ed è già tempo di nostalgia, anche se siamo certi che “ancora un’altra estate arriverà” e che “la voglia di cantare tanto non ci passerà”. Come nel gran finale in piazza per i 25 anni dell’Agape, con una comunità che si stringe attorno all’associazione e scrive il suo pensiero sul libro dei ricordi, mentre una volontaria non fa niente per nascondere lacrime calde di emozione.

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Le nozze d’argento dell’Agape

Nozze d’argento per l’Agape, che questa estate festeggia i suoi venticinque anni di attività nella comunità eufemiese. Correva infatti luglio 1991 quando, su impulso di don Benito Rugolino, sacerdote eufemiese che svolge la sua opera pastorale a Torino, un gruppo di amici già impegnati nel sociale si costituì in associazione di volontariato. “Agape” è amore disinteressato, donarsi al prossimo senza alcuna contropartita. La gratuità è l’aspetto prevalente.
Agape è una lunghissima storia d’amore che fa parte della storia stessa di questo nostro paese. Sono moltissimi coloro che a vario titolo si sono avvicinati all’associazione, dedicando parte del proprio tempo al servizio dei soggetti più emarginati della società con umiltà, in silenzio e lontano dai riflettori.
Il primo direttivo, presidente l’avvocato Luigi Surace, diede impulso all’assistenza domiciliare agli anziani, all’assistenza scolastica e ricreativa per i minori disagiati, alla consulenza sociale e sanitaria per i nuclei familiari bisognosi. Risale invece alla fine degli anni Novanta la realizzazione di diverse iniziative in favore dei disabili: tra tutte, la colonia estiva, che ormai rappresenta un appuntamento fisso per l’associazione presieduta dal 2002 dall’avvocato Pasquale Condello.
Tra le altre iniziative dell’associazione vanno ricordati i pellegrinaggi (almeno uno l’anno), l’organizzazione della “giornata mondiale del malato” (11 febbraio), la formazione dei volontari mediante la partecipazione a corsi come quello sul “Primo soccorso” tenuto dalla Croce Rossa Italiana e ai seminari di approfondimento, convegni e incontri organizzati dal MOVI (movimento organizzato volontari italiani), i progetti realizzati in collaborazione con l’amministrazione comunale e dedicati agli anziani (assistenza domiciliare), ai disabili (attività di affiancamento agli insegnanti di sostegno nelle scuole) e ai minori provenienti da nuclei familiari disagiati (assistenza scolastica). Proficua, negli ultimi anni, si è rivelata inoltre la sinergia con il locale liceo scientifico “Enrico Fermi”, in virtù della partecipazione al concorso “Scatti di valore”, ideato dal Centro servizi al volontariato dei Due Mari di Reggio Calabria al fine di promuovere nelle scuole secondarie di secondo grado i valori del volontariato, mediante una serie di attività (laboratori, esperienze di cittadinanza attiva, concorso fotografico “Scatti di valore. Sguardi sui valori del volontariato”). Accanto a queste attività e ai banchetti allestiti per la raccolta di fondi (ad esempio: “l’azalea della ricerca” per sostenere l’Airc nella lotta contro il cancro, in occasione della festa della mamma), vanno ricordate le iniziative di solidarietà realizzate a Natale e a Pasqua: le visite domiciliari agli anziani, il veglione e la tombolata di solidarietà a Natale, la “Via Crucis” presso la Residenza sanitaria assistenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Nei venticinque anni di attività l’associazione è riuscita anche a realizzare qualche sogno, piccole cose che hanno però un valore inestimabile per chi – prendendo a prestito le parole del fondatore don Benito Rugolino – ha fatto sì che “il seme piantato nel 1991 è diventato una pianta robusta”. In occasione del decennale, l’acquisto di un pulmino per il trasporto di minori, anziani e disabili, grazie alla generosità di quanti – e sono tanti – dimostrano con gesti concreti di apprezzare e sostenere l’operato dell’Agape. Nel 2011, il pellegrinaggio a Lourdes con i disabili, realizzato nel ricordo di Adele Luppino, volontaria dell’Associazione che ci ha prematuramente lasciati. Infine, l’11 e il 12 giugno scorsi, il pellegrinaggio a Roma per il Giubileo degli ammalati e delle persone disabili, con la partecipazione alla manifestazione “Oltre il limite” e alla Santa Messa celebrata in piazza San Pietro da Papa Francesco.

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La classe mista di via Regina Margherita, anno scolastico 1952-53

Quando ancora non era stato costruito l’edificio dell’attuale Scuola elementare “Don Bosco” (1957), le varie classi venivano ospitate in differenti case private o baracche edificate dopo il terremoto del 1908. In una di queste abitazioni, che si trovava in via Regina Margherita, mio zio Carmelo e mio cugino Gaetano frequentarono la prima classe “mista”, nel primo giorno di scuola accompagnati per mano – come ama ricordare Gaetano – da mia nonna Ciccia.
La maestra che impartì ai due bambini i primi insegnamenti si chiamava Calogera Sciacca. Le lezioni vertevano sulle seguenti discipline: religione; educazione morale, civile e fisica (che comprendeva anche la condotta); lingua italiana; aritmetica e geometria; disegno e bella scrittura. A partire dalla terza classe, a queste andavano aggiunte altre materie: lavoro; storia e geografia; scienze e igiene; canto.
Nella fotografia scattata poco prima delle vacanze di Natale, da destra verso sinistra – in posa davanti alla maestra Sciacca – sono riuscito a identificare i primi quattro alunni: Antonino Luppino, Graziella Ortuso, Carmelo Pentimalli, Gaetano Comandè. L’alunna alla sinistra della maestra è Maria Monterosso; quella accanto all’albero di Natale è invece Annunziata Surace.

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Alluvioni, ieri e oggi

Storia vecchia quella delle alluvioni disastrose. Pensavo a questo mentre sui social si rincorrevano immagini, video e aggiornamenti del terrificante acquazzone (“bomba d’acqua”, secondo i giornalisti à la page) che ha interessato anche il nostro paese. Storie di danni e di frane, di acqua che porta via tutto: “nera che porta via, che porta via la via”, anche se non ci troviamo nella Genova di Fabrizio De Andrè, ma in questa terra violentata dagli uomini e punita dalla furia degli elementi. Storie vecchie che conosciamo bene, anche a Sant’Eufemia, ma che poco sembrano insegnare.
Correva l’anno 1878 (10 ottobre) quando un violentissimo temporale, tra le tre e le cinque di notte, causò due vittime, la rovina di diverse abitazioni e il crollo dei ponti Portella e Annunziata. Un disastro che si ripeté il 30 dicembre dello stesso anno, danneggiando le case costruite nelle adiacenze del fiume e, addirittura, facendo temere il cedimento di un angolo della chiesa (che venne chiusa al pubblico) e del resto della piazza attraversata dalla strada provinciale, nel tratto sopra la volta del torrente Nucarabella, dopo che la violenza dell’acqua aveva sfasciato le briglie.
Sant’Eufemia non fa eccezione e al suo territorio è possibile applicare la metafora dello “sfasciume pendulo sul mare” utilizzata da Giustino Fortunato agli inizi del Novecento per definire l’assetto idrogeologico della Calabria. Anche noi abbiamo “torbidi torrenti” che corrono verso il mare e, come in Gente in Aspromonte, quando Giove Pluvio si mette d’impegno, anche da noi “la terra sembra navigare sulle acque”.

Sono diversi i casi di dissesto idrogeologici segnalati negli anni dalle varie amministrazioni comunali. Con scarsi risultati perché gli interventi di messa in sicurezza, in una situazione così degenerata, hanno costi molto elevati. Basti pensare all’area circostante il ponte della ferrovia, quella probabilmente di maggiore pericolo, per la quale è mancata nel tempo una cura puntuale, tempestiva, ordinaria. Risultato? Ogni anno che passa l’erosione aumenta, i pilastri appaiono sempre più scalzati, le briglie rotte ormai inghiottite dall’alveo del fiume. E più o meno così vanno le cose nelle altre aree a rischio, ad esempio nella zona dell’Annunziata, dove è avvenuta la frana alla quale si riferiscono le fotografie. Ma altre frane e smottamenti si sono verificati un po’ ovunque, nelle frazioni e lungo le vie di comunicazione, con disagi più o meno consistenti e una brutta disavventura conclusasi con qualche danno e molto spavento.
Uno stato di cose per il quale ci sono anche responsabilità umane, certo. Cementificazione selvaggia, disboscamenti scriteriati, letti dei torrenti diventati discariche che nessuno più pulisce, così come le cunette perennemente intasate che trasformano le strade in piscine. Ce ne ricordiamo ogni volta che la paura ci fa capire quanto siamo piccoli di fronte alla potenza distruttrice della natura, mentre tiriamo un sospiro di sollievo perché tragedia non c’è stata. Perché il destino, stavolta, ha voluto essere benevolo.

*Fotografie di Sara Bonfiglio

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Il principe dell’estate

«U professuri Garzu calau?». Per i chjazzoti (habitués di piazza Matteotti, rione Pezzagrande), da oltre quarant’anni l’inizio dell’estate coincide con l’arrivo in paese di Saverio Garzo; la fine, con la sua ripartenza per Asso (Como), dove risulta domiciliato. La residenza no, quella l’ha sempre mantenuta a Sant’Eufemia: un modo per rimanere attaccato alle proprie radici, credo. Ai valori di quella civiltà contadina cui spesso fa riferimento, con rimpianto, quando la conversazione cade sulla crisi della società attuale.
Non esiste un albo di tutti quelli che siamo scesi al mare, a Scilla, con Saverio. Rigorosamente Scilla, dove con la sua piccola dama ci attendeva Rocco, che poi Saverio avrebbe fatto venire a Sant’Eufemia per sottoporlo, sotto la pergola del bar Mario, alla prova del fuoco contro il fuoriclasse eufemiese Ceo “Galera”.
Siamo scesi, sì: io tra questi, insieme ai miei due fratelli, nella seconda metà degli anni Ottanta. Arrivavamo con i nostri teli da mare (la mia riproduceva una formazione dell’Inter sfigatissima di quel periodo) a casa dei suoi genitori e della sorella Marina, che subito autorizzava Mario – il più piccolo – a salire al piano di sopra: «Va’ rrussigghialu, c’ancora dormi!». E poi via, a bordo della BMW 316, come sottofondo ottima musica: su tutte, le musicassette di un De Andrè forse non proprio estivo (indimenticabile l’incipit della canzone Il testamento: “Quando la morte ti chiamerà”), ma foriero di suggestioni che la maturità avrebbe consentito di cogliere nella loro grandezza.
Asciutto, ossuto, con quei baffoni e il cespuglio di capelli neri (poi brizzolati, oggi bianchi), Saverio è un incrocio tra Carlos Santana e un asceta indiano, tra il bomber brasiliano Antonio Careca e un contadino precolombiano.
Autore di burle atroci e pesantissime, ormai entrate nell’immaginario collettivo: dalla simulazione dell’incidente stradale con i morti sul ciglio della strada, che gli è valso un litigio durato decenni, alla sparatoria con tanto di sangue sul petto della vittima; al travestimento da donna di facili costumi per adescare la vittima di turno, con il favore del buio del luogo scelto per la messinscena, che per poco non provocò un esito “tragico” e grottesco.
Ma anche capace di ricorrere al gioco per celare una profonda umanità, come quella volta che si “sostituì” all’amico vu’ cumprà e, dopo avere percorso la spiaggia di Scilla in tutta la sua lunghezza, riuscì a vendere gran parte della mercanzia.
Per molti anni Saverio è stato il principe dell’estate eufemiese. Non che ora non dia il suo contributo, ogni volta che qualcuno lo contatti per presentare una serata o lo coinvolga nell’organizzazione di un evento popolare. Tuttavia, il suo nome è legato indissolubilmente alle manifestazioni allestite dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, una stagione d’oro che l’ha visto protagonista come volto “ufficiale”. Una sorta di Mago Zurlì, amatissimo dai bambini che si esibivano nelle serate del “Mini Festival” e dai ragazzini impegnati nelle prove simpaticissime dei “Giochi senza Frontiere”.
Serate che hanno fatto la storia (piccola, ma pur sempre storia) del nostro paese, alle quali chi c’era guarda con un pizzico di nostalgia. In questo ideale album dei ricordi, in questo malinconico “com’eravamo” c’è Saverio con la sua allegria, nel cuore il desiderio semplice di divertirsi e di divertire, di strappare un sorriso, di regalare alla comunità un paio d’ore di serenità.

*Nella foto, tratta dal profilo Facebook di Francesca Tripodi, Saverio Garzo mentre presenta una serata del Gruppo Folcloristico. Alla sua destra, Mimma Cutrì.

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Michele Fimmanò

Michele Fimmanò (all’anagrafe Michele Vincenzo Rosario Antonio Giuseppe Fimmanò Licastro), figlio dell’avvocato Ermenegildo e di Isabella Misiano, nacque a Sinopoli il 6 marzo 1830. Un suo avo (l’avvocato Vincenzo) era stato governatore di Melicuccà, paese d’origine del ramo paterno, una famiglia molto facoltosa che possedeva vaste proprietà fondiarie anche a Sinopoli e a Sant’Eufemia, dove infine si stabilì.
Il giovane Michele trascorse il turbolento periodo del Quarantotto a Napoli, al seguito dello zio Gabriele Fimmanò, che ebbe un ruolo importante per la sua formazione e del quale in seguito sposò la figlia Maria Giuseppa. Amante dei classici latini e greci, nel periodo napoletano conseguì il diploma in lettere e filosofia e la laurea in giurisprudenza, curò una traduzione delle Satire di Orazio e delle Catilinarie di Sallustio e, nel 1849, diede alle stampe Della influenza del sangue sui nostri pensieri, un’opera dall’approccio interdisciplinare che precorreva gli studi integrati di fisiologia, psicologia e sociologia tipici del positivismo.
Rientrato a Sant’Eufemia esercitò la professione forense, si dedicò all’amministrazione del suo cospicuo patrimonio (nel 1882 il “valore approssimativo degli stabili posseduti nel comune” da Fimmanò ammontava a 550.000 lire) e cominciò a muovere i primi passi della sua lunghissima carriera politica, grazie all’inserimento nella lista degli eleggibili per il Decurionato, l’antenato del consiglio comunale nella fase preunitaria, la cui composizione avveniva per sorteggio tra i possessori di una rendita, variabile a seconda del numero di abitanti del comune. “Secondo eletto funzionante da sindaco” nel 1854, ricoprì la carica di primo cittadino nel triennio successivo. Risale a questi anni la divisione dell’antica parrocchia, istituita nella chiesa di S. Maria delle Grazie dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo la vecchia chiesa matrice. Protagonisti di questo snodo cruciale nella storia di Sant’Eufemia furono il vescovo di Mileto Filippo Mincione e il sindaco Fimmanò, il quale nell’istanza inoltrata al sovrano Ferdinando II, il 12 giugno 1855, motivò la richiesta con la constatazione che il sisma aveva provocato lo spostamento di numerose famiglie dal “Paese Vecchio” al quartiere “Petto”, che ora contava più di 3.000 abitanti. La seconda parrocchia, per la cui istituzione si espresse favorevolmente anche il vescovo con considerazioni che furono allegate alla domanda presentata da Fimmanò, fu fondata con decreto vescovile del 19 agosto 1856: il “placet” di Ferdinando II arrivò poi il 14 ottobre, mentre il 16 settembre – in concomitanza con i festeggiamenti patronali – la cura della nuova parrocchia fu affidata al sacerdote e teologo Rocco Cutrì.
Sull’atteggiamento di Michele Fimmanò nella fase di transizione dal regime borbonico allo Stato unitario sotto l’egida dei Savoia, le testimonianze sono discordanti. Nella commemorazione ufficiale seguita alla sua morte, il sindaco Pietro Pentimalli ne sottolineò “la devozione pei due titani [Mazzini e Garibaldi] del nostro riscatto e per la dinastia che rese possibile e volle la libertà nostra”. Alcuni suoi oppositori lo accusarono invece di “tiepidezza” nei confronti del processo risorgimentale e ne sottolinearono l’atteggiamento defilato sia nel 1848 che nel 1860. Per Stefano Forgione, autore nel 1874 di un esposto al prefetto di Reggio Calabria, Fimmanò era stato addirittura il capo della “vituperata marmaglia… nemica del Risorgimento” e una spia del governo borbonico. Molto più verosimilmente, egli si comportò come gran parte della classe dirigente meridionale: cauto e attendista in una prima fase, filopiemontese nel momento in cui lo Stato unitario, per potere funzionare, ebbe necessità di rivolgersi al personale politico e amministrativo delle entità statuali preesistenti. Uno dei tanti “matrimoni di convenienza” che hanno trovato nelle pagine del Gattopardo la consacrazione letteraria e l’istantanea più autentica del passaggio tra le due epoche.
Nella fase di maggiore caos politico, Fimmanò non solo non partecipò alle vicende amministrative eufemiesi, ma addirittura non visse a Sant’Eufemia, preferendo invece risiedere a Sinopoli. Vi fece ritorno a normalizzazione compiuta e – subito – riabbracciò la politica attiva: eletto consigliere comunale nel 1864 e consigliere provinciale nel 1868, fu riconfermato a suon di preferenze in entrambe le cariche fino alla sua morte (nelle elezioni provinciali del 1899 conseguì il record di 546 voti su 549 iscritti nelle liste elettorali). In sintesi, la storia politica di Sant’Eufemia d’Aspromonte nel periodo dell’Italia liberale coincide con la biografia di Michele Fimmanò, commendatore nell’Ordine della Corona d’Italia e deus ex machina dell’amministrazione comunale eufemiese.
La sua preparazione giuridica si rivelò di fondamentale importanza per la corretta interpretazione e l’applicazione dei codici piemontesi nella fase di transizione dal sistema giuridico borbonico al nuovo ordinamento. Delegato del ministero della Pubblica Istruzione per il mandamento di Sant’Eufemia, fu inoltre sindaco dal 1876 al 1881 e ripetutamente regio delegato per l’amministrazione temporanea del comune, nominato dal prefetto per gestire situazioni amministrative spinose o emergenze della più svariata natura.
Commissario per il dopo terremoto del 16 novembre 1894 (sette morti, duecento feriti e il crollo totale o parziale di circa mille abitazioni), guidò l’opera di ricostruzione realizzata dal governo e dai comitati di soccorso, sorti in tutta Italia, che portò all’edificazione del baraccamento in località “Pezzagrande”: una decisione contrastata da quella parte di cittadinanza affezionata all’originario assetto urbanistico del paese, che anticipò le ancor più vivaci polemiche della ricostruzione nel post 1908. Da presidente del consiglio provinciale fu componente del comitato di soccorso costituito in occasione dell’incendio che distrusse il rione “Borgo” (18 settembre 1902) e che, per diversi anni, costrinse circa cinquecento residenti a riparare in alloggi di fortuna. Infine, dopo il terremoto del 1908, insieme al notaio Pietro Pentimalli fu il regista della composizione della lista che in un clima di fortissime tensioni promosse la ricostruzione del paese nel rione “Pezzagrande”.
L’attuale suddivisione del centro urbano nei tre grandi rioni “Paese Vecchio”, “Petto” e “Pezzagrande” rappresenta il lascito dell’impegno politico e amministrativo di Michele Fimmanò (il quale morì l’11 febbraio 1913) e proprio per tale motivo, oggi, una delle vie principali del nuovo quartiere porta il suo nome.

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