I novant’anni dell’omicidio Matteotti e quella volta che Sandro Pertini beffò il regime fascista

Il 10 giugno 1924 una banda di squadristi guidata da Amerigo Dumini e in stretti rapporti con Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio, sequestra e uccide il segretario del partito socialista Giacomo Matteotti. Il gruppo fa parte della Čeka, una sorta di polizia segreta reclutata dal ministero degli Interni per portare a termine il lavoro “sporco” contro gli oppositori antifascisti più irriducibili. Matteotti è uno di questi. All’indomani delle elezioni del 6 aprile 1924, tenute con la famigerata legge “Acerbo”, denuncia i brogli e le violenze subite dai partiti di opposizione nel corso della campagna elettorale. Dopo il discorso parlamentare del 30 maggio, con il quale il segretario socialista chiede l’annullamento delle elezioni, Mussolini esprime a Rossi il convincimento che era giunto il momento di una “lezione”. E la lezione arriva il 10 giugno, quando Matteotti viene rapito sul lungotevere “Arnaldo da Brescia”. Il corpo in stato di decomposizione viene ritrovato il successivo 16 agosto nel bosco della “Quartarella”, a una ventina di chilometri a nord di Roma.
Il governo attraversa una grave crisi politica e sembra sul punto di crollare sotto il peso della reazione dell’opinione pubblica. Gli errori tattici delle forze di opposizione, che si ritirano nell’Aventino e attendono invano una mossa del re Vittorio Emanuele III consentono però a Mussolini di superare il difficile momento e imprimere addirittura un ulteriore giro di vite alla già traballante vita democratica del Paese. Il 3 gennaio 1925 il fondatore del fascismo pronuncia infatti il discorso che segna il passaggio dalla democrazia liberale alla dittatura e assume in prima persona “la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. Tra il 1925 e il 1926 vengono approvate le leggi “fascistissime”: definizione delle attribuzioni e delle prerogative del “capo del governo”, non più “presidente del consiglio”, né primus inter pares; abolizione della libertà di stampa e del diritto allo sciopero; scioglimento delle opposizioni politiche e dei sindacati; controllo di polizia su tutte le associazioni; istituzione del confino politico e del Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato; abolizione delle rappresentanze elettive dei comuni e introduzione del podestà; pena di morte. Il governo diventa regime. Nel 1928 il processo viene perfezionato con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, l’abolizione del Consiglio e della Deputazione provinciale, l’introduzione del plebiscito (nel 1939 ci sarebbe stata la definitiva abolizione dei “ludi cartacei” e l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Infine, nel 1938, la vergogna delle leggi razziali.

In vista del primo anniversario dell’omicidio Matteotti, le autorità di polizia mettono in campo le contromisure per evitare la proposizione di iniziative antifasciste. A Savona però qualcosa sfugge alle strette maglie del controllo fascista, cosicché il giovane Sandro Pertini riesce a portare a compimento la beffa organizzata con i compagni socialisti e comunisti. Di seguito, il racconto del futuro presidente della Repubblica.

Dopo il processo a mio carico del 2 giugno 1925, ripresi la mia attività antifascista. Così pensai di onorare pubblicamente la memoria di Giacomo Matteotti. Presi accordi con giovani comunisti. Allora in Savona, per mia iniziativa, si era costituito un fronte politico che andava da noi socialisti unitari ai comunisti, in difesa di Sacco e Vanzetti. Questo fronte naturalmente svolgeva anche attività antifascista. Avevo in quell’epoca costanti contatti con esponenti comunisti, tutti in gambissima: Pippo Rebagliati, Alietto, poi sindaco di Savona, Crotta… Li misi al corrente del mio piano per Matteotti. Essi l’approvarono e mi assicurarono la collaborazione di giovani comunisti molto coraggiosi e intelligenti. Ed ecco la diavoleria che combinai. Il 9 giugno 1925 mi recai da un fioraio e ordinai una corona di alloro piccola di diametro, poi acquistai un nastro rosso e grandi lettere dell’alfabeto in cartone dorato. Andai nel mio studio e attaccai sul nastro le lettere dell’alfabeto in maniera da comporre questa frase: «Onore a Giacomo Matteotti». Confezionai quindi un pacco che potesse apparire come un grosso panettone. Verso la mezzanotte mi recai alla stazione in modo da non essere visto e ne uscii confuso con i passeggeri dell’ultimo treno che arrivava da Genova. La notte tra il 9 e il 10 Savona era pattugliata in lungo e in largo da squadristi e da militi fascisti armati di manganello, perché le autorità temevano che si preparasse qualche cosa per ricordare l’anniversario dell’assassinio di Matteotti. Io, col mio pacco, me ne vado dalla stazione al Prolungamento, verso la località ove un tempo vi era la fortezza in cui fu prigioniero Giuseppe Mazzini. Sul muro della fortezza, che dava su una piazza, c’era un gancio proprio sotto la lapide, che ricordava la prigionia di Mazzini. A quel gancio era usanza appendere corone per ricordare anniversari patriottici. Lungo il muro si alzava una siepe. Ricordo che l’appuntamento con i comunisti l’avevo in un posto non molto poetico, cioè un vespasiano che era sulla destra andando verso il mare. Vado nel vespasiano e vi trovo un giovane comunista che mi dice che dietro la siepe mi attendono due suoi compagni. Entro nella siepe e li trovo. E’ trascorsa mezzanotte. Sentiamo passare le pattuglie dei fascisti. Rimaniamo in silenzio, quasi a trattenere il fiato. Passate le pattuglie i due giovani mi alzano ed io appendo la corona al chiodo. Aggiusto bene il nastro perché la scritta appaia chiaramente. Ci abbracciamo e, felici del colpo riuscito, ognuno se ne va per la sua strada. Gli operai dell’Ilva, fabbrica allora vicina alla fortezza, avvertiti la sera prima, mentre vanno il mattino del 10 al lavoro sfilano in silenzio sotto la corona, si tolgono il cappello e la guardano… e qualcuno aveva le lacrime agli occhi. La corona, caso strano, nonostante la rigorosa sorveglianza, venne scoperta solo verso le 11 del giorno 10. Le autorità immediatamente pensano a me quale autore del… misfatto. Si riuniscono gli esponenti fascisti presso il procuratore del re; viene esaminata l’azione e studiati i provvedimenti da prendersi. Il procuratore conclude che, non essendovi gli estremi di alcun reato, non può spiccare mandato di arresto nei miei confronti. «Ci penseremo noi!», dicono i fascisti. E ci pensarono: il 12 giugno fui manganellato a sangue.

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Perché la Liberazione non sia solo una data cerchiata di rosso

Condannato, dopo diversi anni di esilio e di fuga, a undici anni di reclusione dal tribunale speciale per la difesa dello Stato, Sandro Pertini si trova nel carcere dell’isola di Pianosa quando le sue condizioni di salute si aggravano. Incitata dagli amici del figlio, la madre scrive alle autorità per chiedere la grazia, ma Pertini si dissocia immediatamente dalla richiesta con una sconfessione dai toni durissimi e carica di dignità: “mi sento umiliato – scrive Pertini – al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà”: 

Mamma,
con quale animo hai potuto fare questo? Non
ho più pace da quando mi hanno comunicato, che tu hai presentato domanda di
grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti
pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda.
Debbo frenare lo
sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debba mai dimenticarlo.
Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? Lo sai bene, che è tutto
per me, questa mia fede, che ho sempre amato tanto. Tutto me stesso ho offerto
ad essa e per essa con anima lieto ho accettato la condanna e serenamente ho
sempre sopportate la prigione. E’ l’unica cosa di veramente grande e puro, che
io porti in me e tu, proprio tu, hai voluto offenderla così? Perché mamma,
perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di
vergogna – quale smarrimento ti ha sorpreso, perché tu abbia potuto compiere un
simile atto di debolezza?
È mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure
per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede
politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso, che
tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei
improvvisamente cosi allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io
sento per la mia idea?
Come si può pensare, che io, pur di tornare libero,
sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può
importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli
uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di
questo tradimento, che si è osato proporre a me.
Nulla può giustificare
questo tuo imperdonabile atto.
Lo so, più di te sono colpevoli coloro che ti
hanno consigliata di compierlo. Vi sono stati spinti dall’amicizia che per me
sentono e dalla pietà che provano per le mie condizioni di salute?
Ma pietà
ed amicizia diventano sentimenti falsi e disprezzabili, quando fanno compiere
simili azioni. Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e
con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e
non ne voglio. Ma mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque,
propormi un cosi vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata
persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero, che io non ti trovi più al
mio ritorno. Ma dimmi, mamma, come potresti abbracciare tuo figlio, se a te
tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei vivere vicino, dopo
aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata?
No mamma, meglio
che tu continui a pensarlo qui, in carcere, ma puro d’ogni macchia, questo tuo
figliuolo, che vederlo vicino colpevole, però, d’una vergognosa viltà.
Che
male ho fatto per meritarmi questa offesa?
Forse ho peccato di orgoglio,
quando andavo superbo di te, che con fiera rassegnazione sopportavi il dolore di
sapermi in carcere. E ne parlavo con orgoglio ai miei compagni. E adesso non
posso più pensarti, come sempre ti ho pensata: qualche cosa hai distrutto in me,
mamma, e per sempre. È bene che tu conosca la dichiarazione da me scritta
all’invito se mi associavo alla domanda da te presentata. Eccola: “ La
comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi
umilia profondamente.
Non mi associo, quindi, ad una simile domanda, perché
sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia
stessa vita, mi preme”.
Per questo mio reciso rifiuto la tua domanda sarà
respinta. Ed adesso non mi rimane che chiudermi in questo amore, che porto alla
mia fede e vivere di esso. Lo sento più forte di me, dopo questo tuo atto.
E
mi auguro di soffrire pene maggiori di quelle sofferte fino ad aggi, di fare
altri sacrifici, per scontare io questo male che tu hai fatto. Solo così
riparata sarà l’offesa, che è stata recata alla mia fede ed il mio spirito
ritroverà finalmente la sua pace. Ti bacio tuo Sandro.
P.S. Non ti
preoccupare della mia salute, se starai molto priva di mie lettere.
Pianosa,
23 febbraio 1933

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25 aprile, per non dimenticare

La Resistenza e la Liberazione sono nella dignità delle parole con cui Sandro Pertini, il 23 febbraio 1933, si dissocia dalla domanda di grazia presentata dalla madre al Tribunale Speciale:

La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente.

Non mi associo dunque a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme.

Il recluso politico

Sandro Pertini

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