Berlusconi non è un fungo

Di fronte alle nuove puntate degli scandali che con cadenza giornaliera ci vengono somministrate, è lecito porsi qualche interrogativo, senza per questo essere tacciati di fare del moralismo da quattro soldi. D’altronde, è stato rilevato da diversi sondaggi e la stessa opposizione ne ha dovuto prendere atto, “la rivolta non scatta”. L’opinione pubblica – a parte l’indignazione di una parte – non ha avuto una reazione vigorosa. Anzi, non è minoritaria la convinzione che nel privato ognuno possa fare quel che gli pare. Anche andare a prostitute con minorenni. È questo il dramma della nostra società. Dov’è il limite di quello che un tempo i bacchettoni da sagrestia chiamavano “comune senso del pudore”? Non si vuole certo tornare a quel periodo di integralismo (e bigottismo), però un uomo – che per di più ricopre un incarico pubblico – deve porsi qualche freno.
La rivolta non scatta per diversi motivi, alcuni banali, altri avvilenti. La mancanza di un’alternativa a Berlusconi: il vuoto pneumatico che si scorge dall’altro lato spinge molti cittadini a considerare meno dannoso Berlusconi, con le sue poche virtù pubbliche e i molti vizi privati, di una sinistra incapace di darsi un orizzonte politico credibile. La crisi economica, che rende meno “sentito” il tema della moralità dei politici rispetto alla quotidiana fatica di unire il pranzo con la cena. Ma anche il quadro desolante che emerge dalle intercettazioni. Diventa una comoda giustificazione affermare che Berlusconi è il male assoluto. Come se il presidente del consiglio non sia un prodotto della società italiana. Un mio professore era solito usare una metafora efficace per convincerci che l’avvento del fascismo non fosse un esito obbligato della crisi dello stato liberale. Un’altra strada era possibile, quella fatta intravedere da Francesco Saverio Nitti durante il suo governo, e per rafforzare il concetto di come lo statista lucano rappresentasse la possibilità di uno sbocco democratico, esclamava: “Nitti non era un fungo”. Non fu una parentesi Mussolini (contrariamente a quanto sostenne una frangia della cultura liberale), non è – per aggiornare la metafora – un extraterrestre Berlusconi.
I censurabilissimi e, secondo l’accusa, illeciti comportamenti del premier rispecchiano un diffuso degrado etico che induce a considerare il denaro e il successo i principali parametri per misurare il valore delle persone. Tutto il resto è secondario. Qualsiasi scorciatoia è ammissibile, anche quella che spinge una ragazza a travestirsi da infermiera per “curare” l’attempato potente con qualche prodigioso giochino erotico. E pazienza se Berlusconi “è diventato pure brutto”, “un po’ ingrassato”, “più di là che di qua”; addirittura, “una caricatura del Bagaglino”. L’importante è che sganci. Come confida una delle ragazze coinvolte nell’inchiesta, “un cristiano normale lavora sette mesi” per prendere l’equivalente di quanto si può ottenere (in nero) dopo una notte ad Arcore.
Sono sconcertanti quei parenti che incitano le ragazze a darsi da fare. Un fratello che incoraggia la sorella: “quello ci risolve tanti problemi a tutti, a mamma, a te e a me”; un papà che invita la figlia a svegliarsi per non essere scavalcata nella graduatoria delle preferenze; la mamma che chiede alla figlia quanto denaro è riuscita a scucire; un genitore che esclama: “magari!”, invece di sbranare il giornalista che chiede se la figlia sia fidanzata con un uomo di cinquant’anni più grande; l’altro che al turbamento della figlia per l’orgia cui ha assistito (“te la dico in una parola per essere fini, un puttanaio”) contrappone una comprensibile giustificazione: “davanti a quella cosa lì gli uomini sono tutti uguali”. Tutto questo fa cadere le braccia, ma fa anche riflettere sul fallimento delle principali “agenzie” educative: famiglia, scuola, chiesa. Se queste tre istituzioni non riacquisteranno la credibilità e l’autorevolezza perdute, sarà impossibile riemergere dal gorgo in cui stiamo affondando.

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Aridaje…

Toccherà alla magistratura stabilire se i comportamenti del presidente del consiglio abbiano rilevanza penale e prefigurino i gravissimi reati contestati nelle trecento pagine dell’invito a comparire che gli è stato recapitato nei giorni scorsi: concussione e prostituzione minorile. I fatti, ormai noti, riguardano la famosa telefonata fatta dal premier alla questura di Milano per fare rilasciare Ruby “Rubacuori”, affidandola alla consigliera regionale lombarda Nicole Minetti (l’igienista dentale del premier diventata soubrette a “Colorado Café” e poi inserita nel listino bloccato della lista Formigoni) la quale, in realtà, appena fuori dal palazzo la consegnò ad una prostituta brasiliana. Sta però alle coscienze individuali – alla sua e a quelle di coloro che, silenziosi e accondiscendenti, gli stanno vicino – fare qualche considerazione obiettiva su uno stile di vita che, senza essere moralisti o bacchettoni, è quanto meno sconveniente per chi al cospetto del mondo rappresenta un’intera nazione. Senza girarci troppo intorno, ci troviamo di fronte ad un premier che, per usare il benevolo eufemismo del fido Ghedini, è un “utilizzatore finale” di escort. Il tentativo di spostare l’attenzione sulla violazione della privacy di Berlusconi, che ha ironizzato sul nuovo reato di “cena privata a casa del presidente del consiglio”, non fuga i sospetti sulle otto notti trascorse da Ruby ad Arcore e su tutto ciò che è emerso dalle indagini. Un giro di ragazze che vivono all’Olgettina, in appartamenti di proprietà di Berlusconi avuti in comodato d’uso gratuito (l’accusa sostiene in cambio di prestazioni sessuali), laddove aveva abitato la stessa Nicole Minetti prima della trafila che l’ha portata al Pirellone. Minetti che risulta indagata, con Emilio Fede e Lele Mora, per induzione e favoreggiamento della prostituzione (sarebbero stati loro a individuare, selezionare e mandare dal premier le ragazze), mentre Giuseppe Spinelli sarebbe l’uomo di fiducia che si occupava delle spese per il mantenimento delle ragazze a Milano Due. È ciò che aveva denunciato Veronica Lario, senza per questo essere querelata: un marito “malato”, circondato da personaggi che conoscendone le debolezze e i vizi organizzano tutto “a sostegno del divertimento dell’imperatore”. Uno spaccato desolante e stridente con quanto viene propagandato in vista delle possibili prossime elezioni. La foto apparsa sulla copertina di “Chi” pochi giorni prima che riesplodesse lo scandalo, volta a trasmettere l’immagine della famiglia perfetta, radunata per celebrare le festività natalizie, è marketing elettorale.
Il presidente dei senatori della Lega, Federico Bricolo, sostiene che “i cittadini non capiscono come mai l’attenzione sia rivolta a Berlusconi e non ai criminali”. Forse è sempre il vecchio discorso della moglie di Cesare, che deve essere al di sopra di ogni sospetto, essere morigerata e, soprattutto, apparire tale. Che l’abitazione di Berlusconi sia frequentata da escort dovrebbe provocare un moto di indignazione, non fare gridare al complotto. Com’è possibile che una ragazza come Ruby, sbandata e scappata da una comunità, sia finita ad Arcore? E come è possibile che una prostituta (la brasiliana che telefonò a Berlusconi per dirgli che Ruby era finita in questura) abbia il numero di telefono del presidente del consiglio?
Umanamente fa pena una persona anziana che trascorre con una escort la notte di San Valentino. Siamo di fronte ad un uomo solo, molto solo. Ma anche alla realizzazione del feroce avvertimento di Cetto La Qualunque: “ricordatevi che voi siete la fiction, io la realtà”.

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C’è molta confusione sotto il cielo del PD. La situazione dovrebbe essere eccellente (ma non lo è)

Come Jacques de La Palisse, il generale francese morto in battaglia a Pavia nel 1525, anche il partito democratico “se non fosse morto sarebbe ancora in vita”. La parabola elettorale del PD dimostra come in politica quasi mai due più due fa quattro. Il tentativo di fondere due tradizioni importantissime nella storia della Repubblica italiana, quella cattolica e quella comunista, è stata un’iniziativa nobile e per certi versi romantica. Ora però occorrerebbe prendere atto che l’esperimento è fallito miseramente e che, probabilmente, sarebbe il caso di fare un passo indietro. Se errare è umano, perseverare, in questo caso, è masochista. È evidente che alleati ma separati si ottengono risultati più positivi, alla faccia della vocazione maggioritaria del partito e di un bipartitismo impossibile nel nostro sistema politico. Lo dice anche la storia. L’unificazione socialista realizzata nel 1966 fu sonoramente rispedita al mittente dagli elettori due anni più tardi, quando PSI e PSDI ottennero, insieme, il 4,5% di voti in meno rispetto a quelli conquistati, separatamente, nelle precedenti elezioni. Guarda caso, una percentuale quasi identica a quella ottenuta dal PSIUP, che in quell’occasione realizzò l’unico exploit della sua breve esistenza. Nenni e Saragat, che non erano fessi, compresero che quella bocciatura esprimeva la rivendicazione di un elettorato che voleva custodire gelosamente la propria identità. Per cui preferirono fare ritorno ai rispettivi alvei partitici.
E poi, cos’è, oggi, il PD? Qualcuno sarebbe in grado di spiegarne strategia e linea politica? La sua classe dirigente è sempre impegnata a rincorrere e strattonare la giacca di chi, incidentalmente e per le più svariate ragioni, sembra essere in grado di mettere in difficoltà Berlusconi. Lo ha fatto con Fini, con Casini, con Montezemolo, con Emma Marcegaglia, addirittura potrebbe essere disposta a farlo con Tremonti. Ma così non si va da nessuna parte. Altrimenti avrebbero dovuto puntare su José Mourinho o Veronica Lario, gli unici davvero in grado di appannare l’immagine di invincibile che il premier con ostentato auto-compiacimento promuove. A furia di flirtare con il terzo polo, nell’attesa messianica di un incidente di percorso che azzoppi definitivamente il presidente del consiglio, il PD si è ridotto a fare il figurante di una rappresentazione in cui i protagonisti sono altri. Guardiamo a casa nostra, in Calabria. C’è un commissario, Adriano Musi, con un compito poco chiaro a lui per primo. Adamo e Bova, i dioscuri provenienti dalla tradizione comunista, al momento sono fuori dal partito. L’altro uomo forte del PD calabrese, Loiero, gioca da sempre una partita in proprio, nonostante la ricorrente puntualizzazione (excusatio non petita) di essere stato tra i fondatori del partito. Una posizione molto sui generis, certificata dall’esistenza di Autonomia e diritti. Il PD non è in grado di avanzare una candidatura credibile e seria né alla provincia, né al comune di Reggio. Per questo sembra cercare qualcuno da sacrificare (film già visto con la candidatura, alle passate comunali, di Lamberti-Castronuovo, praticamente abbandonato al proprio destino). Si parla di un “papa straniero”, De Sena o Minniti. Ma con quali criteri vengono scelti i candidati? Non occorre essere dei geni, basta possedere un minimo di buon senso per comprendere che in un comune il candidato a sindaco deve essere espressione del territorio per avere qualche possibilità di vittoria. Caratteristica che non appartiene, per mille motivi, né a De Sena, né a Minniti. Per la provincia, si attende la nascita del terzo polo e l’eventuale candidatura di Fuda. Come nelle passate regionali, il rischio è che, alla fine, un accordo UDC-PDL possa mandare tutto all’aria. Anche in questo caso, l’attendismo e l’immobilismo del PD risultano incomprensibili, e di corto respiro la sua strategia politica.
Il finale, scontato, rimanda alla celebre scena in cui Fantozzi, tutto preso dalla visione della partita della nazionale di calcio, neanche capisce ciò che gli succede intorno e alla moglie che gli sta confessando di essersi innamorata di un altro dice “va bene, ora che l’hai detto puoi andare”. Manca solo il rutto libero.

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Caro Presidente

Ill. mo Presidente della Repubblica, On. le Giorgio Napolitano,
mi chiamo Domenico Forgione, sono dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea dal 2004 (titolo conseguito presso l’Università di Messina) e sono iscritto all’albo regionale dei giornalisti per la regione Calabria (elenco pubblicisti). Per sei anni ho lavorato come corrispondente locale de “Il Quotidiano della Calabria”, mentre continuo tutt’ora a fare parte del comitato di redazione della rivista di studi internazionali “Grotius” (edita dall’Università di Messina) e del comitato scientifico della rivista di studi sull’emigrazione “Neos” (edita dalla regione Sicilia). Sono stato anche negli Stati Uniti (2002), al seguito di una delegazione di studiosi che ha condotto una ricerca sugli italoamericani di terza generazione. Nel corso degli anni ho pubblicato tre monografie e diversi saggi di storia contemporanea. Seguo con passione gli avvenimenti politici e di attualità, tanto da utilizzare un blog personale (www.forgionedomenic.blogspot.com) per esporre il mio modesto pensiero su ciò che accade nella nostra società. Con soddisfazione sottolineo che molti di questi articoli sono stati pubblicati su diversi quotidiani locali (Calabria Ora, Il Quotidiano della Calabria).
Si sta chiedendo dove sta il problema? Il problema sta proprio in queste competenze, in questa mia attitudine allo studio e alla riflessione che non hanno alcuna utilità dal punto di vista materiale. La mia carriera universitaria si è praticamente arenata. I miei genitori non sono professori universitari, ma onesti e orgogliosi cittadini che hanno trascorso molti anni all’estero (io stesso sono nato in Australia), che hanno soltanto la quinta elementare e che con enormi sacrifici sono riusciti a fare laureare uno dei loro tre figli. Nei giornali o comunque nel mondo dei media vi sono difficoltà non minori. Difatti, una volta conseguito il tesserino di giornalista pubblicista, nessuno ha accettato la mia proposta – che poi era anche coerente con il mio percorso formativo – di assegnarmi un ruolo diverso da quello di corrispondente locale a 5 centesimo a rigo. Per questo motivo ho preferito non collaborare più. Paradossalmente, mentre prima mi facevano scrivere soltanto di cronaca bianca, sagre e feste di paese, ora che non ho neanche quell’avvilente contratto da co.co.co., mi pubblicano articoli di approfondimento politico che prima mi erano tassativamente vietati, perché le gerarchie della redazione vanno rispettate!
A 37 anni, sono un precario che più precario non si può. Terminato il dottorato di ricerca mi sono ritrovato con un pugno di mosche in mano e con poche possibilità di fare fruttare le mie competenze, avendo investito quasi tutto in una carriera universitaria che non riesce ad avere alcuno sbocco proficuo. I miei molteplici tentativi di cercare una qualche sistemazione sbattono contro un’amara realtà: la mia età costituisce ormai un serio ostacolo, così come il fatto che non possiedo alcuna professionalità “manuale” – quella intellettuale evidentemente non serve proprio. Cerco di coltivare i miei interessi intellettuali per quanto può una persona che, con laurea, dottorato e pubblicazioni, si ritrova a fare, ogni tanto (neanche con costanza), lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico.
Ill.mo Presidente, il mio è uno sfogo come tanti altri, presumo. Ma uno Stato che non riesce a dare una possibilità ha fallito tanto quanto chi si trova nella mia condizione.
Cordiali saluti
Domenico Forgione

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La prova di forza

Verrebbe da rispolverare il “rieccolo” affibbiato da Indro Montanelli ad Amintore Fanfani, l’esponente aretino della Democrazia Cristiana sei volte presidente del Consiglio, tre presidente del Senato, una sfilza di incarichi in mezzo secolo di carriera, reso celebre per la capacità di risorgere proprio quando appariva in declino e fuori dai giochi. Come la mitologica araba fenice, rinata dalle proprie ceneri dopo la morte. Da questo punto di vista, tralasciando le facili ironie sul comune aspetto “brevilineo”, la similitudine è calzante.
Appuntarsi il nome dei perfetti sconosciuti che con una piroetta magistrale hanno compiuto il salvataggio del governo può essere utile per contabilizzare il degrado morale di questa classe politica. Ma nulla più, considerati i molteplici precedenti storici. Semmai, ripropone più forte la questione della necessità di riformare l’attuale legge elettorale, per restituire al popolo il potere effettivo di scegliersi i propri rappresentanti: l’unico modo per potere così “punire” i Calearo, i Cesario, i Razzi, e gli Scilipoti di turno. Riposto nel cassetto il pallottoliere, occorre invece individuare il significato politico del voto di fiducia. La vittoria numerica di Berlusconi è incontestabile, così come sembrano decisamente mortificate le ambizioni di Fini. Ma una vittoria numerica non si trasforma necessariamente in vittoria politica. Lo si vedrà con chiarezza nei prossimi giorni, quando la Camera diventerà un campo minato per un governo senza maggioranza nelle Commissioni e che, di fatto, è “di minoranza”. Non soltanto perché la soglia dell’autosufficienza è a quota 316, ma soprattutto perché circa trenta parlamentari con incarichi nell’esecutivo raramente si fanno vedere a Montecitorio. In soldoni, ciò significa che l’approvazione di qualsiasi provvedimento legislativo sarà subordinato all’accordo con l’opposizione, che ne approfitterà per fare passare i propri emendamenti, indebolendo così di molto l’azione governativa.
Viene quindi da pensare che l’obiettivo reale della prova di forza voluta da Berlusconi non fosse il proseguimento di questa esperienza governativa, bensì la riaffermazione della propria leadership, per tenere il mazzo, distribuire le carte e non essere fatto fuori da una congiura di palazzo. Dalla posizione di forza acquisita, Berlusconi può ora condurre il gioco indirizzandolo verso le sole due ipotesi per lui accettabili: una crisi pilotata che conduca al suo reincarico e all’allargamento della maggioranza; in alternativa, le elezioni anticipate. Eppure, nonostante l’affermazione muscolare del premier, il ciclo storico e politico iniziato nel 1994 può ritenersi concluso. L’immagine che ci viene consegnata è quella di un leader barricato dentro il bunker, con a fianco il solo Bossi nel doppio ruolo di protettore e ispiratore, mentre all’esterno il paese “reale” non corrisponde più alle foto idilliache dei tanti opuscoli di propaganda giunti in questi anni nelle case degli Italiani. Come è stato da più parti osservato, quella di Berlusconi rischia di rivelarsi un’effimera vittoria di Pirro.

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Fine della corsa

Forse non siamo nella Bisanzio “insondabile” cantata da Francesco Guccini, in bilico tra il vecchio che va scomparendo e il nuovo che non si è ancora manifestato (“qualcosa sta cambiando, ma è un debole presagio che non dice come e quando”), ma di certo un ciclo storico sta volgendo mestamente al tramonto. Al di là di ciò che accadrà il 14, niente sarà più come prima. Che Berlusconi riesca a rabberciare una maggioranza o che vada sotto, difficilmente questo governo porterà a termine la legislatura. Fatte salve le prerogative del presidente della Repubblica, resta da capire se è praticabile la strada del cosiddetto governo di “responsabilità nazionale” o se la crisi ci condurrà dritti alle urne. La prima ipotesi sarebbe saggia, ma bisogna fare i conti con Lega e PDL, per nulla disposti a farsi da parte dopo avere vinto le elezioni. La seconda sarebbe logica e coerente con il funzionamento delle moderne democrazie: quando c’è una crisi di governo, la parola torna agli elettori.
Una lettura dei fatti non faziosa induce però a riflettere su di una questione affatto secondaria. È probabile che la società italiana si stia riprendendo ciò che aveva dovuto cedere con Tangentopoli. Berlusconi ha rappresentato un’anomalia per lo più subita nella patria delle fazioni, dei particolarismi, del frazionamento degli interessi. Piaccia o no, in Italia sarà sempre impossibile ridurre tutto a due partiti, a due visioni. Esistono troppe differenze. Tra nord e sud, all’interno di ogni singola regione e persino a livello provinciale. Questo Paese può stare insieme soltanto se tutte le sue componenti hanno voce.
Occorre quindi spostare indietro le lancette? L’antitesi rappresentatività/governabilità è stata risolta, nella Prima Repubblica, a vantaggio esclusivo del primo corno del dilemma. Nel Parlamento era presente “tutta” la società italiana, in virtù di un sistema proporzionale che prevedeva il recupero quasi integrale dei resti. Conseguenza immediata della frammentazione politica era però la brevità della durata dei governi, una media di circa nove mesi dal 1948 al 1992. Troppo poco per dare continuità all’azione governativa. Di fatti, un sistema talmente ingessato si reggeva soltanto per l’impossibilità dell’alternanza, sancita dalla conventio ad excludendum. Nella Seconda Repubblica è stata invece privilegiata la governabilità, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: una classe politica praticamente assediata dentro il Palazzo. La ricerca di nuovi strumenti di pressione e di rappresentanza (Forum, class action, social network), al di fuori dei circuiti politici tradizionali, è dovuta proprio allo scollamento evidente dei partiti dalla società. E il corto circuito esplode perché il sacrificio di quote di potere in nome della governabilità si rivela del tutto vano. Di fatti, a parte il Berlusconi del 2001-2006, dal 1994 ad oggi nessun presidente del Consiglio è rimasto in sella per l’intera legislatura.
La fine dell’ “era Berlusconi” porterà ad un rimescolamento profondo di idee, metodi di governo, contenitori politici, alleanze e, si spera, ad una maggiore tutela degli interessi generali rispetto a questioni più personali che politiche. Ad una classe politica che si auspica rinnovata, toccherà il compito di riuscire finalmente a conciliare le ragioni della governabilità con quelle della rappresentatività.

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C’è nessuno?

Nell’opera teatrale La cantatrice calva di Eugène Ionesco, il signor Martin sostiene che, quando si va in giro, si vedono cose straordinarie. Addirittura, si può incontrare un signore che legge beatamente il giornale sul tram. Il dilemma che non gli dà pace è però complicatissimo: quando bussano alla porta, c’è qualcuno oppure no? La risposta è tutt’altro che scontata: a volte sì e a volte no.
Lo spettacolo messo in scena nel consiglio comunale di ieri è stato davvero degno del teatro dell’assurdo. Ad un mese dalle dimissioni del vicesindaco, Pippo Ascrizzi, il sindaco ha ritenuto di dare delle “comunicazioni”. Meglio tardi che mai. Un’opposizione più attenta avrebbe dovuto incalzare l’amministrazione sulla questione, magari con un manifesto pubblico che sottolineasse l’anomalia di due dimissioni consecutive, quelle dell’ex presidente del consiglio comunale, Tonino Alati, e quelle, appunto, di Ascrizzi, entrambe “per motivi personali”.
Lo intuiscono anche i sassi che i motivi sono altri. Eppure, tutto tace. Il torpore più assoluto. D’altronde, la classe politica e amministrativa è espressione della cittadinanza. La quale, tanto per usare un eufemismo, non dimostra particolare interesse per le vicende del Comune. Altrimenti, ad un consiglio comunale convocato dopo le dimissioni del vicesindaco, avrebbero dovuto assistere più cittadini rispetto ai nove – compresi i dipendenti comunali – che non hanno certo faticato per trovare le poltroncine libere.
Nello specifico, il sindaco ha dato lettura delle dimissioni di Ascrizzi, chiosandole – e qui sta la demenzialità – con l’auspicio beffardo che il suo ex vice possa continuare a dare il proprio contributo all’amministrazione comunale per la crescita del paese. Invece dell’apertura di una discussione sul punto – le frecciatine di Creazzo e Papalia non possono considerarsi tale – abbiamo appreso dal sindaco che gli è stata proposta una collaborazione dal primo cittadino di un comune con 700.000 abitanti – a conferma dell’ormai notissimo “qua c’è scienza”, pronunciato in un precedente consiglio – e che il nostro ragioniere comunale non ha eguali in tutta la Calabria. Per carità, è giusto lodare chi lavora bene; sull’auto-elogio, invece, continuiamo a pensarla come il saggio (“chi si loda s’imbroda”): è decisamente poco elegante.
Non è un po’ inconsueto che in un consiglio si parli più della bravura di un dipendente comunale che delle dimissioni del vicesindaco? Il cattivissimo commissario d’esami interpretato da Alberto Sordi nel film Totò e i re di Roma, al cospetto della deludente performance del nostro consiglio comunale, non avrebbe avuto alcuna indulgenza e avrebbe cominciato a strillare: “Senz’altro bocciato! Senz’altro bocciato!”

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Fare fronte

Hanno ragione d’essere, oggi, le categorie destra e sinistra? Morte e sepolte le ideologie del ventesimo secolo, possiamo ancora accapigliarci su cosa sia di destra e cosa di sinistra, come faceva Giorgio Gaber, prendendo in giro un po’ tutti?
Il Paese è prostrato da una crisi economica che dura da anni e della quale non si intravede la fine. Osservando i comportamenti di personaggi assurti a modelli di vita – è sufficiente un quarto d’ora davanti ad una telecamera per diventare un ascoltato ed influente maître à penser – è possibile rilevare quotidianamente un angosciante declino etico della società. Il messaggio, semplice e agghiacciante, è che con i soldi si può comprare tutto; con i compromessi nessun traguardo è irraggiungibile; l’intelligenza e il merito sono meno utili di uno stacco di coscia vertiginoso o di un passaggio dalla villa del Lele Mora di turno. Il sistema politico italiano e, prima ancora, la società civile stanno andando a rotoli e ancora – come se le lancette fossero pietrificate al 1994 – il dibattito si avvita sull’antitesi tra berlusconismo e antiberlusconismo. Una coazione a ripetere che, di fatto, è stata funzionale al perpetuarsi del potere di una classe politica inadeguata. Dove sarebbero ora i più fedeli lacchè di Berlusconi o, sull’altra sponda, i suoi più tenaci oppositori senza questo scenario di perenne lotta del bene contro il male? Personaggi che alimentano il culto della personalità del capo o la demonizzazione di colui che è considerato l’unico vero responsabile di tutti i mali della società italiana e non, piuttosto, il suo prodotto.
Soprattutto, ha senso una contrapposizione del genere nel Mezzogiorno, visto che non fa altro che andare a vantaggio del governo centrale e degli interessi del Nord del Paese, quelli che storicamente hanno avuto la prevalenza su ogni ipotesi di perequazione sociale, politica ed economica dell’Italia? Il fiorire di esperimenti politici a forte connotazione localistica sembra rappresentare una novità significativa. È la reazione di coloro che sono stanchi di essere considerati soltanto un voto affidato a classi politiche distanti, distratte e disinteressate. Qualcuno dovrebbe infatti spiegarci per quale motivo da giorni i mass media parlano esclusivamente dell’alluvione nel Veneto e ignorano (o quasi) la Campania e, soprattutto, la Calabria. Per quale motivo nessuno – come invece hanno fatto Corriere della Sera e La7 per il Veneto – si è fatto promotore di una sottoscrizione per raccogliere fondi per le regioni meridionali alluvionate?
Ecco perché occorre “fare fronte”, al di là di ogni appartenenza politica. Non per elemosinare qualcosa, quanto per avere riconosciuta pari dignità.

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Quando la coppia scoppia

La metafora del cerino aiuta a capire, ma per rendere meglio l’idea occorre rifarsi a quelle scene in cui Bud Spencer, al termine di un lungo scambio di colpi dati e ricevuti, scaraventa a terra il malcapitato di turno. Bisogna capire chi, tra Berlusconi e Fini, alla fine soccomberà.
Il dato certo è che così non si può più andare avanti. Su questo concordano tutti. Il logoramento di Berlusconi e del governo dura ormai da un anno e mezzo, dalla lettera nella quale Veronica Lario contesta i metodi di selezione delle candidature pidielline e scoperchia il pentolone delle discutibili abitudini e frequentazioni del premier. L’effetto domino è devastante. Nel gorgo finisce tutto, matrimonio e alleanze politiche. Il metodo Boffo diventa l’arma con cui i giornali vicini al premier tentano di mettere la museruola a Fini (con il crescendo rossiniano che conduce alla vicenda della casa di Montecarlo), ma il “controcanto” del presidente della Camera diventa quotidiano, sino all’espulsione decretata dal collegio politico del PDL il 29 luglio scorso e alla nascita di Futuro e Libertà, con il discorso di Mirabello che il 5 settembre ratifica la scomparsa del partito del predellino.
Berlusconi difficilmente si dimetterà, mentre il ritiro della delegazione governativa finiana porterebbe, di fatto, ad un governo di minoranza costantemente esposto al fuoco amico dell’Aula. Dopo la convention di Bastia Umbra, il percorso sembra tuttavia tracciato. Questione di tempo. Preso atto della fine di un ciclo storico e politico, Futuro e Libertà dichiara di volere andare “oltre” Berlusconi e il berlusconismo, pur restando nell’alveo del centrodestra, ma rimettendo al centro del dibattito questioni politiche, non le vicende personali del capo del governo. La mission apertamente enunciata è il riequilibrio “territoriale” per rintuzzare le spinte nordiste dell’Esecutivo. Da qui l’affondo di Fini sull’utilizzo dei fondi FAS come un bancomat in mano a Tremonti per i più disparati bisogni della Lega. Va interpretata in questo senso anche la richiesta di un rimpasto governativo che apra all’UDC. Nonostante il ricordo poco confortante dei governi Berlusconi II e III, con le ricorrenti tensioni tra Fini e Casini, in gran parte dovute alla rivalità su chi debba raccogliere l’eredità politica del presidente del Consiglio.
Come andrà a finire? La caduta del governo in questo momento rappresenterebbe un imprudente salto nel buio. Un’eventualità da scongiurare anche nel caso in cui i finiani, secondo quanto hanno minacciato di fare, dovessero dimettersi dal governo. Per senso di responsabilità si dovrebbe procedere all’approvazione della Legge di Stabilità (l’ex Finanziaria), dopodiché, a dicembre (quando – non va dimenticato – la Consulta si pronuncerà sul legittimo impedimento), si dovrebbe aprire ufficialmente la crisi che porterebbe alle elezioni nella prossima primavera. A meno che non si dovessero trovare i soldi per realizzare il federalismo fiscale tanto caro alla Lega. In quel caso andrebbe tutto a carte quarantotto e gli scenari al momento più inverosimili potrebbero diventare possibili: congiure di palazzo, alleanze trasversali e ribaltoni, per completare la legislatura e portare a compimento qualcuna delle riforme al momento esistenti solo sulla carta.

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Il regionalismo centrifugo

Siamo sicuri che i motivi che nel 1861 portarono ad un ordinamento territoriale dello Stato su due livelli (comuni e province, senza regioni) non siano validi pure oggi? Analizzando la storia costituzionale dell’Italia, è facilmente constatabile la giovane età dell’istituto regionale: di fatto, appena quarant’anni di vita. A fronte di una tradizione storica caratterizzata da una ricorrente diffidenza nei confronti delle regioni e dalla predilezione per un ordinamento territoriale basato su comuni e province. Già al momento dell’annessione della Lombardia al Piemonte sabaudo (seconda guerra d’indipendenza), questo orientamento si dimostrò prevalente, con la legge Rattazzi del 1859, di seguito estesa agli Stati dell’Italia centrale. Le voci discordanti diedero però vita ad un vivace dibattito sulle ipotesi “discentatrici” che portò ai progetti regionalistici di Farini e Minghetti, subito stoppati dalla “scoperta” del Sud e dall’esplodere della questione meridionale. La coincidenza territoriale di eventuali regioni con gli antichi Stati preunitari metteva infatti parecchia apprensione alla Destra storica, alle prese con la difesa dello Stato unitario dalle tante spinte disgregatrici, per cui il centralismo si rivelò una scelta obbligata, confermata definitivamente dalla legge 20 marzo 1865 sull’unificazione giuridica e amministrativa dello Stato.  A quasi novant’anni dalla legge Rattazzi, la Costituzione repubblicana si sarebbe incaricata di introdurre le regioni. Così come avvenne per altri istituti (Corte costituzionale, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Consiglio superiore della magistratura, Referendum) la loro attuazione fu tutt’altro che immediata. Soprattutto i partiti al governo si mostrarono diffidenti, mentre le sinistre all’opposizione spingevano per il rispetto del dettato costituzionale. Il contesto storico era quello della guerra fredda, dei blocchi contrapposti, della conventio ad excludendum che impediva al Partito Comunista di diventare forza di governo nazionale. Proprio il timore di consegnare ai “rossi” il potere su vaste aree dell’Italia centrale induceva la Democrazia Cristiana ad opporsi all’istituzione delle regioni, che avvenne infine a vent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, con la legge del 17 febbraio 1968 sulle norme per le elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario, tenute poi a maggio 1970.
Quarant’anni di regionalismo hanno minato la tenuta dello Stato? Non c’è dubbio che i partiti nazionali siano in affanno. A parte il caso della Lega Nord, non si può non rilevare che la connotazione regionale di molte leadership offusca la dimensione nazionale dei partiti. Basti vedere quello che sta succedendo in Sicilia, con Lombardo e l’MPA capaci di mettere all’angolo il PDL, con Micciché e la sua Forza del Sud in fuga dal partito del premier, così come la pattuglia sempre più numerosa di Futuro e Libertà. Io Sud di Adriana Poli Bortone in Puglia, il gruppo di Beppe Pisanu in Sardegna, la situazione campana che ha registrato lo scontro all’ultimo sangue tra Cosentino e Caldoro e tutte le altre controverse realtà regionali sono l’esempio palmare di come anche una leadership fortissima come quella di Berlusconi arranchi quando gli interessi territoriali riescono a coalizzarsi attorno ad una proposta unitaria, ancor più se essa riesce a superare la tradizionale contrapposizione destra/sinistra. Analoghe considerazioni valgono per la sinistra: Chiamparino in Piemonte e Cacciari in Veneto sono gli esempi più scontati, tanto per restare dentro il PD. Se poi si mette un piede fuori, balza agli occhi il caso Vendola, ostacolato dalla nomenclatura di sinistra ma capace di battere l’apparato del partito sceso da Roma per appoggiare il suo rivale nelle primarie per l’elezione a governatore. O Loiero, che non si sa se è dentro o fuori, ma che è in grado di controllare ben due gruppi regionali, quello del PD e quello della sua lista personale (Autonomia e diritti), con nascosta nella manica la carta da giocare come extrema ratio, il Partito democratico meridionale.
Di fronte ad una situazione talmente parcellizzata, sarebbe forse il caso di riconsiderare i motivi per cui 150 anni fa si scartò l’ipotesi regionale. In un’ottica però moderna, che attui in pieno il principio di sussidiarietà, affidando alle province pieni poteri e autonomia decisionale, amministrativa e finanziaria. Solo così si potrebbe togliere un alibi a coloro che minacciano la secessione, si risparmierebbe un bel po’ di denaro pubblico – dimostrando finalmente di fare sul serio rispetto alle strumentali campagne per l’abolizione delle province, puntualmente finite su un binario morto – e lo stesso Stato, alleggerito di tante funzioni, potrebbe addirittura rafforzare il proprio carattere unitario.

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