E la chiamano informazione

Chiedo anticipatamente perdono se aggiungo il mio inutile commento all’inutile polemica attorno alla quale si stanno sprecando fiumi di inutile inchiostro: ben quattro pagine solo sul Corriere della Sera, stamattina. Approfitto della vicenda Meloni/Giambruno per esporre qualche considerazione sull’infimo livello raggiunto dal giornalismo nostrano e sullo squallore del dibattito politico attuale.
L’informazione televisiva e dei giornali da tempo si è ridotta a brutta copia della fogna social. Una perversa degenerazione nella quale l’unica certezza è che l’originale è sempre meglio dell’imitazione. Sui social, pudore e deontologia sono retaggi del passato, ma tv e carta stampata non stanno meglio in salute. La domanda non è più: «Dove va il giornalismo?». Bensì: «C’è ancora da scavare?». Vada quindi per i fuori onda, che tutto sono tranne che giornalismo. Se vogliamo almeno estrarre i piedi dalla melma, al fondo di un poderoso sforzo intellettuale chiediamoci, piuttosto, perché certi fuori onda vengono trasmessi a distanza di quattro mesi dalla loro registrazione. È stata la vendetta di Mediaset, che si era legata al dito la frase di Meloni: «Ha dimenticato di aggiungere che io non sono ricattabile», pronunciata a commento degli aggettivi (“supponente, prepotente, arrogante, offensiva”) appuntati su un foglietto da Silvio Berlusconi?
O, con un colpo solo, Antonio Ricci ha tolto le castagne dal fuoco sia a Mediaset che alla premier, portando brillantemente a compimento l’esecuzione dell’indifendibile (e, come sembra, da mesi ex first gentlemen) Giambruno, in un perfetto regolamento di conti aziendale e politico?
Potrebbe insomma avere ragione l’ideatore di Striscia: «Un giorno [Giorgia Meloni] scoprirà che le ho fatto un piacere». D’altronde, il meglio (anzi, il peggio) di sé Giambruno lo aveva già ampiamente sfoggiato in diverse precedenti occasioni: indimenticabile l’idiozia sulle donne che se si ubriacano, perdono i sensi e finiscono per trovare il lupo che le violenta. Qualcuno a Mediaset potrebbe avere fatto due conti sull’opportunità di dare ancora spazio ad un giornalista incline ad affermazioni sconsiderate, si tratti di donne, cambiamento climatico, relazioni internazionali o altro.
Salterei a pie’ pari la questione privata, pur osservando l’irritualità di una relazione dichiarata conclusa su un social. Ma i tempi sono questi, noi vecchi mummioni dobbiamo farcene una ragione. Provoca invece abbastanza ribrezzo constatare la frequenza con cui la lotta politica si riduce ad attacchi al parente di turno, in un’orgiastica esaltazione per un risultato irraggiungibile sul piano dei contenuti. Tra l’altro, tutto da verificare: a me pare, infatti, che da questa vicenda la presidente del consiglio ne esca rafforzata.
L’opposizione alle politiche governative andrebbe fatta su questioni forse più serie e possibilmente con argomentazioni intellettualmente più impegnative dello sfottò per la contraddizione tra ciò che si dice e ciò che accade. Per quella strada, in pochi probabilmente sarebbero immuni da contestazioni.
Purtroppo, da tempo la sinistra è incapace di un siffatto sforzo culturale e non perde occasione per dare ragione a chi le attribuisce un’atavica propensione alla doppia morale, specialmente nel campo dei diritti e delle libertà individuali. Nulla di nuovo: è il solito beverone di cinismo shakerato con l’ipocrisia. Prosit.

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E pensare che il principio della presunzione di innocenza esiste dal 1948

Con cinque anni di ritardo, due giorni fa la Camera ha recepito la direttiva europea 2016/234, dedicata al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Merito dei deputati Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (+ Europa), firmatari dell’emendamento approvato; ma merito anche di Marta Cartabia, che sin dall’insediamento in via Arenula ha impresso una forte discontinuità rispetto ai due governi Conte. Già in occasione della presentazione delle linee guida del suo ministero, la titolare della giustizia era stata tranchant: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».
Inutile nascondersi che senza provvedimenti consequenziali, la direttiva rischia la fine dell’articolo 27 della costituzione (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”), forse il più bistrattato nell’ordinamento italiano. Lettera morta. Per cui sarà necessario attendere (oltre all’approvazione del senato) i decreti attuativi, che prevederanno opportune sanzioni per coloro che disattenderanno la normativa. È stato fatto un piccolo passo in avanti, ma tanti altri ancora ne occorreranno per smaltire le scorie del feroce giustizialismo che, da Mani pulite in poi, ha monopolizzato il dibattito politico in Italia.
Il testo della direttiva europea sancisce il principio, tanto ovvio quanto quotidianamente calpestato, della non colpevolezza fino alla condanna definitiva: «La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole».
Finiranno le gogne pubbliche, lo show mediatico delle conferenze stampa e delle sfilate in manette, l’asservimento dell’informazione alla tesi accusatoria che, è bene ribadirlo, è un’ipotesi investigativa da comprovare nelle aule dei tribunali?
Filiazione diretta della mortificazione della presunzione d’innocenza è la carcerazione preventiva, uno strumento di tortura legalizzata. Anche a me è capitato di considerare che “se l’hanno arrestato, qualcosa avrà fatto”. Mi sono ricreduto quando ho conosciuto persone assolte in primo grado “per non avere commesso il fatto”, ma rovinate psicologicamente, economicamente e socialmente dopo quattro anni di custodia cautelare in carcere. Ho visto i loro occhi bassi e ascoltato le loro drammatiche storie.
I mille casi all’anno di ingiusta detenzione in Italia, di fatto derubricati a “effetto collaterale” della lotta alla criminalità, sono uno scempio. Mille non può essere soltanto un freddo numerino: dietro quella cifra che dovrebbe togliere il sonno a chi ha fatto arrestare ingiustamente degli innocenti, pulsa il cuore di uomini e donne in carne ed ossa, c’è la disperazione di famiglie distrutte, sanguina la ferita di chi lotta per riannodare il filo di vite scosse. Spesso si è portati a guardare con distacco a problemi che possono toccare ad altri, mai a noi: per questo manca la percezione dell’enormità di un errore giudiziario. Anche perché, se va bene, si tratta di notizie riportate in un trafiletto di giornale, non certo in prima pagina.

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Le tre croci

C’è un innocente sulla croce in ogni angolo della terra dove la giustizia diventa arbitrio, dove il giudizio è pregiudizio, dove si tengono gli occhi chiusi. Perché deve essere così. Perché non può essere diversamente. Perché la terra è un marchio di colpa impresso a fuoco sulla carne.
La mela non cade lontano dall’albero e l’albero, in certi posti maledetti, produce sempre frutti velenosi. Viene ripetuto con il tono definitivo dell’essere superiore, verità assoluta sulle labbra di un’entità etica che può permettersi di puntare il dito. Che deve puntare il dito, perché investito di una missione palingenetica. Il moralista che si incarna nella Morale salverà il mondo, dall’alto del suo immacolato trono. Spazzerà strade e piazze dagli scarti umani che la insozzano per il solo motivo di essere nati, qui e non in un altro posto.
Sulla croce pende un uomo in agonia, condannato dal popolo che salva Barabba e condanna l’innocente. Non ci vuole molto. Basta trovare le parole giuste, gli slogan che aizzano la folla al “crucifige”. Dal pulpito, dai giornali, dagli schermi televisivi.
Il pasto è pronto per essere servito: afferrare il proprio brandello di carne e saziarsi è pura catarsi. Il menu della trattoria della gogna offre un’ampia scelta. Persino la carne del ladrone buono, sulla croce alla destra dell’innocente; o quella del cattivo, appeso alla sua sinistra. Ladroni per non avere potuto scegliere un’altra strada o perché decisi ladroni da altri, accanto ai ladroni per indole criminale.
Ai piedi delle tre croci si piange uguale dolore: per gli innocenti, per i buoni e per i cattivi. Sciogliendo il dolore dell’uomo nella metafora di una resurrezione impossibile senza calvario.

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Il servizio di Report sulle carceri italiane

La puntata di Report di ieri sera ha il merito di avere squarciato il velo dell’ipocrisia e dell’indifferenza sul tema della condizione delle carceri italiane. Vi consiglio di guardarla quest’ora di servizio giornalistico. Anche se non è tutto. Perché il carcere è repubblica a sé: molto poco di ciò che succede là dentro filtra all’esterno. Nessuno vede l’acqua marrone che sgorga da fetide docce comuni, né sente i miasmi della spazzatura sotto la finestra, assaltata da decine e decine di gabbiani stridenti. E se, ad esempio, per venti giorni presenti una domandina per potere telefonare a casa e non vieni autorizzato, devi stare zitto e subire. Mica c’è il protocollo che registra la domanda: il foglio può passare dalle tue mani al cestino della spazzatura; ed è come se non sia mai stata presentata. Non arrivano fuori dal carcere neanche le parole sghignazzate: «Hai lo stesso cognome di Padre Pio. Solo che lui faceva miracoli; mentre tu fai danni, altrimenti non saresti qua».
La questione carceraria è molto impopolare e di facile strumentalizzazione. Chi solleva il tema viene facilmente additato come “amico” dei criminali. Eppure il rispetto dei diritti umani altro non è che la difesa dello stato di diritto e della civiltà giuridica nata con l’illuminismo.
Il carcere è un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata. Che tu sia colpevole o innocente, non fa differenza: dopo averne varcato il cancello, non sei più nessuno. Sei soltanto un delinquente uguale a tutti gli altri. La tua vita precedente viene cancellata. Se non ce la fai a sopportare il peso dell’angoscia personale e la pressione psicologica del regime carcerario, puoi sempre imbottirti di psicofarmaci o impiccarti.
Le vorrei conoscere le statistiche sul consumo di psicofarmaci nelle carceri. Quelle sui suicidi tra le sbarre sono invece note: 56 nel 2020. E se lo Stato si è sbagliato, pazienza. Tutte le guerre registrano “vittime collaterali”: bombardi un deposito di munizioni e muoiono anche gli inquilini di qualche palazzo vicino. Con la giustizia accade la stessa cosa, tanto c’è il risarcimento per ingiusta detenzione. Come se la serenità mentale e fisica si possa davvero misurare in soldi. Per la cronaca, gli ultimi dati disponibili per il 2019 assegnano alla provincia di Reggio Calabria la spesa più alta per risarcimenti: quasi 10 milioni di euro per 120 casi accertati.
Nel 2020 ho capito tre cose. La prima: il carcere serve per nascondere sotto il tappeto la polvere del fallimento dello Stato, delle sue politiche scolastiche, educative ed occupazionali. La seconda: la funzione rieducativa della pena esiste soltanto sulla carta, all’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Piccolo paradosso: per i detenuti giudicabili va peggio che per i condannati in via definitiva. La terza: chi è colpevole, dopo avere scontato la pena probabilmente uscirà dal carcere ancora più delinquente; chi sconta una pena da innocente, di certo – se non comincerà a delinquere – vedrà nello Stato un nemico.

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Incontri di ieri e di oggi

Nel dicembre del 1988 usciva in edicola il primo numero della rivista “Incontri”, edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio. Per 18 anni “Incontri” ha raccontato la cronaca e la storia di Sant’Eufemia, divenendo uno strumento culturale importante per diversi motivi: è stato il filo rosso che ha tenuto in contatto la comunità locale con i molti eufemiesi sparsi in Italia e nel mondo, prima dell’avvento dei social; ha offerto spunti significativi a chi come me ha avuto voglia di approfondire la storia di Sant’Eufemia.
Mi fa pertanto particolarmente piacere che l’Amministrazione comunale e la Consulta cittadina abbiano voluto raccogliere la mia proposta di dedicare un incontro-dibattito per onorare questa ricorrenza. Sarà l’occasione per parlare della nostra storia e per cercare di capire che direzione sta prendendo l’informazione oggi, quali le opportunità e quali i rischi prodotti dai nuovi strumenti di comunicazione.
L’incontro, moderato da Maria Luppino in rappresentanza della Consulta comunale, mi vedrà tra i relatori insieme al Giuseppe Pentimalli, scrittore e per diversi anni direttore di “Incontri”; Giuseppe Fedele, corrispondente storico per il quotidiano “Gazzetta del Sud”; Monia Sangermano, giornalista ed esperta di informazione e comunicazione on-line; Francesco Martino, curatore del blog “Pont’iCarta”. Concluderà il sindaco Domenico Creazzo.
Appuntamento a domani, 4 gennaio, a partire dalle ore 17.00 presso il palazzo municipale.

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Quelli che sono da “stendy novescion”

Diversi anni fa avevo dedicato agli strafalcioni grammaticali e sintattici più diffusi l’articolo “L’italiano, questo sconosciuto”. Da allora la situazione è peggiorata e, ahinoi, l’ulteriore sviluppo delle piattaforme social, ogni giorno, impietosamente ce lo ricorda. Nonostante, ad esempio, la scaltrezza di qualche originale giustificazione al consueto uso del condizionale al posto del congiuntivo: «Ho sbagliato a cliccare i tasti». Chapeau per la prontezza di riflessi!
D’altronde – ci informa Lercio – anche l’Accademia della Crusca, avvilita, ha alzato bandiera bianca di fronte ad uno degli errori più diffusi: «Scrivete qual è con l’apostrofo e andatevene affanculo».
Non tornerò pertanto su quanto già scritto. Chiedo però l’aiuto del genio eterno di Enzo Jannacci per mettere in fila, sulle note della celebre “Quelli che”, una selezione delle perle pescate qua e là nel 2018.
Sì, questo è un post da cantare, oh yes!

Quelli che hanno il vizio del gioco e si sono ridotti “all’astrico”
Quelli che hanno paura del “terramoto”
Quelli che “pultroppo” si muore
Quelli che muoiono nel “Niugersi”
Quelli che fanno le “condoglianse”
Quelli che “si dispenza” dalle visite
Quelli che vorrebbero vivere alle “Awai”
Quelli che tifano per una “scuatra” di calcio
Quelli che vanno in palestra e pubblicano la foto con la didascalia “wuork in progress”
Quelli che pregano Sant’Eufemia “Vergine e Madre”
Quelli che “avvolte” non trovano una spiegazione
Quelli che invece capiscono che “il senzo cera”
Quelli che “l’oro” lo sanno come va il mondo
Quelli che vanno “a daggio”
Quelli che sono da “stendy novescion”
Quelli che questa canzone potrebbe continuare “al infinito”… oh yes!

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Nadia, il cancro, la sentenza del web

Io non lo so qual è il modo migliore per affrontare la malattia, la propria malattia. Credo che dipenda dal carattere di ciascuno di noi. E credo anche che non esista un modo più giusto di un altro. Ho visto gente disperarsi e ho ancora stampati nella mente gli occhi di un amico di famiglia, bagnati di lacrime quando passò dal bar per salutarci, prima del suo ultimo viaggio della speranza. Non lo rividi più. Una mamma, che ha lasciato due figli piccoli, faceva invece battute autoironiche mentre il fuoco dentro la stava divorando, a pochi giorni dalla morte.
Contro la “Iena” Nadia Toffa, contro le sue “presunte” parole (“il cancro è un dono”) si sono scatenate le tricoteuses del web, armate di tastierina e Verità. Il noto personaggio televisivo si è così dovuto difendere, precisando che il dono al quale si riferiva non è la malattia in sé (quale cretino potrebbe pensarlo?), ma la possibilità che la malattia dà di guardare il mondo e la propria vita da un’altra angolazione, l’opportunità di pensare cosa realmente conti nella propria esistenza e quanto vi sia in essa, invece, di futile e di illusorio.
Quando Nadia Toffa dichiarò di essere ammalata di cancro, accolsi quell’outing con fastidio. Penso che non tutto della propria vita debba andare sotto i riflettori, essere dato in pasto alla curiosità morbosa degli internauti, che bisognerebbe tutelare l’intimità di una malattia. Qualcuno ha anche ipotizzato che potesse trattarsi di pubblicità, macabro esempio di quanto cinica sia diventata la società di oggi.
Nadia appartiene a una generazione abituata a vivere “pubblicamente” ogni aspetto della propria vita, a maggior ragione se già si è un personaggio pubblico: questo aspetto ha avuto probabilmente un peso nella sua decisione.
Chi ha avuto un tumore o ha vissuto esperienze familiari con il cancro non può che essere turbato dalla sintesi semplicistica della dichiarazione di Nadia. Lo capisco. Ma tutti quelli che si sono affrettati a puntare il ditino non sanno cosa è passato nella testa di Nadia, anche se i social network hanno fatto di ogni utente il possessore di una verità inconfutabile che non ammette il confronto con chi la pensa in maniera differente.
Io non conosco la verità, però penso che ognuno abbia il diritto di affrontare la vita e la morte come meglio crede. D’altronde (mi si perdoni la provocazione), per i santi venerati dalla chiesa, malattie e sofferenze erano un dono di Dio: e su questo non mi sembra ci siano polemiche.
Le polemiche ci sono per Nadia perché alla gente comune non sembra vero di potere in qualche modo essere ammessa nel mondo dei “famosi” (si tratti di calciatori, politici, personaggi dello spettacolo), mettendo un “mi piace” a una foto su instagram o, più frequentemente, rovesciando loro addosso insulti di ogni genere per scaricare la propria invidia e la propria frustrazione.
Parlare della propria malattia, per alcuni, è anche un esercizio di esorcismo. Una terapia dell’anima che io non riesco a condannare. Se lei sta meglio così, non vedo che problema possa esserci.
Non me la sento di giudicare il modo in cui gli altri affrontano il mistero più grande della propria vita (la morte), perché non permetterei a nessuno di giudicare il mio.

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Il trionfo della post-verità

Tempi duri per chi non ha in tasca una verità assoluta, che non ha bisogno di essere argomentata per imporsi su un pubblico sempre più refrattario al metodo del confronto tra idee contrapposte, in una cornice di rispetto delle regole basilari per ogni civile discussione. I ragionamenti sono orpelli del passato, tempo perso in un mondo che va di fretta e che richiede presenza scenica, anche a costo di smentire domani ciò che si è sostenuto oggi: è molto più semplice cavarsela con gli striminziti caratteri di un tweet all’ora, restando comunque sul pezzo dell’eterna competizione per la visibilità.
La mancanza di contraddittorio consente ad ogni utente di essere custode di una verità (la propria) che non ha bisogno di essere supportata da riscontri fattuali, perché suo habitat naturale sono le emozioni. Ma la verità è fatta di sfumature che non tutti sono in grado di cogliere, può essere addirittura ingannevole come quella di Sciascia: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». Richiederebbe, in ogni caso, uno sforzo dialettico dal quale oggi la comunicazione sui social sfugge con calcolo premeditato. Il confronto può avere come conseguenza la revisione del pensiero, la sconfessione di una verità strumentale ma utile alla propria affermazione. In una realtà di compartimenti stagni, incomunicabili tra di loro, non conviene: per il politico-comunicatore le priorità sono marcare il territorio e tenere unito l’esercito dei difensori della propria verità.
L’epoca della post-verità concede inoltre ad una schiera sterminata di utenti la possibilità di trovare nei social uno strumento di riscatto personale; l’occasione di uscire dal grigiore del proprio anonimato sentendosi protagonista di un’opera nientemeno purificatrice, tanto necessaria quanto osteggiata dagli impalpabili poteri forti, dalla casta, da tutta una serie di personaggi inclusi apoditticamente nella categoria del “nemico”. Chiunque può veicolare notizie, la deontologia professionale è un ricordo del passato che nulla può di fronte a ragioni superiori: aiutare l’umanità a diventare soggetto consapevole, scoperchiare le falsità messe in circolazione dalla solita stampa prezzolata.
L’irresponsabilità e la sostanziale impunità offrono un vantaggio non irrilevante agli avvelenatori di pozzi e ai divulgatori di fake news che sguazzano nello stagno fetido dei sentimenti primordiali. Uno studio su Twitter pubblicato dalla rivista scientifica “Science” avverte che «le notizie false hanno sempre la meglio sulla verità, raggiungono più persone, penetrano più in profondità nei social network e si diffondono molto più rapidamente delle notizie vere». Sette volte su dieci una bugia ha più possibilità di essere ritwittata rispetto a una notizia vera, fondamentalmente perché essa provoca nell’utente un’emozione maggiore (indignazione, sorpresa) rispetto alla reazione che si ha di fronte a notizie non “forti”, in qualche modo ordinarie. In definitiva, i social amplificano la falsità a discapito della verità ed il guaio – questa la conclusione ripresa dal settimanale “Internazionale” – è che «nessuno (esperti, politici, aziende tecnologiche) sa come cambiare questa tendenza».
Non siamo messi affatto bene.

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Un giochino per conoscere meglio il mondo

L’inserto del “Corriere della Sera” #buonenotizie di questa settimana presenta un quiz interessante per verificare cosa sappiamo a proposito di temi importanti quali la sostenibilità, l’ambiente e i diritti. Ne ripropongo i risultati, con la speranza di fare cose utile a coloro che hanno voglia di approfondire questioni anche spinose sulla base di dati ufficiali e il più possibile “asettici”, scevri cioè della vis polemica che spesso caratterizza il dibattito politico nostrano.

VITA SULLA TERRA. Ogni minuto nel mondo vengono distrutti 18,7 milioni di ettari di foreste, l’equivalente di 27 campi da calcio.
POVERTÀ. Nel 2016 l’82% della ricchezza prodotta è andata all’1% della popolazione mondiale. Più nello specifico, 8 miliardari possiedono la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, mentre 3,7 miliardi di persone (la parte più povera della popolazione) non hanno aumentato la propria ricchezza.
SALUTE E BENESSERE. Dal 1990 ad oggi si è registrata la diminuzione di oltre il 50% delle morti infantili “prevenibili” (meno 45% la mortalità materna). Tuttavia, ancora 6 milioni di bambini muoiono di prima di avere compiuto cinque anni.
ENERGIA. Paraguay, Uruguay, Islanda, Costa Rica e Norvegia producono quasi il 100% della loro elettricità facendo ricorso a fonti energetiche rinnovabili. Circa il 60% delle emissioni di gas serra è dovuto alla produzione di energia “non verde”.
UGUAGLIANZA DI GENERE. Nonostante la politica delle quote “rosa”, le donne occupano soltanto il 23,7% dei seggi parlamentari. Nel settore privato, occupano meno di un terzo delle posizioni dirigenziali e dei quadri intermedi.
ACQUA. Circa il 40% della popolazione mondiale vive in una condizione di carenza di acqua, una percentuale destinata ad aumentare con il rialzo delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici.
STRANIERI. Nel 2105 i migranti hanno prodotto 6.700 miliardi del Pil mondiale (più di 3.000 rispetto a quello che avrebbero prodotto nel proprio paese di origine).
CITTÀ SOSTENIBILI. Sono 330 milioni le famiglie nel mondo (1,2 miliardi di persone) che non hanno la possibilità di avere un’abitazione sicura e ad un prezzo accessibile. La carenza abitativa è destinata a crescere del 30% entro il 2025.
AGRICOLTURA. Foreste e biodiversità sono minacciate, il cambiamento climatico aumenta i rischi di siccità e inondazioni. Globalmente l’11% (una persona su nove) della popolazione è denutrita: l’altra faccia della medaglia è la condizione di sovrappeso che caratterizza il 40% degli abitanti nel mondo: uno su dieci è addirittura obeso.
LONGEVITÀ. Nel 2105 sono stati registrati quasi 500.000 centenari nel mondo, più di quattro volte rispetto al 1990. Dai dati disponibili i paesi con un maggior numero di centenari sono, nell’ordine: Stati Uniti, Giappone, Cina, India e Italia.

Queste le “fredde” cifre di una situazione caratterizzata da fenomeni economici e sociali complessi, che vanno governati con lungimiranza. Le risorse naturali non sono infinite e siamo in miliardi a dovere convivere e vivere dignitosamente su questo mondo che l’uomo sta cercando in ogni modo di distruggere.

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Patente a punti e daspo per combattere chi incita alla violenza sul web

Complice una campagna elettorale dai toni altissimi, il web è diventato il moltiplicatore della violenza che quotidianamente vi circola da anni. Gli istinti primitivi trovano terreno fertile, innestandosi sui temi caldi della propaganda. E quale tema più caldo di quello dell’immigrazione? Quale bersaglio più facile di Laura Boldrini, al centro di un attacco mediatico violento e vergognoso sin dalla sua elezione alla terza carica dello Stato? Notizie incredibili, indecentemente false, che pure diventano virali quanto le centinaia e centinaia di bufale messe in circolazione da siti specializzati in fake news: spazzatura utile per soddisfare l’ego degli haters e il business dei clic.
Nel novembre scorso l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha istituito il “Tavolo tecnico per la garanzia del pluralismo e della correttezza dell’informazione sulle piattaforme digitali”, con l’obiettivo di “promuovere l’autoregolamentazione delle piattaforme e lo scambio di buone prassi per l’individuazione ed il contrasto dei fenomeni di disinformazione online frutto di strategie mirate”. All’iniziativa ha aderito Facebook con i suoi “suggerimenti per individuare le notizie false”: un vero e proprio decalogo che aiuta gli utenti più sprovveduti a districarsi nella giungla dell’informazione taroccata (clicca qui per leggerne il contenuto).
Bene, pugno duro contro gli spacciatori di falsità. Ma una severità ancora maggiore va applicata agli istigatori seriali di violenza. La rete non può essere una terra di nessuno, dove chiunque può impunemente incitare a sgozzare, stuprare, commettere ogni sorta di violenza. I fatti di Macerata insegnano che il passaggio dalle parole ai fatti non è complicato in questa realtà così caratterizzata dal disagio economico e sociale, dall’odio politico che ci riporta alle pagine più buie della nostra storia. Pagine di intolleranza e di caccia alle streghe, fatte di parole d’ordine semplici e immediate, che parlano alla pancia di una società sempre più incattivita e per questo pronta a scatenare la guerra dei poveri, lo scontro penoso dei penultimi contro gli ultimi.
Esistono le leggi, certo. Le indagini sul barbiere calabrese che ha condiviso l’ultimo raccapricciante fotomontaggio di Laura Boldrini sgozzata vanno nella direzione di applicare sul caso la normativa vigente in materia (art. 338 del codice penale). Ma a mio avviso non bastano leggi e sanzioni. Occorre regolamentare l’accesso e l’utilizzo dei social con l’istituzione di una sorta di “patente a punti”, associando a ogni profilo un solo documento d’identità: basta profili falsi, tanto per incominciare.
Come nella vita reale, anche nel mondo mica-tanto-virtuale della rete bisogna mettere la propria faccia sui contenuti che si pubblicano. Sarebbe una misura eccessiva? Non direi. Chi è abituato a vivere nella limpidità non avrebbe nessun problema ad accettare un “controllo” del genere.
Ad ogni violazione andrebbe quindi applicata la sottrazione di un punteggio, variabile a seconda della gravità dell’infrazione, fino all’azzeramento del bonus iniziale: eventualità che farebbe scattare la “squalifica” dai social per un tempo più o meno lungo, maggiorato nei casi di recidiva.
Tolleranza zero contro i violenti: è ragionamento superficiale ridurre la questione a semplice strumentalizzazione tipica delle campagne elettorali. Non è così. Il tema è molto più serio e generale, investe le regole stesse della civile convivenza.

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