Ti seguirò fuori dall’acqua

Dario Fani è un sociologo esperto in progettazione socio-sanitaria e formatore. Un uomo di successo abituato a vivere di corsa, costantemente concentrato sugli obiettivi da raggiungere sul lavoro. Ha il rimpianto di non essere ancora diventato padre mentre gli anni scorrono inesorabili, la moglie sulla soglia dei quaranta, lui già oltre, quando inaspettata arriva la gravidanza tanto desiderata. Il bimbo che si faceva attendere da quattro anni nasce però con tre mesi di anticipo e con un cromosoma di troppo, 47 invece di 46. E qua comincia un’altra storia, che niente ha a che vedere con la gelida paginetta delle istruzioni consegnata dalla dottoressa al genitore per illustrare le caratteristiche della trisomia 21, o sindrome di Down, o mongoloidismo: le tre definizioni che indicano la presenza di un cromosoma in più, o di una sua parte, nella coppia cromosomica 21.
Ti seguirò fuori dall’acqua (Salani Editore, 2015) è il racconto di un percorso di salvezza che inizia con il “dialogo” tra un papà al di qua del vetro e il “pesciolino” di trentadue settimane costretto alla vita intrauterina riprodotta dall’incubatrice-acquario del reparto di neonatologia. È una storia d’amore travagliata come le più belle storie d’amore lette su pagine ingiallite o sospirate in sale buie. Solo che non è finzione, ma racconto reale, fatto di lacrime di disperazione e di gioia, la sostanza stessa della vita. Una catarsi che attraversa tre stadi: rifiuto, accettazione razionale, amore.
Il rifiuto iniziale è quello di un padre che ha la sensazione di essere entrato in una fiaba scura, una favola non sua, che sospetta addirittura l’eventualità di uno scambio tra neonati. Reazione non inconsueta per il genitore di un bimbo affetto da disabilità, riflesso inconscio della fatica di accettare la realtà e riconoscere come proprio un dolore così grande, che non può appartenergli. Una sorta di tradimento delle aspettative che porta ad accuse feroci nei confronti del neonato “assassino” del figlio sognato e “ladro” di una vita non sua: “tu non sei nato, ieri; ieri sei morto”.
Il punto di svolta si ha al primo vero contatto, perché – come sottolinea l’autore – “la vera esperienza passa tra le mani”. Passa dal dito del padre, al quale il piccolo si aggrappa con la forza di un leone e dal quale non vuole più staccarsi, mentre agita la gambetta appena alle labbra viene avvicinato il biberon.
Il pesciolino si chiamerà Francesco, perché è stupido pensare di non dovere “sprecare” il nome buono per un bimbo disabile che è invece riuscito a trasformare “l’orrendo in meraviglioso”. Una creatura che è la cura, non la malattia. Che è nato per guarire, non per essere guarito. Un “supereroe” vincente per nascita, se si considera che 78 casi di sindrome Down su cento diventano aborti naturali. E che salva il padre insegnandogli il coraggio e l’amore che non ha paura: quello che rende liberi anche da se stessi.
Perché quello che importa – rivela a Dario il padre di un “pesciolino” che invece non ce la farà ad uscire dall’acquario – non è fin dove potrà arrivare un figlio disabile, quali competenze e abilità riuscirà ad acquisire, se sarà in parte autosufficiente o se non lo sarà affatto. Importerà ciò che i genitori e chi gli vorrà bene saranno “capaci di fare”, ciò che saranno “disposti a diventare”: “conta se noi saremo capaci di arrivare alla sua altezza”.
Se ciò accadrà, anche soltanto “una smorfia non sarà qualcosa o poco, l’avanzo di un tutto”: sarà “il Tutto”.

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BAGNARA: presentato il libro “Minita” di Domenico Forgione

Il resoconto della presentazione di domenica 22 febbraio, tratto dalla pagina web di Disoblio Edizioni.
(https://www.messagginellabottiglia.it/2015/02/bagnara-presentato-il-libro-minita-di.html)

Si è svolta domenica 22 febbraio, presso la Sala Conferenze della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Bagnara Calabra, la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). Alla presentazione sono intervenuti Giuseppe Spoleti (Assessore alla Cultura di Bagnara Calabra), Mimma Garoffolo (Presidente SOMS Bagnara Calabra), Natale Zappalà (Storico), Salvatore Bellantone (Editore), Domenico Forgione (Autore del libro).
Dopo i saluti di Mimma Garoffolo, che ha sottolineato come il senso di questi incontri con gli autori sia di avvicinare i giovani ai libri e alla lettura, Giuseppe Spoleti ha chiarito l’importanza di conoscere la storia del proprio paese e delle proprie tradizioni, perché costituiscono la forza di un popolo, capace di con essa di comprendere la propria provenienza, di capire il presente e di ripensare se stessa e il proprio territorio in direzione del futuro.
Natale Zappalà ha spiegato come il libro di Domenico Forgione provenga dal blog e come, pur nella sua eterogeneità, sia il risultato di un filo conduttore mai perso, dato dal titolo stesso. La curiosità con cui l’autore affronta delle riflessioni a d ampio respiro è il comun denominatore di Minita. Nel libro troviamo l’operazione salvifica nei confronti dei racconti appartenenti al genere della microstoria, ma anche la lucida analisi delle problematiche del mezzogiorno d’Italia, recensioni e racconti, che testimoniano come la letteratura sia lo sbocco naturale di uno storico.
Domenico Forgione ha spiegato la genesi del libro e ha chiarito come Minita sia per ognuno la possibilità di ricostruire la propria storia, al di là degli schemi e dei preconcetti imposti dalla società consumistica e capitalistica. Dopo aver ricordato il professore Rosario Monterosso come maestro di vita e di pensiero, Domenico Forgione ha evidenziato come la scrittura e la memoria siano strumenti essenziali per tenere alta l’attenzione critica nei confronti del nostro tempo, da lui considerati come forme di resistenza quotidiana. Chiarendo infine come in Minita sia possibile mettere a fuoco le storie di vita quotidiana sulle quali riflettere attentamente, Domenico Forgione ha concluso come il suo libro sia il tentativo di aiutare chiunque a trovare la goccia di splendore che ha dentro di sé, spingendolo a fare quotidianamente qualcosa di buono per gli altri.
Accesa infine la lanterna della Disoblio, si è sottolineata la bellezza della scrittura intesa come un divertente strumento di gioco con le parole, mediante le quali tentare di fare capire agli altri di operare altruisticamente e con umiltà.

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Minita alla Soms di Bagnara Calabra

Ci tenevo a presentare il libro a Bagnara, per un paio di buoni motivi. Il primo e per me più importante perché mi ha consentito di ringraziare nella sua terra il mio maestro di studi e di vita, professore Rosario Monterosso, al cui ricordo ho voluto dedicare la serata. Spesso tocca ai “forestieri” omaggiare alcune straordinarie personalità dei nostri paesi, probabilmente perché le dinamiche sociali cittadine creano resistenze a volte involontarie, altre ricercate, che rendono tutto molto più difficile. Io sono invece dell’avviso che ogni comunità ha il dovere della memoria nei confronti dei suoi figli migliori. Per questo sono stato particolarmente orgoglioso della lettura dello scritto “In alto a sinistra” eseguita da Francesca Fassari, nel quale provo a riassumere il significato di un rapporto tra allievo curioso e docente generoso che per me significò il privilegio dell’accesso alla biblioteca privata del professore Monterosso e la possibilità di apprezzare l’uomo, non soltanto lo studioso e il fine intellettuale.
Ringrazio la presidente della Società Operaia di Mutuo Soccorso Mimma Garoffolo per l’ospitalità e l’assessore alla Cultura di Bagnara Giuseppe Spoleti per le belle parole. Ringrazio doppiamente Francesca Fassari, per la lettura di “In alto a sinistra” e di “Petali” e per la realizzazione del resoconto fotografico della presentazione del libro, dal quale sono tratte le foto qui pubblicate.
L’incontro di domenica 22 è stato moderato dall’editore di Disoblio Salvatore Bellantone, mentre lo studioso Natale Zappalà ha relazionato sul libro. A entrambi auguro di continuare a resistere nella trincea della cultura, anche se infuria la tempesta e le diserzioni sembrano essere all’ordine del giorno.

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Il resoconto della presentazione di Minita, a cura di Disoblio Edizioni

Il resoconto della presentazione del libro, a cura di Disoblio Edizioni.

(Per la casa originale, cliccare al seguente link: https://www.messagginellabottiglia.it/2014/12/santeufemia-daspromonte-presentato-il.html)

Si è svolta sabato 13 dicembre, presso la Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). Alla presentazione, moderata da Carmela Cutrì (Docente di Lettere presso il Liceo Scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte), sono intervenuti: Carmelo Pirrotta (Assessore alla Cultura di Sant’Eufemia d’Aspromonte), Fabio Cuzzola/Lou Palanca (Scrittore), Salvatore Bellantone (Editore), Domenico Forgione (Autore del Libro).

Carmela Cutrì ha introdotto i lavori, ricalcando come Domenico Forgione sia uno scrittore multiforme che propone in maniera avvincente una serie di racconti dotati di grande sensibilità umana. Il suo stile narrativo ricorda molto Umberto Saba, perché mette in evidenza le figure al margine della società. Come lo definisce Antonio Calabrò nella sua prefazione, l’autore è un artista del sentimento e un artigiano della speranza.

Carmelo Pirrotta ha spiegato l’importanza della presentazione di Minita per la città di Sant’Eufemia d’Aspromonte perché con questo libro Domenico Forgione ci arricchisce tutti, evidenziando come non possa esserci crescita alcuna se non attraverso la cultura e la lettura. Il suo libro sottolinea come il cambiamento provienga da ognuno di noi, con la consapevolezza di trasmettere ai più giovani dei modelli di vita sana.

Fabio Cuzzola/Lou Palanca ha spiegato come il libro di Domenico Forgione metta in risalto un nuovo genere letterario proveniente dal mondo della blogosfera e poi diventato un libro vero e proprio. Come dice Deleuze, occorre parlare al mondo e del mondo dal microcosmo da cui si proviene, senza mai dimenticare il luogo da cui si parla. La forza di Domenico Forgione è proprio questo, l’approccio meticcio alla globalità e al linguaggio. Come Anteo, l’autore è un gigante ben radicato nella propria terra, anche da un punto di vista etico, soltanto che gli dèi lo guardano solo. Parla dei vinti, dei semplici, di coloro che sembra non facciano storia invece ne sono i tasselli essenziali. Minita è un libro di resistenza contro tutte le oppressioni e un libro di radicamento alla propria terra.

Salvatore Bellantone ha chiarito come Domenico Forgione sia uno scrittore poliedrico. Come un arcobaleno, dentro di sé ha tanti di quei colori che rendono bella la sua scrittura, capace di raccontare qualsiasi cosa. Minita narra una grande trasformazione, da una vita a un’altra, in direzione di una chiara visione delle cose, nella quale tutto sarebbe diverso se ognuno di noi facesse la sua piccola parte. Il libro propone un viaggio alla scoperta della propria vera identità, coincidente con l’urgenza di non essere più così come il sistema impone con le sue mode, ideali e reali, e con i suoi strumenti di controllo e di manipolazione. Tale ritrovamento consiste nel recupero della coscienza e dello sguardo sul mondo proveniente dalla realtà in cui si è cresciuti, senza le macchie della società dei consumi, della fretta e del capitalismo. Minita è un libro di resistenza, di ribellione a tutti gli schemi manipolanti imposti dall’alto e a tutti i costumi degenerati della nostra società. Impone la fermata del tempo del potere e dell’economia, e l’accesso a un diverso tempo nel quale c’è ancora la propria unicità.

Domenico Forgione ha chiarito come Minita sia il libro più sofferto che ha scritto, perché parla di lui senza veli. Molti degli scritti presenti nel libro provengono dal blog “Messaggi nella bottiglia”, e contiene svariati racconti: giornalistici, di storia grande e piccole storie, di personaggi locali. Il libro racconta il mio ritorno a quello che ero. È un mix di cultura alta e bassa, di ironia e dramma. Ho voluto trattare dei sentimenti umani, lasciando al lettore la libertà di farsi un’idea e di ricercare le proprie citazioni che riempiono il proprio mondo. Come direbbe De André, “in ognuno brilla una goccia di splendore”. Occorre abituarsi a vedere le cose e le persone nella loro giusta dimensione ma ciò è possibile cominciando a fare qualcosa per gli altri ogni giorno. È questa la rivoluzione di cui necessitiamo, tornare al buon senso e alla responsabilità.

Accesa infine la lanterna della Disoblio, Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata irradiata dalla luce della conoscenza, un bagliore nella notte portatore di una diversa visione delle cose, incentrata nella convivenza e nella condivisione.

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Minita in libreria

Minita è stato il primo post che ho pubblicato sul blog, più di quattro anni fa. Oggi è diventato il titolo di un libro.

 

“Nei momenti di difficoltà ho sempre avuto l’abitudine – quasi un riflesso – di ascoltare canzoni che so a memoria e di scrivere. È stato per me naturale provare a riempire la sensazione di vuoto allo stomaco continuando a “tenermi impegnato” con quello che avevo sempre fatto: un po’ per pigrizia, un po’ perché Massimo Troisi aveva ragione ad obiettare che non se la sentiva di ricominciare da zero, sentendo in cuor suo che due o tre cose discrete nella vita le aveva comunque fatte. E anche se così non fosse, dedicarsi a ciò che procura serenità indubbiamente rappresenta per lo spirito un efficace ricostituente”.

[Dalla premessa]

“Il libro scorre veloce: l’ironia garbata, a volte pungente, invita al sorriso. La malinconia a tratti lacera, ma diventa piacevole nella speranza di un ricordo. Ricordando spera, e sperando ama; cesella distanze che sembrano infinite, unisce due rette con uno scherzo ben riuscito, colora ogni spazio bianco e diluisce quelli neri con una scolorina lirica frutto del suo ingegno.
Non appiattisce, anzi rimarca le differenze: si limita a svelare i trucchi disneyani di un mondo voluto a forza manicheo; suggella le enormi differenze tra gli uomini, tra tutti gli uomini, intingendo direttamente la penna nel suo cuore messo a nudo: non ci sono buoni e cattivi, ci sono fatti, circostanze, e persone che si trovano nella mischia, a volte senza neanche uno scudo per difendersi. La realtà è così complessa che vale la pena di essere vissuta, canticchiando Because The Night e gustando U Mangiari i San Giuseppi”.

[Dalla prefazione di Antonio Calabrò]

“E allora vedremo la bellezza di ieri, i personaggi semplici di paese, i maestri di scuola e i genitori di una volta, gli insegnanti di vita, le amicizie, i giochi, la centralità dello studio e della formazione politica; le comunità preoccupate per il destino dell’altro, gente affamata e povera, racconti di guerra, di emigrazione, di morte sul lavoro, personaggi illustri, mastri e tipi divertenti; e anche esempi di solidarietà, di condivisione, di amicizia nella disabilità, storie di bufale, leggende ed episodi fatali.
[…] Diventando Minita, Domenico Forgione non scappa via dalla nostra terra “perché sa dove andare”. Il suo compito è raccontare “i colori da dietro”, da altri punti di vista; è dire alla gente che “basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie”; è indicarle la necessità di imparare a convivere con la ragione dell’altro”.

[Dalla postfazione di Salvatore Bellantone]

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Muti, Cilea e un po’ di Sant’Eufemia sconosciuta

Le immagini della visita di Riccardo Muti al mausoleo di Francesco Cilea, a Palmi, hanno riportato alla mia mente una curiosità storica della quale forse non tutti sono a conoscenza. L’autore di Adriana Lecouvreur nacque infatti a Palmi il 23 luglio 1866, figlio dell’avvocato Giuseppe e di donna Felicia Grillo. Nelle sue vene scorreva però una parte di sangue eufemiese: quello della nonna Rachele Parisi, figlia di Francesco e Marianna Capoferro, la quale a 23 anni, il 2 giugno 1822, aveva sposato il ventottenne Francesco Cilea, medico originario di Pentidattilo. L’atto di matrimonio, redatto dall’allora sindaco di Sant’Eufemia Antonino Luppino, è conservato nel “Registro dei matrimoni” (anno 1822), presso l’Ufficio Anagrafe e Stato civile.

Un altro filo rosso che lega Cilea alle pendici dell’Aspromonte ci porta invece dritti a Nino Zucco: pittore, scrittore e scultore originario di Sant’Eufemia sulla cui opera l’8 aprile 2013 l’amministrazione comunale ha organizzato un convegno, grazie all’input arrivato da una serie di articoli e interventi che su questo blog avevano denunciato l’oblio ingiustamente calato su uno degli eufemiesi più illustri del Novecento.

Zucco fu infatti spesso ospite della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. È opera di Zucco il celebre quadro che ritrae il Maestro seduto al pianoforte. Così come il disegno a carboncino che ne riproduce il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte.

Fu proprio grazie all’opera di convincimento di Zucco che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito per realizzarne la maschera funeraria.

A trent’anni dalla morte (1981), Zucco diede alle stampe il ricordo e il carteggio attestanti il rapporto “di profonda devozione da parte mia e di benevolenza e affettuosa amicizia da parte del maestro per me che durò fino alla sua morte” (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, Barbaro editore). Un’amicizia iniziata negli anni Quaranta, quando Cilea volle conoscere personalmente l’autore dell’articolo a lui dedicato dal quotidiano newyorkese in lingua italiana “Il Progresso Italo-Americano” del potentissimo Generoso Pope, sul quale a lungo scrisse anche il giornalista e critico musicale Nino Fedele, un altro eufemiese illustre.

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Anime nere

“Che ci fanno queste anime/ davanti alla chiesa/ questa gente divisa/ questa storia sospesa”: “macchie di lutto” per Fabrizio De André e Ivano Fossati in Disamistade. “Anime nere”, nel libro di Gioacchino Criaco dal quale Francesco Munzi ha tratto un film potente, spiazzante per chi temeva la semplificazione del ricorso alle categorie del bene e del male. Come se la questione fosse solo identificare il male senza riuscire a raccontarlo. Non per tentare di spiegarlo, magari ricorrendo a giustificazioni storiche o sociologiche, con il rischio di offrire – anche soltanto involontariamente – un assist all’alimentazione del suo fascino perverso. Bensì per gridare: questo siamo, questo esiste. Nonostante noi, vittime e carnefici; nonostante voi, che ci impiegate un attimo a capire tutto rifugiandovi in comodissimi stereotipi. Con tutta l’umanità possibile, senza retorica e cercando di proteggere quel che resta dell’uomo risucchiato dal gorgo della violenza, condannato a un destino quasi ineluttabile. Fatto di sangue che chiama sangue. Ma forse ancora capace, se non di redimersi, di ribellarsi ai codici della morte pur provocando ancora morte, superbo e drammatico paradosso che rimanda ai temi universali della tragedia greca.
Anime nere è una fotografia, racconta uno spaccato della realtà calabrese per come essa è, senza la presunzione di insegnare nulla: “non è mio compito lanciare messaggi”, ha precisato Munzi nel dibattito seguito alla prima del “Lumiere” di Reggio Calabria. Come d’altronde aveva già fatto Criaco nelle pagine del romanzo, epopea criminale che innalza a tragedia universale il dramma familiare di una famiglia di pastori diventata nel giro di una generazione protagonista mondiale del traffico internazionale della droga e del riciclaggio di denaro sporco. Ascesa inarrestabile, comune a molte famiglie di ’ndrangheta, che non può che concludersi dietro le sbarre o sottoterra. Subito dopo i titolo di coda, la commozione di Criaco è diventata così l’emozione degli spettatori, un tutt’uno con il “collettivo urlo liberatorio” richiamato nel suo intervento dallo scrittore per definire l’esito della pellicola.
Lutto dopo lutto, le contraddizioni delle “anime nere” si sciolgono nel sangue di un finale sorprendente, che realizza sul piano della realtà il falò con cui Luciano (uno straordinario Fabrizio Ferracane) brucia metaforicamente il passato, il presente e il futuro della propria famiglia. Per i figli dei pastori diventati criminali non c’è salvezza. Non per Luciano, che era rimasto quando probabilmente avrebbe fatto meglio ad andare. Né per Luigi (Marco Leonardi), che passa indifferentemente dal night di mille euro a notte allo scuoiamento di un capretto gonfiato soffiando dentro una penna Bic. Tantomeno per Rocco (Peppino Mazzotta), che non sa resistere al richiamo del sangue e incarna l’immortalità di “regole” arcaiche tramandate nel dialetto africoto dei dialoghi sottotitolati in lingua italiana, respirate insieme alla stessa aria dei paesaggi dolorosamente stupendi dell’Aspromonte, trasformati da Munzi in set cinematografico.

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Il libraio di Meladoro

Perché è importante leggere i libri? La riflessione di Francesco Petrarca sul suo rapporto con i libri, a distanza di quasi otto secoli, conserva un’intatta forza evocativa e può essere considerata una valida risposta al nostro quesito:

Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m’insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d’agricoltura, d’eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge.

Leggere fa bene allo spirito. Ed è anche un esercizio utile, perché tra le righe di ogni pagina si finisce con il ritrovare le vite che non si sono vissute; si ha il privilegio della compagnia di personaggi inavvicinabili; si assiste dalla “prima fila” allo scorrere della Storia.

Chi non legge – osserva Umberto Eco – a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

La lettura dei libri consente di gettare un ponte tra presente e passato, di instaurare un dialogo con gli spiriti migliori dei secoli andati, di ascoltare – a un prezzo irrisorio – lezioni uniche e fondamentali per lo sviluppo dell’umanità.
Giovanni Florio, il libraio di Meladoro protagonista dell’omonimo romanzo di Aldo Coloprisco (Laruffa Editore, 2014) tutto questo lo sa bene. Sa che in un paese come Meladoro/Sant’Eufemia d’Aspromonte, negli anni Sessanta del secolo scorso, sono in pochissimi a leggere e sa che la sua è una missione quasi impossibile. La strada che conduce al progresso culturale di una piccola comunità passa pertanto dalla testimonianza dell’amore verso i libri e la lettura, che va promossa a maggior ragione dopo avere letto sgomenti le attuali statistiche. I dati del “Libro verde sulla lettura in Calabria” pubblicati alla fine del 2012 sono preoccupanti e rilegano la Calabria nelle retrovie di un Paese che già guarda le altre nazioni europee dal basso in alto. La quota di lettori in Italia è infatti tra le più basse del Vecchio Continente: l’8% di lettori abituali e il 30% di lettori saltuari, a fronte del 63,7% nel Regno Unito, del 60,2% in Germania, del 48,3% in Francia, del 47,6% in Spagna. Una percentuale che in Calabria scende a livelli record, se si considera che i lettori di libri durante il tempo libero costituiscono il 30,5% della popolazione, mentre la media nazionale è pari al 43,8%.
Florio, che aveva “ereditato” la passione per i libri dal suo padrino di battesimo, osserva che a Meladoro pochissimi leggono e quei pochi, per lo più, si limitano ai libri di testo delle scuole. Spostiamo la scena al giorno d’oggi: quanti ragazzi, persino laureati, non leggono quasi niente se si fa esclusione dei libri necessari per superare gli esami universitari?

Giovanni invece era diverso: divorava i libri “nel silenzio della sua cameretta o in mezzo al chiasso indiavolato dei compagni delle medie e del liceo (…). Leggeva di tutto e s’immedesimava nelle storie che leggeva. Grazie a queste letture imparava a conoscere il mondo senza spostarsi dal paese”.

In Giovanni Florio c’è ovviamente molto dell’autore, per decenni professore di lettere presso la locale scuola media “Vittorio Visalli” e titolare di una libreria diventata negli anni uno strumento formidabile di aggregazione socio-culturale. Nel romanzo però Coloprisco presta la sua biografia anche a un altro personaggio, il professore Forlini, che mette in piedi a Meladoro una compagnia teatrale della quale uno degli attori di punta è proprio Giovanni Florio. Un’attività che non sempre i colleghi di Aldo Coloprisco hanno compreso, considerandola minore rispetto all’insegnamento ortodosso, fatto di lezioni frontali e interrogazioni. Cosa voleva quel professore bizzarro che, invece, faceva disporre i banchi a ferro di cavallo per lasciare nel mezzo lo spazio per le prove della rappresentazione teatrale che ogni anno veniva allestita? Che era capace di “bruciare” così tre ore? Che di sua spontanea iniziativa insegnava rudimenti di latino perché poteva “tornare utile” ai ragazzi intenzionati a iscriversi al liceo scientifico, al classico o al magistrale?
Quando rileva l’attività del padre don Cecè, Giovanni Florio dà un forte impulso alla libreria. Porta più libri di testo, fa arrivare in paese le edizioni economiche degli autori italiani e stranieri più famosi, organizza la “settimana del libro”, come nelle realtà più grandi e culturalmente più avanzate rispetto a Meladoro. La libreria diventa punto d’incontro nel quale parlare di scrittori e poeti, riflettere sul passato e sul presente, scambiare esperienze ed emozioni. La vetrina a muro posta sulla strada, all’esterno del negozio, si trasforma per tanti giovani nella finestra attraverso la quale guardare il mondo da una prospettiva inedita, quella del fermento culturale della società contemporanea. Al di là, ovviamente, di ogni considerazione sull’aspetto economico, davvero risibile in un comune piccolo come Meladoro: carmina non dant panem, dirà Giovanni Florio allo scagnozzo del boss che vorrebbe costringerlo a cedere l’attività.

Giovanni Florio è un idealista. Crede nella potenza salvifica della parola e non perde occasione per ribadire la strettissima relazione che intercorre tra sogni, libri e libertà: “i sogni sono libertà”. Si definisce “un venditore di sogni, non di morte” ed esorta i suoi concittadini a comprare libri ai figli, per farli sognare e renderli migliori. La sua contrapposizione allo spirito prevaricatore della ’ndrangheta è una lezione di vita che i giovani frequentatori della libreria e del teatro colgono in pieno.

Il libraio di Meladoro contiene pagine durissime, sorprendentemente violente. Tuttavia, si conclude con un messaggio di speranza. I ragazzi scendono per strada per manifestare il proprio dissenso rispetto alle dinamiche distorte della malavita e si schierano dalla parte di Florio. Dalla parte del bene e contro il male. Anche se il protagonista sa perfettamente che una rivoluzione non si improvvisa, ma è l’esito finale di un processo lento, che ha i suoi tempi e che richiede il coinvolgimento delle agenzie educative presenti sul territorio: chiesa, scuola, associazioni culturali, famiglie.
I giovani di Meladoro ricordano gli studenti che nella scena finale del film “L’attimo fuggente” salgono sui banchi in segno di ribellione e per dimostrare di avere recepito la lezione del professore John Keating. Quelli saltano sui banchi, questi danno vita a una manifestazione antimafia. Una reazione dirompente nella sua spontaneità e un messaggio di speranza da condividere e rivolgere alle giovani generazioni di oggi e di domani.

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Dieci anni senza Tiziano Terzani

In un celebre verso Attilio Bertolucci osserva che l’assenza è una presenza “più acuta”. Sorte toccata a Tiziano Terzani, scomparso da dieci anni ma vivo nel dibattito culturale e letterario, addirittura nel costume di una società in crisi e alla ricerca di una bussola o soltanto di parole lievi come una carezza. Se in vita Terzani fu “soltanto” un grandissimo inviato e scrittore, autore di reportage che oggi vengono studiati nelle scuole di giornalismo, con la morte – con l’esposizione “pubblica” della malattia e della morte – è diventato un poeta dell’esistenza (copyright del velista in solitaria Giovanni Soldini), profeta laico dell’urgenza di “pensare diversamente” la realtà, perché “il mondo non è più quello che conoscevamo” e “questa è l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla”. L’occasione per comprendere – dopo avere visto da vicino e raccontato il fallimento delle rivoluzioni in Vietnam (dove era stato tra i pochi testimoni della resa di Saigon e della fuga rovinosa degli americani all’arrivo dei vietcong, nel 1975), Cambogia, Unione Sovietica, Cina – che l’unica rivoluzione possibile è quella che conduce alla pace interiore: consapevolezza spinta fino all’accettazione serena della morte in Un altro giro di giostra, l’ultimo e più intenso viaggio (“nel male e nel bene del nostro tempo”) del giornalista fiorentino.

Il pellegrinaggio incessante lungo il “sentiero Terzani” per raggiungere l’albero “con gli occhi” nel bosco del suo ritiro all’Orsigna, sull’appennino tosco-emiliano, dove fece costruire una gompa tibetana e ricreò l’atmosfera dell’ashram indiano in cui aveva a lungo vissuto facendosi chiamare Anam, “il senza nome” (e da Anam sottoscrisse la volontà di essere cremato: “un nome appropriatissimo per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno”); i numerosi e attivi gruppi di lettura che leggono e dibattono i suoi libri; l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah in Afghanistan e le scuole “Tiziano Terzani” sono espressione di un fenomeno sociale, del bisogno di esempi di bellezza, purezza, umanità. Anche quando si ha a che fare con il fondamentalismo islamico, perché i terroristi si sconfiggono eliminando le ragioni che portano migliaia di persone a imbracciare le armi o a farsi saltare in aria, non rispondendo al sangue con altro sangue. Le Lettere contro la guerra rappresentano il punto più alto del suo impegno civile all’indomani dell’11 settembre, quando decide di “scendere in pianura”, tornare cioè nel mondo dopo la scelta del prepensionamento da Der Spiegel, stanco della professione, convinto di avere detto tutto ciò che aveva da dire sul giornalismo, ritirato sull’Himalaya senza l’assillo di scadenze che non fossero quelle della natura e delle stagioni. Nel momento storico dominato dal “siamo tutti americani” lanciato dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e dal livore di Oriana Fallaci, che in La rabbia e l’orgoglio mette sul banco degli imputati la “viltà” di un’Europa prona e diventata “Eurabia”, Terzani torna per indicare nella non-violenza la sola strada percorribile per spezzare la spirale dell’odio.

La lapide che lo ricorda nel cimitero di Orsigna ne riassume la vita con la parola “viaggiatore”, mentre la moglie Angela Staude ricorre al tedesco Sehnsucht (“brama di vedere”) per definire il fascino che gli suscitavano paesaggi e culture lontani non solo geograficamente dall’orizzonte occidentale e per racchiudere la dimensione più autentica di Terzani, quella del “viandante alla ricerca della conoscenza”: “la meta, per Tiziano, è stata la strada, il cammino”.

*Articolo pubblicato su Segnali di cultura a cura di Adexo Ufficio Stampa, 28 luglio 2014

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