Le sommosse in carcere e la suggestione dei “papelli”

Foto Claudio Furlan – LaPresse 09 Marzo 2020 Milano (Italia) News Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a causa delle nuove misure per l’emergenza coronavirus

C’è voluta la commissione ispettiva del Dap per accertare ciò che sapevano tutti, o almeno tutti quelli che – come ha sottolineato “Il Dubbio” – hanno un minimo di conoscenza della realtà carceraria: dietro le rivolte di marzo 2020 non c’è stata nessuna regia della criminalità organizzata. Non poteva esserci per un semplice motivo, ben noto – ripeto – a chi conosce le dinamiche interne di un carcere. I detenuti dell’Alta sicurezza (il circuito nel quale vengono ristretti condannati al 416 bis, nonché gli imputati in attesa di giudizio per lo stesso reato) hanno una prospettiva detentiva molto lunga, per cui hanno tutto l’interesse a “farsi la galera”. Sono consapevoli che eventuali inconvenienti di “ordine pubblico” provocherebbero ritorsioni che andrebbero a colpire la qualità della loro vita: dispetti più o meno incresciosi e snervanti, chiusura delle celle durante il giorno (laddove è concessa), sospensione della “socialità” e di altre attività che in qualche modo alleggeriscono il peso di giornate sempre uguali. Può sembrare paradossale, ma i detenuti dell’Alta sicurezza sono quelli che danno meno problemi all’amministrazione penitenziaria. Chi deve trascorrere dietro le sbarre 10, 20 o più anni ha tutto l’interesse a farlo nel “migliore” modo possibile. Una spicciola questione di tornaconto personale.
D’altronde, sarebbe stato sufficiente verificare i singoli episodi. Su una ventina di casi, soltanto nel carcere di Melfi la protesta interessò il circuito dell’Alta sicurezza e i protagonisti non ebbero certo alcun trattamento di favore: qualche testa spaccata dai colpi di manganello arrivò anche a Palmi nei giorni successivi.
Tranne che in circoli mediatici ristretti, l’argomento carcere sconta sempre sentimenti di indifferenza o, peggio, di ignoranza. La verità era emersa subito, ma non era quella giusta, quella che poteva avere presa nell’opinione pubblica. Ad innescare le rivolte erano state la paura per la pandemia, in una fase in cui ancora non si aveva la chiara percezione di ciò che stava accadendo, e – soprattutto – la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. La successiva introduzione delle videochiamate, da questo punto di vista, è stata una misura provvidenziale.
Indubbiamente di forte suggestione era però l’ipotesi di rivolte orchestrate dalla criminalità organizzata, con annesso corollario di improbabili “papelli”, veicolata dai passacarte delle Procure e dall’antimafia da salotto. «Se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera», ammoniva George Orwell nel capolavoro “1984”. Per cui, tutti a ruota della panzana, ministro Bonafede in testa.
Il cattivo – che esiste – è funzionale all’esercizio del potere. Senza scomodare studi autorevoli, ce lo ricorda la maschera creata da Antonio Albanese, il Ministro della Paura: «Senza la paura non si vive. Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Io trasformo la paura in ordine, e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile».
E chi se frega se i “cattivi” sono spesso in attesa di giudizio (quindi costituzionalmente ancora “buoni”), se i Comuni vengono sciolti con la formuletta imbevuta di pregiudizio “più probabile che non”, se gli imprenditori vengono ridotti al lastrico in via preventiva.
Di questo dovrebbe discutere una classe politica inerte nell’azione di concreto contrasto alla criminalità organizzata, la cui sconfitta necessita di servizi pubblici garantiti, di sviluppo e di lavoro nelle aree economicamente e socialmente depresse del Paese. Un sentiero accidentato, che si preferisce aggirare con gli arresti di massa e le misure di prevenzione, in barba alle più elementari garanzie costituzionali. Un percorso sbrigativo e rassicurante per l’opinione pubblica, ansiosa di vedere volare per aria le teste dell’Idra di Lerna. Che puntualmente ricrescono.

*Pubblicato su “Il Dubbio” (27 agosto 2022)

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Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua

Il Dubbio, 9 luglio 2022

L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.

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Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video

IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021

Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.

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