Così inchieste flop e scioglimenti copia e incolla hanno raso al suolo l’impegno politico di una regione

Le considerazioni sui provvedimenti di scioglimento dei comuni per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi, espresse nella sua lettera a “Il Dubbio” dall’ex vicesindaca di Rende Marta Petrusewicz, hanno aperto un interessante dibattito, al quale l’avvocato Pasquale Simari ha offerto il contributo dell’esperto: «La vicenda di Rende – ha sottolineato – non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia».
Parole forti, suffragate da fatti che purtroppo godono di scarsa visibilità mediatica: le sentenze dei processi che, a distanza di anni dai titoloni dei giornali, ridimensionano o addirittura smentiscono le ordinanze di custodia cautelare. Sarebbe pertanto ora di pensare ad un albo dei comuni sciolti per mafia ingiustamente, da pubblicare (per dirla con Sciascia) “a futura memoria”.
Con questo spirito, mi permetto di segnalare il caso del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà – tra gli altri – il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino. La presenza di cinque indagati “infiltrati” nel comune determinò la sospensione e poi lo scioglimento del consiglio comunale (14 agosto 2020): «All’esito di approfonditi accertamenti – si legge nel decreto – sono emerse forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’ente locale a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale». Al termine dei diciotto mesi previsti dalla legge, secondo prassi consolidata, seguì la proroga di ulteriori sei mesi, poiché non risultava ancora “esaurita l’azione di recupero e risanamento” dell’ente.
Lo scioglimento dei comuni si fonda sulla relazione del prefetto al ministero dell’Interno: nella sostanza, la condivisione dei contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, a sua volta una sorta di copia-incolla degli “esiti dell’attività di indagine” e delle “notizie di reato” trasmessi dagli investigatori al pubblico ministero.
Tre anni dopo gli arresti, la sentenza di primo grado (17 febbraio 2023) ha smentito l’esistenza di un condizionamento dell’amministrazione comunale, poiché all’archiviazione del sottoscritto si è aggiunta l’assoluzione degli altri quattro indagati.
Per il sindaco di Sant’Eufemia Creazzo, l’accusa era di scambio elettorale politico-mafioso: a “cercare la ’ndrangheta è la politica e non il contrario”, aveva sentenziato la relazione del ministro Lamorgese. Quasi un anno e mezzo di arresti domiciliari e un provvedimento di obbligo di dimora, prima della sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”.
Il vicesindaco Cosimo Idà veniva presentato come “capo, promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di ’ndrangheta di Santa Eufemia”. Nove mesi di carcerazione preventiva, la scarcerazione per accertato scambio di persona e l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”.
Scambio di persona anche per Angelo Alati, presidente del consiglio comunale accusato di rivestire la carica di “mastro di giornata” e assolto perché “il fatto non sussiste”, l’inconsistenza indiziaria era già emersa nell’udienza del Tribunale del riesame che ne aveva ordinato la scarcerazione, un mese e mezzo dopo l’arresto.
Terzo scambio di persona riguardò chi scrive, accusato “di monitorare gli appalti assegnati dal Comune di Santa Eufemia per consentire alle aziende del locale di ’ndrangheta di insinuarsi nei lavori”, [di fungere] “da spia” interna al Comune, [di mettersi] a disposizione della cosca per compiere atti minatori nei cantieri, [di disporre di “agganci”] che gli consentivano di conoscere preventivamente gli esiti delle indagini che provvedeva a veicolare tra i sodali per eludere l’attività investigativa o la cattura». Sette mesi di carcerazione preventiva, scarcerazione e proscioglimento al termine dell’udienza preliminare.
Il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino era accusato di prendere parte a riunioni di ’ndrangheta e di operare “in favore della cosca affinché gli appalti fossero assegnati direttamente [o indirettamente] a una ditta gradita all’organizzazione mafiosa locale. Assolto perché “il fatto non sussiste”, dopo ben tre anni di carcere.
Il filone politico dell’inchiesta si è rivelato un flop totale. Del “solido complesso probatorio” restano parole che sono sale su ferite ancora aperte: «Nel caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte si va comunque ben oltre i “collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso” o le “forme di condizionamento” degli amministratori. L’operazione “Eyphèmos” dimostra che diversi OMISSIS piuttosto che “collegati” o “condizionati dalla ’ndrangheta” sono organici alla stessa. Un salto di qualità rispetto alla fattispecie di cui all’art. 143 T.U.E.L. del tutto evidente». Ma di evidente, purtroppo, c’è soltanto lo scarto tragico tra ipotesi e realtà.
Quando, nove mesi fa, si è votato per ridare alla comunità eufemiese un’amministrazione comunale, soltanto due tra i trentanove candidati nella precedente elezione si sono ripresentati. In un piccolo paese esistono dinamiche familiari e sociali che rendono arduo l’impegno politico sulla base delle attuali disposizioni di legge. Molti preferiscono defilarsi: per paura, per delusione, per senso di responsabilità.
Prevenzione e pregiudizio sono spesso le facce della stessa medaglia e concorrono alla compressione della democrazia, laddove impediscono l’affermazione della volontà popolare. Per questo, occorre denunciare la criminalizzazione subita da vaste aree del Paese. Affinché gli studenti di domani avvertano lo stesso moto di indignazione oggi suscitato dagli studi sul volto truce del potere nella storia d’Italia: la brutalità della legge “Pica”, la revisione arbitraria delle liste elettorali in epoca crispina, i mazzieri di Giolitti, lo scioglimento dei comuni nel passaggio dallo stato liberale al regime fascista. Ogni volta che, in nome dell’interesse superiore del mantenimento dell’ordine pubblico, una “guerra santa” ha ferito i principi democratici, sospeso le garanzie costituzionali e causato un numero spropositato di “vittime collaterali”.
Oggi come ieri questo è stato. Ma questo è Stato?

*Pubblicato su: Il Dubbio, 8 agosto 2023

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Quel prezioso aiuto del “piantone” in aiuto del compagno di cella inabile

Nella quinta stazione della Via Crucis entra in scena Simone di Cirene, “un tale cha passava”, il quale viene costretto dai soldati romani ad aiutare Gesù a portare la croce fino alla collina del Golgota. L’aspetto coercitivo della vicenda narrata dagli evangelisti Marco e Matteo resta sullo sfondo. Risalta invece il carattere universale di un incontro involontario, non dissimile dai tanti che nell’arco della vita accadono tra soggetti sconosciuti, obbligati dalle circostanze a patire una sofferenza comune. “Cireneo” è infatti colui che, spontaneamente o meno non importa, assume su di sé la fatica e la pena di un altro.
La condivisione di una croce appartiene a quei gesti che sconcertano per la loro abbagliante bellezza. Non dipende dalla condizione personale dell’autore, che può a sua volta avere le spalle già gravate da un fardello proprio. È il caso dei detenuti che svolgono la funzione di “piantone” nelle carceri. Una figura preziosissima, della quale il mondo di fuori ignora l’esistenza. E che ricorre nei racconti di chi riesce a trovare bagliori di umanità in posti di frequente simili a gironi danteschi.
Nelle galere italiane vivono persone, condannate o in attesa di giudizio, non sempre totalmente autosufficienti a causa di patologie varie: in particolare, circa 600 disabili e un migliaio di ultrasettantenni che presentano malattie tipiche dell’età avanzata. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, prescrive il terzo comma dell’articolo 27 della costituzione, che è tuttavia scarsamente applicato nei luoghi di detenzione, al pari del diritto alla salute e – specialmente per i detenuti anziani – del principio della proporzionalità della pena e della sua funzione rieducativa.
Per questi soggetti la pena è doppia, dovendo essi scontrarsi con le molteplici criticità strutturali di edifici spesso fatiscenti: barriere architettoniche lungo il percorso (a volte lungo) che va dalla sezione al cortile del passeggio, gradini e marciapiedi malfermi, bagni inadeguati. Alla privazione della libertà si aggiunge quindi la mortificazione causata dalla perdita dell’autonomia nello svolgimento di azioni elementari.
In alcune prigioni i soggetti non autosufficienti vengono affiancati da un altro detenuto, appunto il piantone, che ha il compito di assistere e aiutare il compagno di cella nelle sue necessità personali e nelle attività che non è in grado di svolgere. Il piantone cucina, lava la biancheria, rassetta il letto, tiene pulita la cella. Sbuccia la frutta e taglia la carne: operazioni tutt’altro che semplici da realizzare con le deboli posate di plastica, per chi non può contare su una buona prensione della mano. Al pari del taglio delle unghie, al quale il piantone provvede. Accompagna l’anziano o il disabile in bagno e nelle docce comuni, nel passeggio e in infermeria, lo aiuta a vestirsi e ad allacciare le scarpe.
Non tutti i penitenziari possono contare sui fondi necessari per corrispondere il piccolo compenso destinato a queste figure, o comunque non ne dispongono a sufficienza per coprire il fabbisogno dell’istituto. Intervengono allora lo spirito di solidarietà e la legge non scritta che impone di soccorrere chi si trova in difficoltà. Per senso di umanità e per rispetto della dignità dell’individuo, che dovrebbero valere sempre e ovunque: per le persone libere così come per quelle incarcerate. Quella umanità che traspare quando, dopo avere condotto il compagno alla postazione per le videochiamate, il piantone dedica ai familiari in attesa nel display un sorriso rassicurante: «È tutto a posto, state tranquilli. Ci penso io a lui».

IL DUBBIO, 29 marzo 2023

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Vi spiego io la barbarie delle intercettazioni

Il Dubbio, 21 gennaio 2023

“Il Dubbio” di oggi ospita una mia riflessione su intercettazioni e trojan

La relazione al Senato del guardasigilli Nordio ha innescato la prevedibile reazione di chi, da decenni, intossica il dibattito sul tema della giustizia in Italia con considerazioni per lo più strumentali, che passano come un carrarmato sulla vita delle persone. Io credo, invece, che occorra un alto livello di umanità, quando si affrontano temi che incidono fortemente sulla libertà, sulla dignità e sulla rispettabilità degli individui.
Il ministro della Giustizia afferma, e noi gli crediamo, che «il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale». Però dice anche, per stoppare le urla scomposte del fronte giustizialista, che «non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».
Mi permetto di dissentire e di portare ad esempio, ahimè, la mia esperienza personale: un caso forse limite, ma comunque utile – spero – per centrare e meglio evidenziare i contorni della discussione, quando si parla di intercettazioni e di 416 bis. Sono stato arrestato il 25 febbraio 2020, sulla base di una conversazione (11 pagine sulle 3651 complessive dell’indagine) intercettata tramite il trojan installato sul telefonino di un altro indagato, che si trovava a cena con due persone, ad una delle quali era stata attribuita la mia identità. Nonostante la mia dichiarazione di assoluta estraneità, già in sede di interrogatorio di garanzia (due giorni dopo l’arresto e senza avere ancora ascoltato l’audio della conversazione), e la contestuale richiesta di effettuare una comparazione fonica (non accordata nell’immediato; mentre in nessuna considerazione il Tribunale della libertà ha tenuto la perizia fonica presentata dalla difesa), ho dovuto subire sette mesi di custodia cautelare in carcere, fino a quando il Ris di Messina, su incarico della Procura di Reggio Calabria, non ha stabilito che la voce intercettata non era la mia. Duecentocinque giorni dopo il mio arresto, trascorsi negli “hotel” a cinque stelle di Palmi e di Santa Maria Capua Vetere. Successivamente, la mia posizione è stata archiviata.
La questione, dal mio punto di vista, è quindi un’altra, più profonda e grave. Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello stato di diritto in vaste aree del Paese? L’Italia è uno stato di diritto o uno stato di polizia, nel quale le garanzie individuali possono essere calpestate? Sono queste le domande per le quali io e migliaia e migliaia di altre vittime attendiamo risposte, anche per riuscire ad avere nuovamente fiducia nella giustizia.
La sensazione è che il populismo penale di parte della magistratura e dell’informazione spinga all’accettazione del fatto che la lotta alla criminalità organizzata possa avere come effetto collaterale un numero cospicuo di innocenti in manette. Per motivi ideologici, ma anche per una questione all’apparenza banale: chi parla di carceri, di buttare le chiavi, di innalzare forche nelle pubbliche piazze, lo afferma senza cognizione di causa; senza avere cioè la minima idea del terremoto emotivo che si scatena nell’animo di chi varca il cancello di un carcere, soprattutto se sa di essere innocente. Senza, inoltre, avere la minima idea della condizione disumana delle carceri italiane.
Ecco perché, pur riconoscendo l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di trojan e intercettazioni telefoniche per assicurare alla giustizia i rei, sarebbe auspicabile una rivisitazione del loro impiego, nel senso di ribadirne la validità come strumento di indagine attorno al quale costruire la prova vera e propria.
Prendere atto che su questa delicata materia occorre intervenire, al di là delle caciare strumentali che si sollevano ogni qual volta qualcuno pone con spirito costruttivo la questione, sarebbe già un passo in avanti, a tutela della giustizia e della dignità delle persone, poiché “non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu).

Link: Il Dubbio

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Una padella come forno e una cravatta di carta. Ecco il nostro Natale in cella

Eccoci. Anche noi siamo pronti per il pranzo di Natale. Il direttore ci ha concesso la “socialità”: i detenuti potranno pranzare insieme, fino ad otto in un’unica cella, dove solitamente si sta in due. È uno dei “privilegi” dell’Alta sicurezza: almeno in questo carcere, le sezioni riservate ai carcerati più pericolosi (noi; io) non sono sovraffollate. Tra i comuni è diverso, in una cella vivono ammassati sei, sette detenuti; a volte di più. Il corridoio è un via vai di uomini con lo sgabello sotto il braccio, ognuno porta il proprio, altrimenti gli tocca mangiare in piedi. Sembra un trasloco.

In galera il giorno di Natale è pesante. La mente è affollata dai ricordi, da lontananze che provocano sofferenza. Non è festa, non lo è nemmeno a casa, dove il pensiero di noi è lacerante. Fa ancora più male sentirsi responsabili del dolore dei familiari.

Comunque ci proviamo. Per l’occasione ci vestiamo bene: pantaloni, camicia e giubbottino invece della consueta tuta sportiva sotto lo smanicato. Gianni, che conserva una sua inspiegabile ironia nonostante una condanna all’ergastolo in primo grado, sfoggia una cravatta realizzata con un foglio di giornale ripiegato. Gigi e Antonio hanno invece modellato i capelli con il gel e odorano di Paco Rabanne, come quando hanno il colloquio con i parenti e si profumano per scacciare via il tanfo di carcere che sentono appiccicato sulla pelle.

Ci è andata bene. La socialità non è un diritto riconosciuto ovunque all’interno del sistema penitenziario, è piuttosto un gentile omaggio che dipende dalla sensibilità di chi qua dentro regna come un sovrano assoluto. Ogni carcere è uno Stato a sé e ciò che è consentito al Pagliarelli può non esserlo a Poggioreale. Vale per la socialità, per il numero e la durata di telefonate e videochiamate, per gli acquisti del sopravvitto. Senza alcuna logica apparente, è il caso (capitare in un posto anziché in un altro) a rendere più o meno pesante la detenzione di questa umanità invisibile e dimenticata.

Qualche giorno fa il cappellano ha celebrato la messa nella chiesetta adornata di figure religiose dipinte negli anni dagli stessi detenuti. Un quadro riproduce l’immagine di San Leonardo di Noblac, il liberatore dei prigionieri, che compaiono in ginocchio al suo fianco, in catene. Siamo sempre nei pensieri di don Elio: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (Ebrei 13:3). Stamattina ha fatto arrivare vassoi di bocconcini alla crema, ne mangeremo come minino uno a testa. Non ne assaggio da mesi. Non si possono acquistare dolci di pasticceria, né si può ricevere del torrone con il pacco da casa. I panettoni invece si possono ordinare con la spesa settimanale. Ne abbiamo comprati in buon numero, in modo da scambiarli con altri detenuti, come regalo.

Per le torte non abbiamo problemi. Franco si diletta a preparare cheesecake favolose impiegando le confetture monodose che passano la mattina con la colazione. Il portavitto lo sa e gli lascia pure quelle che altri detenuti non ritirano. Oggi ha però elaborato una torta con le gocce di cioccolato, ottenute riducendo in frantumi – a colpi di caldaia della moka – una tavoletta di fondente. Il “forno” consiste in una padella sulla quale va appoggiata la “campana”, una pentola bucherellata come la padella delle caldarroste. Viene posto sopra un fornellino da campeggio, mentre i bruciatori di due fornellini ai quali è stato smontato il piatto vengono inseriti in due fessure realizzate ai lati della campana. Ciò consente di cuocere la torta sia di sopra che di sotto. Un capolavoro di ingegneria carceraria.

Inalando il gas della bomboletta di un fornellino, pochi giorni fa, Giulio ha deciso di farla finita, nella sezione dei comuni. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza, per i più fragili tutto diventa più opprimente e qualcuno finisce per lasciarsi sopraffare dalla disperazione.

Franco ha voluto fare le cose in grande, ha cucinato per metà sezione la carne di agnello ricevuta con il pacco da casa, disossata e confezionata sottovuoto dopo una leggera cottura, suddivisa in pezzi conformi alle indicazioni dell’amministrazione penitenziaria. Anche noi viviamo sottovuoto, come le cotolette e gli insaccati che mamme, mogli e sorelle preparano e imbustano tra le lacrime, con un’attenzione religiosa.

Dividiamo il pane, ma non possiamo ripetere la stessa operazione con il vino, che è stato tolto dalla lista della spesa dopo una rissa scoppiata tra diversi detenuti ubriachi. L’alchimista della sezione ha però prodotto un surrogato di limoncello, per la verità imbevibile. Ad essere scoperti si rischia qualche giorno di cella di isolamento, ma un dito di liquido giallognolo, da dividere in otto, è giunto anche a noi. Brindiamo con quello alla nascita del Bambinello e al suo messaggio di salvezza, inumidendoci appena le labbra. Buon Natale.

Link: «Una padella come forno e una cravatta di carta. Ecco il nostro Natale in cella» (ildubbio.news)

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Le sommosse in carcere e la suggestione dei “papelli”

Foto Claudio Furlan – LaPresse 09 Marzo 2020 Milano (Italia) News Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a causa delle nuove misure per l’emergenza coronavirus

C’è voluta la commissione ispettiva del Dap per accertare ciò che sapevano tutti, o almeno tutti quelli che – come ha sottolineato “Il Dubbio” – hanno un minimo di conoscenza della realtà carceraria: dietro le rivolte di marzo 2020 non c’è stata nessuna regia della criminalità organizzata. Non poteva esserci per un semplice motivo, ben noto – ripeto – a chi conosce le dinamiche interne di un carcere. I detenuti dell’Alta sicurezza (il circuito nel quale vengono ristretti condannati al 416 bis, nonché gli imputati in attesa di giudizio per lo stesso reato) hanno una prospettiva detentiva molto lunga, per cui hanno tutto l’interesse a “farsi la galera”. Sono consapevoli che eventuali inconvenienti di “ordine pubblico” provocherebbero ritorsioni che andrebbero a colpire la qualità della loro vita: dispetti più o meno incresciosi e snervanti, chiusura delle celle durante il giorno (laddove è concessa), sospensione della “socialità” e di altre attività che in qualche modo alleggeriscono il peso di giornate sempre uguali. Può sembrare paradossale, ma i detenuti dell’Alta sicurezza sono quelli che danno meno problemi all’amministrazione penitenziaria. Chi deve trascorrere dietro le sbarre 10, 20 o più anni ha tutto l’interesse a farlo nel “migliore” modo possibile. Una spicciola questione di tornaconto personale.
D’altronde, sarebbe stato sufficiente verificare i singoli episodi. Su una ventina di casi, soltanto nel carcere di Melfi la protesta interessò il circuito dell’Alta sicurezza e i protagonisti non ebbero certo alcun trattamento di favore: qualche testa spaccata dai colpi di manganello arrivò anche a Palmi nei giorni successivi.
Tranne che in circoli mediatici ristretti, l’argomento carcere sconta sempre sentimenti di indifferenza o, peggio, di ignoranza. La verità era emersa subito, ma non era quella giusta, quella che poteva avere presa nell’opinione pubblica. Ad innescare le rivolte erano state la paura per la pandemia, in una fase in cui ancora non si aveva la chiara percezione di ciò che stava accadendo, e – soprattutto – la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. La successiva introduzione delle videochiamate, da questo punto di vista, è stata una misura provvidenziale.
Indubbiamente di forte suggestione era però l’ipotesi di rivolte orchestrate dalla criminalità organizzata, con annesso corollario di improbabili “papelli”, veicolata dai passacarte delle Procure e dall’antimafia da salotto. «Se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera», ammoniva George Orwell nel capolavoro “1984”. Per cui, tutti a ruota della panzana, ministro Bonafede in testa.
Il cattivo – che esiste – è funzionale all’esercizio del potere. Senza scomodare studi autorevoli, ce lo ricorda la maschera creata da Antonio Albanese, il Ministro della Paura: «Senza la paura non si vive. Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Io trasformo la paura in ordine, e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile».
E chi se frega se i “cattivi” sono spesso in attesa di giudizio (quindi costituzionalmente ancora “buoni”), se i Comuni vengono sciolti con la formuletta imbevuta di pregiudizio “più probabile che non”, se gli imprenditori vengono ridotti al lastrico in via preventiva.
Di questo dovrebbe discutere una classe politica inerte nell’azione di concreto contrasto alla criminalità organizzata, la cui sconfitta necessita di servizi pubblici garantiti, di sviluppo e di lavoro nelle aree economicamente e socialmente depresse del Paese. Un sentiero accidentato, che si preferisce aggirare con gli arresti di massa e le misure di prevenzione, in barba alle più elementari garanzie costituzionali. Un percorso sbrigativo e rassicurante per l’opinione pubblica, ansiosa di vedere volare per aria le teste dell’Idra di Lerna. Che puntualmente ricrescono.

*Pubblicato su “Il Dubbio” (27 agosto 2022)

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Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua

Il Dubbio, 9 luglio 2022

L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.

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Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video

IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021

Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.

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