Venticinque anni dopo, la stessa voglia di pioggia

Il mio incontro con Fabrizio De André è avvenuto intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora durante il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di “Tutti morimmo a stento”, concept album del 1968 che parla della “morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita”. Sulla scena musicale italiana fanno il loro ingresso drogati, assassini, impiccati; per la prima volta un cantautore affronta il tema della pedofilia (“Leggenda di Natale”). Ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società, sui quali sin dall’inizio della carriera De André posa lo sguardo riconoscendo loro dignità e il diritto ad una possibilità: quella di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità” (“Smisurata preghiera”). In loro il cantautore genovese intravede l’altra faccia della luna, in loro trova il bagliore di una tragica grandezza. Siano essi ladri, prostitute, travestiti, criminali: se non proprio gigli, in fondo vittime di questo mondo (“La città vecchia”). Compresi i suicidi, ai quali al tempo era negata anche l’umana pietà: «Di un omicidio – scriverà – sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmente responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile».
Subito dopo acquistai il doppio album del concerto del 1979 con i brani arrangiati dalla Premiata Forneria Marconi. Una contaminazione riuscitissima, che raggiunge l’acme nell’interpretazione chitarristica di “Amico fragile” proposta da Franco Mussida.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e originale tra le culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album “La buona novella” la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso la voce degli esclusi dalla storia ufficiale, come il ladrone Tito, che in punto di morte “nella pietà che non cede al rancore” impara l’amore.
Genova e il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto “Crêuza de mä”. E ancora: il ’68 e la contestazione in “Storia di un impiegato”, con la maturazione della convinzione che non esistono poteri buoni, l’esperienza collettiva del carcere e l’anatema “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”. Edgar Lee Masters e la sua “Antologia di Spoon River” tradotta da Fernanda Pivano in “Non al denaro, non all’amore né al cielo”: la dimostrazione che musica e letteratura possono fondersi senza perdere in bellezza, forza, profondità. E chissà se sulla collina De André ha finalmente incontrato il matto che nella penombra inventa parole. Il parallelismo tra popolo sardo e nativi americani nell’album dell’indiano, con l’esperienza autobiografica del sequestro di persona del quale fu vittima insieme a Dori Ghezzi, nella struggente “Hotel Supramonte”. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, infine Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, “Anime salve”. Ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per dare voce a chi viaggia in direzione ostinata e contraria, ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”.
Come le nuvole di un altro suo fortunato brano, anche Fabrizio De André sta tra noi e il cielo, va, viene e ogni tanto si ferma, come per darci un riferimento, una chiave di lettura su ciò che nel mondo accade. Senza che, venticinque anni dopo, sia minimamente diminuita la voglia di pioggia che la sua scomparsa ci ha lasciato.

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Gaza come la Sidone di De Andrè

Le parole possono cambiare il mondo? Qualcuno le ascolta? La risposta è un doppio no. Le parole potrebbero forse cambiare il mondo se l’umanità tendesse l’orecchio verso l’altro, se tutti facessimo tesoro della raccomandazione del filosofo Plutarco al giovane Nicandro, contenuta nell’opuscolo “L’arte di ascoltare”: «Il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene».
Ciò che sta succedendo a Gaza conferma la nostra sordità. Beati i possessori della verità e del giusto, beati coloro che sventolano vessilli da ultras: bandiere di vittoria da piantare nelle pance dei morti, sosteneva Ignazio Buttitta, in una spirale di contrapposizione ideologica e di violenza della quale non si riesce a vedere la fine.
Ragione e torto, dicevamo. Il diritto di esistere di Israele, il diritto della popolazione palestinese a vivere con dignità.
Le brigate al-Qassam e Netanyahu sono indifendibili. Criminali. Non esiste una ragione che spieghi la caccia all’uomo di Hamas nei kibbutz della Striscia e non esiste una ragione che giustifichi la vendetta indiscriminata di Israele sui civili di Gaza.
Si è indifferenti alle conseguenze di un disastro umanitario spaventoso, ancora soltanto all’inizio. E sono state spazzate dal vento le parole di umana pietà dedicate da Fabrizio De Andrè all’attacco subito dalla città libanese di Sidone, ad opera delle truppe del generale Sharon nel 1982, nel corso della guerra civile libanese: «Me la sono immaginata – spiegò – come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato».
L’album era il capolavoro Crêuza de mä (1984). La canzone, in dialetto genovese come tutte le tracce del disco, si intitolava Sidùn. Di seguito, il testo tradotto in italiano:

Il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell’afa umida
dell’estate dell’estate
E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l’eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

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Non al denaro non all’amore né al cielo

L’11 novembre ricorreva il cinquantesimo anniversario del concept album di Fabrizio De André Non al denaro non all’amore né al cielo, nato dalla collaborazione con Giuseppe Bentivoglio (testi) e Nicola Piovani (musiche, arrangiamenti, direzione d’orchestra).
L’album è liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915), arrivata in Italia grazie a Cesare Pavese, appassionato studioso della letteratura americana che affidò il libro ricevuto dagli Stati Uniti ad una sua ex studentessa, la giovane Fernanda Pivano, che lo tradusse tra il 1937 e il 1941. Si era in pieno regime fascista, la cultura americana veniva osteggiata e la politica di italianizzazione toccava vette irraggiungibili di ridicolo: clamorosa l’imposizione del vocabolo “mescita” in luogo dell’inglese “bar”. L’esatto contrario di ciò che accade oggi con l’invasione di termini inglesi utilizzati anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Da un eccesso all’altro, verrebbe da considerare.
L’ostracismo culturale investiva il campo musicale (jazz) e quello della letteratura: la stessa Pivano pagò con qualche giorno di carcere la traduzione del libro, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1943. La questione era politica poiché la raccolta di poesie di Masters toccava temi non graditi al regime, come dichiarò anni dopo “Nanda”: «Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare. Mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto».
De André, che aveva scoperto Edgar Lee Masters a circa diciotto anni, rimase colpito dal fatto che «nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare». Anni dopo riprese il libro, scelse 9 tra le 244 poesie e le riscrisse attualizzandone le vicende. Fernanda Pivano valutò straordinaria l’operazione: «Sono contenta dei suoi cambiamenti e mi pare che lui abbia molto migliorato le poesie. Sono molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo».
Nelle nove tracce musicali sfila l’umanità tipica della poetica deandreiana degli ultimi: lo scemo del villaggio che non riesce a dare forma al “mondo” che custodisce nel cuore; il giudice nano che si vendica del pettegolezzo della gente condannando a morte per soddisfare il proprio sadismo; l’ateo al quale due guardie bigotte cercano l’anima a forza di botte; il malato di cuore che muore baciando la donna amata (“il mio cuore le restò sulle labbra”); il medico che cura i più miserabili senza chiedere alcuna retribuzione; il chimico che muore da solo per paura dell’amore; l’ottico che realizza lenti speciali per consentire ai suoi clienti di “inventare i mondi sui quali guardare”; l’autobiografico suonatore Jones, musicista alcolizzato il cui anarchismo ispira il titolo dell’album.
Dormono tutti sulla collina, insieme alle vittime del lavoro e ai caduti in guerra, a Bert ucciso in una rissa, ad Ella morta di aborto e alla prostituta Maggie, “uccisa in un bordello dalle carezze di un animale”. Accomunati dalla morte, la livella che ci rende uguali e fa di ogni esistenza “un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria”.

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Vent’anni senza Faber

Vent’anni senza Fabrizio De André. Manca il suo punto di vista, mai superficiale e sempre capace di scavare in profondità: magari colpendo un po’ a casaccio con il suo cucchiaio di vetro, come Coda di lupo. Chissà che avrebbe detto di certi governanti attuali, epigoni del ministro dei temporali dell’apocalittica Domenica delle salme: quello che “in un tripudio di tromboni/ auspicava democrazia/ con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”. O di tutto l’odio che sembra avere occupato ogni spazio di discussione, rendendoci tutti più cattivi e disumani. Tifoserie rabbiose, pronte a scatenare la caccia all’uomo, sul web o nella realtà, sugli occhi stampata la furia dei soldati di Sidun: “cani arrabbiati/ con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli”.
E chissà di quanti nuovi indiani avrebbe cantato la tragedia, quanti dollari d’argento ci avrebbe indicato nel fondo del Sand Creek. Con quel suo sguardo unico, inconfondibile, che ci ha costretti a guardare dove non si doveva guardare, consegnandoci ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società. Con pennellate incancellabili di umanità. Quell’umanità oggi sulla difensiva, quasi un vezzo radical-chic del quale vergognarsi.
Fabrizio De André è un classico della cultura mondiale, come Dostoevskij, Garcia Lorca, Bosch o Bach. Un poeta che, tuttavia, per sfuggire alla mannaia crociana (“fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini”), ha sempre preferito definirsi, “precauzionalmente”, un cantautore. Che non aveva verità da insegnare perché è sempre difficile stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Ma che a tutti coloro che viaggiano “in direzione ostinata e contraria” ha riconosciuto la dignità di esseri umani, il diritto a cercare di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”: perché soltanto chi fosse capace “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”, potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare uomini e avvenimenti.
La prospettiva di De André è sempre scandalosa rispetto al pensiero dominante. Dove altri scappano lui si sofferma, indaga, si interroga. L’antidecalogo del testamento di Tito ne rivela l’insofferenza per il potere istituzionalizzato, sia esso politico o religioso, e mette in risalto “la contraddizione che esiste tra chi le leggi le fa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo per potersi permettere anche il lusso di non rispettarle e chi è invece obbligato a rispettarle perché il potere non lo gestisce ma lo deve semplicemente subire”. Proprio quel Tito che indica la sola, umanissima, via di salvezza: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
I capolavori immortali di Fabrizio De André sono l’esito di uno studio gigantesco, di una ricerca continua e approfondita. I suoi testi hanno dato una scossa decisiva al panorama musicale italiano in anni che ancora erano di conformismo, se non di sudditanza agli schemi imposti dalla cultura dominante. Ha dato popolarità a Georges Brassens, ai vangeli apocrifi, alla poesia di Edgar Lee Masters; ha dato voce al ’68 e alla contestazione; ha spinto i più curiosi alla lettura di Àlvaro Mutis e Mario De Andrade. Infine Genova, la Sardegna, il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto Crêuza de mä.
Ci piace pensare che, come il suonatore Jones, sia morto senza nemmeno un rimpianto. Quel rimpianto che invece cresce in noi, orfani delle sue parole: e adesso aspetterò domani – vent’anni senza Faber – per avere nostalgia.

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Una pillola di Faber

Il mio “incontro” con Fabrizio De André è stato molto precoce, intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora per il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di Tutti morimmo a stento e, successivamente, il doppio album del live con la Premiata Forneria Marconi.
“Faber” ha una grande responsabilità sulla mia formazione. Ci sono i libri letti e le persone conosciute, le esperienze fatte, certo. Ma c’è anche lo sguardo di De André sugli ultimi, la sua capacità di offrire sempre una visione del mondo diversa da quella “ufficiale”, l’umanità dei ritratti di derelitti che la società spinge ai margini, non vuol vedere o – peggio ancora – condanna in virtù di una presunta morale della quale è depositaria il Potere: ladri, prostitute, travestiti, drogati, assassini.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e approfondita, originale, delle culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album La buona novella la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso gli occhi degli esclusi: un’operazione che porta i personaggi del Vangelo a perdere un po’ di sacralizzazione “a vantaggio di una loro maggiore umanizzazione” e che si manifesta clamorosamente in quella sorta di antidecalogo che è Il testamento di Tito: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
Genova, la Sardegna, infine il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto Crêuza de mä. E ancora: il ’68 e la contestazione in Storia di un impiegato; Edgar Lee Masters con la sua Antologia di Spoon River tradotta da Fernanda Pivano in Non al denaro, non all’amore né al cielo, una contaminazione tra generi che dimostra come la musica e la letteratura possono fondersi senza perdere bellezza, forza, profondità. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, Anime salve: ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per riuscire a dare voce a chi “viaggia in direzione ostinata e contraria” e per riconoscere a tutti la possibilità di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. Ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”, nella canzone che dà il nome all’album.

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La buona novella

Dieci tracce per ripercorrere con gli occhi degli esclusi la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Quegli occhi diventati una firma inconfondibile e gli occhi stessi di Fabrizio De André. Prospettiva sempre inedita rispetto al pensiero dominante, sguardo lieve e indulgente, mai severo perché soltanto chi fosse capace “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio” (Khorakhané, 1996) potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare uomini e avvenimenti.
La buona novella (1970) è un racconto in terza persona, che raccoglie le voci dell’io narrante e dei compagni di viaggio del figlio di Dio (dalla folla di Gerusalemme alle madri dei due ladroni Tito e Dimaco); non quella del protagonista principale. La realizzazione del concept album richiese un anno di studio dei Vangeli apocrifi, scritti tra il I e il IV secolo dopo Cristo da autori bizantini, armeni e greci. Apocrifo letteralmente significa “nascosto”, “segreto” perché di difficile comprensione, ma nel tempo è prevalsa l’accezione di “falso”, in contrapposizione alla versione “ufficiale” dei fatti tramandata dai quattro Vangeli canonici. La loro caratteristica principale è quella di colmare il vuoto storiografico di alcune vicende, dall’infanzia di Maria, a quella di Gesù, ad aspetti delle biografie di Giuseppe, Erode e Pilato. Soprattutto, essi ci consegnano personaggi più “umani”, esito cui non poteva certo rimanere indifferente De André, che infatti nella sua ultima tournée sottolineò: “probabilmente i personaggi del Vangelo perdono un poco di sacralizzazione, io credo – e spero – soprattutto a vantaggio di una loro maggiore umanizzazione”.

Il messaggio dell’opera, che si inserisce nel contesto storico della protesta sessantottina, non fu da tutti immediatamente compreso. Lo stesso cantautore genovese ammise:

Quando scrissi La buona novella era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi – compagni, amici, coetanei considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “come? Noi andiamo a lottare nelle Università e fuori dalle Università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia, che peraltro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che in effetti La buona novella voleva essere un’allegoria, era un’allegoria, che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universale: si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.

L’album inizia con una supplica a Dio (Laudate dominum) e si conclude con l’invocazione all’uomo (Laudate hominem: “non devo pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”). Il volto di Gesù diventa il volto degli “ultimi” della terra, simbolo universale della storia dell’umanità che si ripete in ogni epoca e ad ogni latitudine e che si manifesta con l’arbitrio del Potere, sempre pronto ad uccidere in nome di un’entità superiore e assoluta: Dio, la Verità, la Legge.

Tra le due preghiere, il racconto di ciò che i Vangeli non hanno narrato. La vita di Maria prima che diventasse madre di Gesù (L’infanzia di Maria) è la vicenda di una bambina-schiava reclusa nel tempio del Signore a tre anni ed espulsa a dodici per non contaminare con il sangue delle proprie mestruazioni quel luogo sacro. La volontà dell’adolescente vale meno di zero. Secondo l’usanza del tempo, le bambine del tempio andavano messe in palio e destinate agli scapoli e ai vedovi del luogo: Maria (“del corpo di una vergine si fa lotteria”) viene assegnata a Giuseppe, un falegname già carico di anni e di figli, che subito dopo parte per la Giudea. Al ritorno (Il ritorno di Giuseppe), dopo quattro anni, l’amara sorpresa di una gravidanza che Maria tenta di spiegare con “i resti d’un sogno raccolto”, nel brano più suggestivo dell’album: Il sogno di Maria, racconto dell’Annunciazione che si conclude con la compassione di Giuseppe, racchiusa nel gesto di una tenera carezza alla fronte della giovane sposa. Dopo Ave Maria, omaggio a tutte le donne e inno al miracolo della maternità (“femmine un giorno e poi madri per sempre”), Maria nella bottega d’un falegname mette in scena il drammatico incontro tra Maria e il falegname alle prese con la costruzione delle tre croci: “due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare”, il passaggio che rivela la matrice antimilitarista di tutto il pensiero di De André. Via della Croce inizia con l’esplosione dell’ira del popolo (“poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani”) contro colui che aveva “provocato” la strage degli innocenti (“trent’anni hanno atteso, col fegato in mano, i rantoli di un ciarlatano”), ma la canzone è un affresco di presenze e umori: le donne che seguono la processione del condannato a morte; gli apostoli terrorizzati e muti; i seguaci nascosti e piangenti; infine Tito e Dimaco, “solo due ladri” pianti dalle rispettive madri e da nessun altro. In Tre madri il dolore di Maria diventa il pianto di tutte le madri del mondo, uguale sia che il figlio sia un ladro, sia che incarni il figlio di Dio. Anzi, la pena delle altri due madri sembra contenere un’angoscia maggiore perché Gesù, a differenza di Tito e Dimaco, è destinato a risorgere: “lascia a noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte”. Consolazione che però non può bastare al dolore di Maria e che sfocia quasi in bestemmia: “non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio”. Quindi, la canzone più famosa dell’album, Il testamento di Tito, definita dal suo autore “una lettura provocatoria dei dieci comandamenti, che il ladrone smonta uno per uno smascherando l’ipocrita convenienza di chi li aveva dettati”. Un antidecalogo che svela l’insofferenza per il potere istituzionalizzato, sia esso politico o religioso, e che mette in risalto “la contraddizione che esiste tra chi le leggi le fa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo per potersi permettere anche il lusso di non rispettarle e chi è invece obbligato a rispettarle perché il potere non lo gestisce ma lo deve semplicemente subire” (De André nella sua ultima apparizione al teatro Brancaccio di Roma, 1998).
La strada per la salvezza è una sola e ad indicarla, poco prima di spirare, è proprio Tito: “nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”. Quella pietas – altro tratto caratteristico della produzione di De André – che non è pena per chi soffre, bensì “compassione” (cum: insieme; patior: soffro), cioè partecipazione alla sofferenza dell’altro.

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Tredici anni dopo, la stessa sensazione di vuoto

Tredici anni fa se ne andava il più grande cantautore italiano, lasciando un senso di vuoto che il tempo non ha lenito. Un dolore dentro al petto, come quelli che proprio Fabrizio De André aveva sempre cantato, regalandoci ritratti umanissimi di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società, sui quali posava il suo sguardo sensibile e comprensivo, rendendoli visibili a tutti. Uno sguardo che non voleva certo esprimere un giudizio, visto che è sempre difficile stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Ladri, prostitute, travestiti, drogati, assassini, umanità pescata nei bassifondi, che “viaggia in direzione ostinata e contraria” tra il piscio e il vomito dei suburbi, ai quali va però riconosciuto – con maggiore forza rispetto a chi ha avuto la fortuna di nascere e vivere in un contesto migliore – il diritto a cercare di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”.
Considerare Faber un cantautore è riduttivo. I suoi testi sono ormai nelle antologie di letteratura e anche se non amava essere definito un “intellettuale”, è stato un influentissimo maître a penser, per generazioni di musicisti e non solo. Certificato dal fatto che c’è un “prima” e un “dopo” De André. Basta confrontare i suoi testi con quelli dei suoi colleghi contemporanei. Mentre quelli erano ancora fermi, più o meno, alla rima “cuore/amore”, il cantautore genovese aveva già raccontato il suicidio in carcere di Miché, assassino per amore, e aveva pubblicato quel gancio allo stomaco che è, ancora oggi, l’album Tutti morimmo a stento.
Mi sono spesso chiesto cosa avrebbe detto oggi De André. E come l’avrebbe detto. Perché la sua discografia è studio e ricerca continua, non si accomoda mai sulla poltrona per godersi il successo, ma va sempre alla ricerca del nuovo, nei contenuti e nello stile. Echi di culture che Faber raccoglie e rimodella. Georges Brassens, la contestazione, i Vangeli apocrifi, Edgar Lee Masters, le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Ivano Fossati. Una ricerca che raggiunge la sua summa in Crêuza de mä, un capolavoro che, in sette tracce, racchiude tutta la cultura e le sonorità del Mediterraneo.
Fare una graduatoria tra le sue canzoni sarebbe blasfemo. Ci sono giorni in cui La domenica delle salme è un martello in testa, altri in cui ci lasciamo abbracciare dalla malinconia di Se ti tagliassero a pezzetti. Oggi non possiamo che respirare la nostalgia di Amico fragile, nella versione realizzata dal vivo con la PFM. Gli arrangiamenti della band di Franz Di Cioccio, in particolare la chitarra di Franco Mussida, fanno venire la pelle d’oca. Buon ascolto.

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L’addio alle scene di Ivano Fossati

Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, anche se dovrebbe continuare a scrivere canzoni. Speriamo. Perché un conto è non fare più tournée, comprensibile dopo quarant’anni di carriera, altra cosa dovere fare a meno delle considerazioni acute di un cantautore sempre attento e sensibile alle trasformazioni della nostra società. Non credo che la sua sia una trovata pubblicitaria per sponsorizzare il suo ultimo album, “Decadancing”. Non sarebbe nel suo stile e non ne avrebbe neppure bisogno. Non è mai stato un artista particolarmente interessato agli aspetti commerciali della professione.
Scegliere tra tutta la sua vasta produzione non è facile. D’istinto direi “La costruzione di un amore”, raffinata rappresentazione di un amore portentoso, anche se per ragioni personali metto al primo posto la collaborazione con Fabrizio De André, “Anime salve”, magnifico album-testamento lasciato da Faber al suo pubblico. Pensando però al significato che una canzone può assumere in un determinato momento storico, non posso non andare con la mente alle giornate in cui “La canzone popolare” accompagnò la vittoria dell’Ulivo di Prodi, nel 1996. Una stagione di grandi speranze, nella quale i sogni traevano nutrimento dalla sensazione che una svolta potesse essere possibile. Poi le cose andarono come si sa e Berlusconi si rivelò ben altro che un’anomala parentesi. Tanto che, dopo quindici anni, pur declinante e ora sì sconfitto (dalla storia se non altro), è ancora sul ponte di comando. Peccato. È stata un’occasione persa, che in tanti non sono riusciti a comprendere.
In una celebre scena di “Palombella rossa”, Nanni Moretti/ Michele Apicella sbotta: “le parole sono importanti!”, dopo avere rifilato un ceffone alla giornalista che lo sta intervistando. Anche le canzoni. Basta pensare agli inni scelti dal partito democratico nel dopo-Prodi. Il buonista “Mi fido di te” (Jovanotti), per esempio, con Veltroni candidato a presidente del consiglio, nel 2008. Si sono fidati in pochi, anche se si è trattato del migliore risultato raggiunto dai democratici, poco più del 33%, ottenuto però cannibalizzando il voto a sinistra, dove sono passati a migliore vita Rifondazione e i Comunisti italiani. O la bersaniana “Un senso” (Vasco Rossi). Parole che sono un programma: “Voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha”. Non proprio il massimo, per uno che cerca di fare proseliti. Lo stanno ancora cercando, questo benedetto senso. Referendum sì o referendum no? Elezioni anticipate o governo di responsabilità nazionale? Alleanza con Di Pietro e Vendola o con Casini? Si brancola nel buio.
Ecco, il prossimo inno potrebbe essere “Senza luce”, cover italiana della famosissima “A Wither Shade Of Pale” dei Procol Harum, interpretata dai Dik Dik (testo di Mogol): “Han spento già la luce/ son rimasto solo io/ e mi sento il mal di mare/ il bicchiere però è mio/ cameriere lascia stare/ camminare io so/ l’aria fredda sai mi sveglierà/ oppure dormirò”. Sì, bravo, continua a dormire.

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