Come gli “strumentisti sessionmen” di Enrico Ruggeri, anche Berlusconi ha “già sviluppato il refrain”. Lo fa ormai da diversi anni, ma ancora funziona. Prima, parte lancia in resta; poi, verifica la reazione ai suoi attacchi; infine, se le cose si mettono male, è colpa dei giornalisti che “travisano” il suo pensiero. Per una forma di captatio benevolentiae, al congresso dei cristiano-riformisti il premier ha pensato bene di sferrare un attacco sommario al “relativismo etico” della sinistra “che non difende la sacralità della vita, inneggia alle coppie di fatto e cerca di imporre la cultura della morte e dell’eutanasia”. Dimentico, ovviamente, della giustificazione “dentro le mura di casa mia faccio quello che voglio”, uno dei massimi esempi di relativismo etico. Una performance bollata da Anna Finocchiaro come il solito “stanco repertorio”, nel quale non poteva mancare l’attacco ai comunisti italiani, gli unici ad essere rimasti uguali ai sovietici delle purghe staliniane.
Si sa che il presidente del consiglio è imbattibile nella capacità di conformarsi all’interlocutore che ha di fronte. È di pochi giorni fa – discorso tenuto nell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola ufficiali – la sortita sul sogno giovanile di diventare carabiniere. D’altronde, in materia di rapidità nel cambio degli abiti di scena, l’Italia ha una storica tradizione, dal mitico Leopoldo Fregoli ad Arturo Brachetti, “l’uomo dai mille volti”. Ma questa volta Berlusconi è andato addirittura oltre la semplice strizzata d’occhio al Vaticano, dettata dall’esigenza di dare una lustratina all’immagine appannata e ammaccata dalle rivelazioni sulle sue poco morigerate abitudini. È arrivato così l’affondo contro la scuola pubblica, accusata di inculcare “idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie”. Una sorta di spot per le scuole private (in gran parte cattoliche), ma anche un insulto gratuito nei confronti dei tanti che lavorano in condizioni rese oggettivamente più complicate dai tagli della Gelmini. Persino il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, deve avere trovato eccessivo il discorso del premier, se ha sentito il bisogno di esprimere la fiducia della Chiesa nella scuola pubblica italiana.
Il problema della scuola non è l’ipoteca ideologica che su di essa eserciterebbe una parte politica. La scuola pubblica non ha niente a che fare con le Frattocchie, tanto per essere chiari. Il dramma sono quegli insegnanti a proprio agio con la grammatica e la sintassi quanto un pastore tibetano con le immersioni subacquee. Laureati che scrivono “qual è” con l’apostrofo, “accelerare” con due elle, “ce ne sono” con un profluvio di apostrofi e accenti, e via strafalcionando. Esiste un problema di preparazione del personale docente, dovuto alle scellerate politiche governative che negli ultimi decenni hanno praticamente concesso a chiunque la possibilità di insegnare. E c’è la questione, per responsabilità non tutte imputabili alla scuola intesa come istituzione, dello scarso riconoscimento (status, autorevolezza, ruolo) attribuito agli insegnanti. Ma le affermazioni irresponsabili non sciolgono i nodi, sono utili soltanto per completare e giustificare lo smantellamento dell’intero sistema scolastico pubblico.
La lezione dei bambini/bis
Nella rubrica che cura su “Il Quotidiano della Calabria”, il professore Pietro De Luca ha così risposto, ieri, al mio intervento – inviato al giornale in una versione leggermente ridotta rispetto all’articolo pubblicato sul blog – sull’episodio di discriminazione accaduto in una scuola media di Catanzaro:
Caro Forgione, siamo qui a raccogliere i cocci di quel vaso che si è rotto quando il governo fece il suo bilancio e tagliò i fondi all’istruzione. Capimmo subito che a farne le spese sarebbe stata la riduzione degli insegnanti di sostegno. Lo scrivemmo più di una volta.
Potrà dirmi, caro Forgione, che la realtà del nostro caso è più complessa. Di sicuro lo è, ma l’insegnante di sostegno, prima ancora di essere una scelta economica, è una scelta di civiltà. Se è lì presente e tutti possono vedere che uno (il ragazzo destinatario) vale quanto l’intera classe per la cura che gli è prestata, allora si comprende in maniera concreta il valore della persona nella sua singolarità. La reazione della classe (neanche noi parteciperemo d’oggi in avanti a qualsivoglia iniziativa, se il nostro compagno non può uscire dall’aula) costituisce la prova provata che quei ragazzi hanno capito tutto, soprattutto il valore della personalità del loro amico. Un giorno gli avevano scritto: “Tu sei la nostra forza”, forse per dire finanche “tu sei il nostro maestro, colui che ci insegna e ci dispiega un mondo altrimenti sconosciuto”. Nel coro solidale si può leggere ancora: “se a te viene negato un diritto, anche noi ne facciamo a meno perché il titolo per riscuoterlo non può essere costituito da una semplice sperimentata abilità, a questa ha già provveduto madre natura, manca sempre quello della cittadinanza”. Bravissimi quei ragazzi, cittadini controcorrente di questa Italia individualista e sorda al disagio altrui. Mi domando perché, invece di dare la stura a vecchi e stereotipati luoghi comuni, non si espliciti chiaramente il disagio nel quale è piombata la scuola da quando è caduta sotto la mannaia Gelmini-Tremonti. Questo andrebbe detto, così semplicemente, perché tutti lo sappiano.
Caro Forgione, lei ha il vantaggio di parlare da dentro quel mondo della disabilità al quale offre la sua vicinanza e ne viene ripagato con un surplus di maturità riscontrabile. Per tale motivo sa bene che il buon cuore degli operatori non ha prezzo e quando manca nulla lo rimpiazza. Ci vuole anche dell’altro, però: mezzi, strumenti, strutture. Perché non si apre allora al volontariato per certi ammanchi di personale nelle strutture pubbliche? Che resta da pensare, che si vuole persino mortificare chi si trova in una necessità? Ma questo sarebbe solo mostruoso. Non vorrei neanche pensarlo per un minuto in più. Preferisco occupare la mia mente con la grande lezione della solidarietà di quella classe.
La lezione dei bambini
Ho avvertito un senso di vuoto e molta amarezza nell’apprendere la notizia di quella dirigente scolastica di un Istituto comprensivo di Catanzaro che voleva impedire ad un ragazzino affetto dalla sindrome di Down di prendere parte alle uscite della sua classe. La storia è ormai nota. Durante una giornata di orientamento presso l’Istituto alberghiero di Soverato, dopo che la preside aveva tentato di tenere a casa l’alunno disabile perché quel giorno non c’era l’insegnante di sostegno (l’accompagnatore è obbligatorio fuori dall’edificio scolastico), questi rompe un bicchiere e si dimostra alquanto vivace. Per tale motivo, la preside comunica ai docenti l’intenzione di vietare in futuro al ragazzino la partecipazione alle gite, e lo stesso fa con gli alunni della classe, giustificando il provvedimento con la motivazione che “tanto, lui non capisce niente”. I compagni però si oppongono: “senza di lui, non andiamo neanche noi”, dando una lezione agli adulti e sconfiggendo il luogo comune suoi giovani di oggi senza valori, attratti soltanto dai vestiti firmati e dai telefonini di ultima generazione, dall’effimero e dal vacuo. Finiscono così sulle prime pagine di tutti i giornali perché, come ha fatto notare Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, si sono dimostrati “più generosi, più civili, più veri uomini e vere donne” della preside.
Non bisogna ovviamente generalizzare. Ci sono tantissimi insegnanti che risolvono con il buon senso questo genere di problemi. Sono quelli che hanno come obiettivo non tanto il magro stipendio di fine mese, quanto il perseguimento della funzione educativa della scuola. Se non c’è l’insegnante di sostegno (eventualità non peregrina, dopo i tagli della Gelmini), assumono essi la responsabilità di portare in gita gli alunni disabili. Perché, quand’anche il disabile non dovesse capire niente, va ricordato che tra i compiti della scuola vi è anche quello di sviluppare le capacità dei ragazzi di socializzare e relazionarsi con gli altri.
Ho la fortuna di avere un minimo di familiarità con la disabilità. Ribadisco “fortuna”: chi fa volontariato mi comprenderà. Ma prima ancora, ho avuto la fortuna di avere amici che hanno iniziato prima di me, ai quali sarò riconoscente per tutta la vita, perché è grazie a loro che ho potuto conoscere una realtà che mi riempie il cuore e che mi ha consentito di essere ciò che oggi sono, un uomo certamente migliore del ragazzo che fui. Ho pianto pochissime volte nella mia vita. Due sono legate all’emozione delle esperienze che ho avuto modo di vivere grazie all’Agape, l’associazione della quale faccio parte da undici anni. La prima, un musical preparato dall’associazione, “La bella e la bestia”, con “la bella” interpretata da una ragazza down. La seconda, un pranzo consumato nel giorno di Natale presso una casa di cura per anziani. E poi tante altre emozioni, occasioni come la convivenza, giorno e notte, con soggetti disabili durante le colonie estive, che fanno capire cosa conti davvero nella vita, al di là delle maledette urgenze dettate dalla quotidianità. La mascotte della nostra associazione è un’altra ragazza down, che abbiamo visto crescere sin da quando era una bimba e che ora è maggiorenne. Anche lei ogni tanto è molto vivace. A volte ci prende a schiaffi, o si siede per terra perché non vuole più camminare e allora diventa dura, dato che pesa cento chili. Però ci recita la filastrocca dell’ “echifante” (l’elefante), ci fa le coccole e ci dà tanti baci. Ecchissenefrega degli schiaffi: se ne subiscono ben altri nella vita e quelli fanno male per davvero.
Italia milionaria
Con la corrosiva ironia che lo contraddistingueva, Leo Longanesi metteva a nudo l’endemico familismo italico sostenendo che sul tricolore andrebbe stampato il motto “tengo famiglia”. Eppure, un limite alla sfrontatezza non guasterebbe. Quando Fabrizio Cicchitto indica nel Pdl l’estremo baluardo della democrazia italiana contro l’ingerenza e lo strapotere della magistratura politicizzata, che “vuole sovvertire il voto popolare”, calpesta Montesquieu e oltre 250 anni di civiltà giuridica fondata sul principio della separazione dei poteri, non sul consenso elettorale inteso come diritto all’impunità. Da questo punto di vista, anche l’ultima uscita di Berlusconi sulla necessità di riformare la Corte costituzionale perché “boccia leggi giuste” rappresenta l’ennesimo affondo contro un organo dello Stato, oltre che il sintomo dell’allergia per quel sistema istituzionale di checks and balances che sta alla base delle democrazie contemporanee. Sull’incoerenza logorroica di Daniele Capezzone esiste ormai una sconfinata letteratura: il confronto tra le dichiarazioni rese dall’ex pupillo di Marco Pannella prima che diventasse portavoce del Pdl e quelle oltranziste a difesa del premier è davvero sconcertante (per usare un aggettivo molto gradito dall’ex enfant prodige radicale). Per non dire dell’acqua che deve essere passata sotto i ponti da quando Daniela Santanchè affermava che il Cavaliere “non ha rispetto per le donne” e le concepisce “solo orizzontali, mai verticali”. È passata molta acqua e pure qualche poltrona visto che, da sottosegretario con delega all’attuazione del programma di governo, la signora più glamour della politica italiana è diventata la più devota e ascoltata consigliera del premier, una specie di Giuliano Ferrara in gonnella e randello. Dopo la battaglia condotta contro Fini per la vicenda della casa di Montecarlo e la promessa di un posticino al governo per il suo partito (e, si intuisce, un paio di candidature alle prossime elezioni), persino Francesco Storace, di recente, si è prodotto in una difesa del premier imbarazzante, che lascia intendere come neanche la destra dura e pura trovi scandaloso derogare ai suoi tanto decantati valori.
Non penso che l’indignazione sia un sentimento snob e radical-chic. Non credo neanche che ci troviamo di fronte a due mondi antropologicamente diversi. La triste parabola dei parlamentari di Futuro e libertà che con la coda tra le gambe stanno facendo rientro all’ovile, dopo essersi accorti che la spallata di Fini non ha avuto l’effetto immaginato, dimostra proprio quanto l’opportunismo prevalga su ogni altra considerazione.
Ha ragione Roberto Vecchioni, fresco vincitore del festival di Sanremo: “questa notte dovrà pur finire”. Che poi è il convincimento (“ha da passa’ ’a nuttata”) di Gennaro Jovine/Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, di fronte allo sfascio etico dell’umanità sopravvissuta agli orrori e alla miseria della seconda guerra mondiale. Aspettando che passi la nottata, teniamoci stretta e difendiamo la Costituzione repubblicana: se in tutti questi anni l’Italia ha retto e non è diventata una repubblica sudamericana o la Russia putiniana, grande merito va alla Carta scritta dai nostri Padri costituenti.
Buon compleanno, Italia
La controversia sull’opportunità di concedere un giorno di vacanza il 17 marzo (150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia) è questione pelosissima. In un Paese celebre per la copiosità delle ricorrenze e primatista nella disciplina olimpica del bigiare appare decisamente improbabile il senso del dovere richiamato da Lega, Marcegaglia e Gelmini. Bene ha fatto il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi a denunciare il “cuore freddo” con cui la nazione si sta avvicinando alla ricorrenza e a dichiararsi avvilito per l’infimo livello di un dibattito avvitato sull’argomentazione economica. Non sarà certo un giorno di lavoro in meno ogni cinquanta anni a mettere in ginocchio l’economia italiana.
Contrariamente a quel che si può pensare (“colpa della Lega che detta la linea del governo”), le cause di questa freddezza sono remote e vanno rintracciate nelle due culture dominanti nel Novecento, la cattolica e quella marxista. L’unificazione fu realizzata contro il volere e gli interessi del Vaticano che, con l’approvazione unilaterale della “legge delle guarentigie” (1871), patì la fine del potere temporale del Papa. Lo scontro sfociò nella scomunica dei protagonisti del Risorgimento, nel mancato riconoscimento dello Stato italiano da parte del Pontefice (per la composizione della “questione romana” si dovranno attendere i Patti lateranensi del 1929) e nel celebre non expedit con cui Pio IX, nel 1868, proibì ai cattolici di prendere parte alla vita politica del Paese, divieto che ufficialmente rimase in vigore fino alla nascita, nel 1919, del partito popolare di Sturzo (in realtà, l’Unione elettorale cattolica già nel 1904 diede ai fedeli indicazioni di voto, mentre è del 1913 il “patto Gentiloni” che assicurava il sostegno dei cattolici a quei candidati che si impegnavano a difendere le questioni care alla Chiesa). Per la cultura marxista, il Risorgimento si era rivelato un’occasione persa e il tradimento delle aspettative del popolo, attratto dal miraggio della “terra ai contadini” e ferocemente represso dall’esercito piemontese e dagli stessi garibaldini. Basti ricordare l’eccidio di Bronte, denunciato da Giovanni Verga nella novella Libertà, dalla quale il regista Florestano Vancini trasse, nel 1972, il bellissimo Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
Certo, in passato è a lungo prevalso un eccesso di retorica, in particolare sulla partecipazione popolare, modesta tra i ceti più poveri e meno acculturati, privi di coscienza politica e poco interessati alla lotta per la libertà e per l’indipendenza dell’Italia, oltre che completamente all’oscuro di quanto avveniva a distanza di pochi chilometri dal proprio tugurio, stanti la scarsa circolazione delle notizie e l’analfabetismo dilagante (80-90% della popolazione nelle regioni meridionali). Così come si è minimizzato sulla brutalità della lotta al brigantaggio, che poco aveva di politico e molto di economico e sociale (messo peraltro in luce dall’inchiesta Massari nel 1863), ridimensionando le cifre spaventose di un massacro reso possibile grazie alla copertura legislativa autoritaria e illiberale della legge Pica. Eppure, la sensazione è che oggi si stia compiendo un’esagerazione contraria per sostenere subdolamente la tesi che l’unificazione del Paese non sia stato un buon affare per nessuno. Non si possono però difendere le ragioni del Sud sostenendo che prima dell’Unità il Mezzogiorno era il regno del progresso e che il divario economico con il Nord è un lascito del Risorgimento.
L’arretratezza è tanto l’esito di politiche governative nord-centriche, quanto la conseguenza di una classe dirigente meridionale che ha sempre fatto dell’ascarismo il solo orizzonte politico. La subalternità del Sud è anche il prodotto di una classe dirigente piagnona e sorda, incapace di ribellarsi e tuttavia convinta, come il principe di Salina, che “Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”. Di fronte allo scippo perpetrato (e certificato) a danno del Sud nell’ormai nota vicenda dei fondi Fas, i nostri rappresentanti avrebbero dovuto alzare in Parlamento le barricate, coalizzandosi al di là degli schieramenti politici di appartenenza per “fare squadra” a difesa degli interessi del Meridione. Niente di tutto ciò. Per gli ascari, un posto da sottosegretario o qualche incarico di rilievo da potere esibire nel curriculum hanno lo stesso effetto dello zucchero consigliato da Mary Poppins. Anche se invece della pillola occorre mandare giù un rospo.
Un destino cinico e baro

Per esprimere il disincanto con cui spesso si accoglie una notizia che si sa per certo non veritiera, dalle nostre parti si suole ricorrere ad un efficacissimo adagio: “Tu ’u dici ed eu cchiù sceccu criju ca prima veni giugnu e dopu maju”.
Il fatto nuovo, ormai di dominio pubblico, è che anche Eufemia Surace, consigliere e da pochi mesi presidente del consiglio comunale, si è dimessa, andando a infoltire la schiera di coloro che hanno abbandonato Saccà e la sua maggioranza. Ora siamo a tre, dopo il vicesindaco Pippo Ascrizzi e l’ex presidente del consiglio Tonino Alati. E anche questo è un record. Non penso che ci siano altre amministrazioni che abbiano perso per strada due presidenti del consiglio consecutivamente, subito dopo l’istituzione della carica. Diciamo che quella poltrona porta un po’ sfiga, per cui sarebbe forse il caso di tornare ai tempi in cui il sindaco presiedeva l’assemblea.
Al di là delle facili ironie e delle statistiche da consegnare agli archivi, va invece considerato che tre indizi fanno una prova, la dimostrazione cioè del fallimento politico dell’amministrazione comunale uscita vittoriosa dalle urne il 27 maggio 2007. I tre indizi, grossi quanto macigni, hanno volti e nomi ben precisi, e ognuno di essi porta con sé una storia politicamente significativa.
Andiamo con ordine. Il primo smottamento si registra questa estate, quando Tonino Alati saluta la compagnia tra il finto stupore della maggioranza e i sorrisi maliziosi dei cittadini, per nulla persuasi dalla motivazione ufficiale. La seconda spia rossa si accende di lì a qualche mese, a fine ottobre: anche Pippo Ascrizzi, vicesindaco di nomina esterna, dichiara l’impossibilità di proseguire l’esperienza amministrativa. Due giorni fa il terzo allarme con Eufemia Surace, anche lei (coincidenza?) dimessasi, come Alati e Ascrizzi, per “motivi personali”. Alati è stato per tre lustri, nella buona come nella cattiva sorte, tra i più fedeli e leali pretoriani di Saccà, a conferma di un sodalizio che andava ben oltre il rapporto politico. Il sorprendente accordo stretto con Ascrizzi ha costituito invece la più eclatante novità politica delle ultime consultazioni amministrative, tanto da diventare l’unico vero argomento della campagna elettorale. Un’altra sostanziale novità è stata infine Eufemia Surace, alla prima esperienza amministrativa ed espressione di un mondo, quello delle giovani donne, che rare volte riesce ad avere una rappresentanza istituzionale.
Fino ad ora il sindaco, barricato dentro il bunker del palazzo municipale, ha proseguito come se nulla fosse, supportato dai consiglieri che gli sono rimasti fedeli. L’indifferenza ai segnali inequivocabili della fine di un ciclo potrebbe ripetersi anche questa volta. Non ci sarebbe da stupirsi più di tanto. D’altronde, un politico navigato come Giuseppe Saragat, di fronte al fallimento della legge truffa fece una considerazione che di politico aveva ben poco: “la colpa è del destino cinico e baro”. Evidentemente, in questo momento la malasorte deve avere un conto aperto con il nostro Comune.
Il teatrino della politica
Un tema serissimo come la riforma federalista si è trasformato in un terreno di battaglia la cui posta in palio non è la revisione dell’impianto istituzionale dello Stato. Siamo dentro al solito ring, con contendenti che si producono nell’ennesima esibizione muscolare, senza alcuna capacità o volontà di confrontarsi sul merito delle proposte. È il consueto muro contro muro, tra mondi incapaci di parlarsi. A rimetterci è la politica, che gode ogni giorno di sempre minore credibilità, e il Paese, in costante affanno. È evidente che sul tavolo ci sono esigenze principalmente strumentali. E quando il collante si riduce all’opportunità politica del momento, è illusorio sperare in operazioni di ampio respiro.
L’approvazione, in fretta e furia, del decreto legislativo in materia di federalismo municipale che, di fatto, calpestava le prerogative di parlamento, regioni e enti locali (come ha ammonito il Colle dichiarando il provvedimento “irricevibile”), tradisce il comprensibile nervosismo della Lega, dopo la bocciatura del parere di maggioranza da parte della commissione bicamerale sul federalismo municipale. La forzatura procedurale – qualcosa di simile ad una “prova d’amore” – pretesa da Bossi per non fare cadere il governo, conferma la subalternità di Berlusconi nei confronti del Carroccio, il vero dominus dell’Esecutivo. Da questo punto di vista, l’irritazione attribuita al sempre equilibrato e felpato Gianni Letta, rappresenta la spia del crescente imbarazzo che serpeggia tra alcuni fedelissimi del premier, ormai stanchi di una “guerra santa” contro tutto e tutti, oggi il Quirinale, domani la magistratura, dopodomani il parlamento e la corte costituzionale.
Per dirla con parole prese a prestito dal gergo sportivo, la Lega aveva però l’esigenza vitale di portare a casa un risultato positivo. Non può presentarsi ad eventuali elezioni senza avere centrato l’obiettivo storico del federalismo, la ragione stessa della sua esistenza e del suo successo elettorale. Il popolo leghista dà segnali di insofferenza e comincia a non credere più al fortunato e abusato slogan di “Roma ladrona”. Tra tutti i partiti in Parlamento, il Carroccio è quello che più di tutti ha governato dal 1994 ad oggi, per cui diventa sempre più difficile sostenere una posizione di “purezza” contrapposta ad un mondo marcio. La Lega è parte integrante del sistema politico italiano e l’auto-rappresentazione di forza anti-sistema attecchisce sempre meno presso un elettorato disincantato da una gestione del potere non molto dissimile da quanto avveniva nella nefanda Prima Repubblica. Nell’attuale quadro politico, fatto di annunci e propaganda, Berlusconi non può permettersi il lusso di fare “brutta figura” con il prezioso alleato. Pare infatti che, di fronte al risultato della votazione nella commissione bicamerale, Bossi sia sbottato: “A me delle questioni interpretative frega niente, qui c’è una questione politica. E questo è il momento di vedere se abbiamo le palle”. Mentre, a sbrego costituzionale compiuto, avrebbe esultato: “La Lega mantiene le promesse e porta a casa un risultato concreto nell’interesse dei cittadini”.
La disinvoltura con cui sono state calpestate fondamentali prerogative istituzionali dovrebbe indignare chiunque possegga un minimo di senso delle istituzioni. Non Berlusconi, che al momento ha anche l’esigenza di guadagnare tempo e spostare il più in avanti possibile la data delle possibili elezioni politiche. Posizione, questa, condivisa anche dalla Lega, poco propensa a ricoprire in campagna elettorale lo scomodo ruolo di difensore del premier davanti al proprio elettorato, tutt’altro che indulgente da quanto si intuisce ascoltando alcune telefonate a Radio Padania. Proprio per questi motivi, l’opposizione ha intravisto la possibilità di rientrare nel gioco e tenta di inserire un cuneo tra Bossi e Berlusconi, facendo intendere che con un’altra compagine la riforma non incontrerebbe alcun ostacolo. Per commentare l’attuale condotta del premier è stato rispolverato l’andreottiano “tirare a campare”: “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, rispose un giorno il divo Giulio a chi contestava la sua filosofia di vita. Essere giunto ad una situazione del genere rappresenta il contrappasso più crudele per chi era “sceso in campo” per sconfiggere il teatrino della vecchia politica.
Il prezzo del rinnovamento
Diciamoci la verità, appare lievemente ipocrita questo stracciarsi le vesti perché non si riesce ad arrestare l’emorragia del partito democratico calabrese. Come nei castelli di carta, tirata via una tessera viene giù tutto. Anche se basta una bava di vento, non certo un uragano. Figurarsi dopo una batosta come quella delle passate elezioni regionali.
Fino a non molto tempo fa si rimproverava al Pd di essere arroccato a difesa della rendita politica di pochi oligarchi. Oggi che ci si sta liberando di un personale gerontocratico e autoreferenziale si piange perché all’orizzonte non si intravede nient’altro che deserto. Eppure è illusorio pensare di condurre a termine a costo zero una rifondazione che elimini vecchie e resistenti incrostazioni. Soltanto dalle macerie è possibile ricostruire ex novo, se non si vuole continuare ad applicare palliative e litigiose toppe al buco. È un prezzo che occorre pagare, dopo che per venti anni a tutto si è pensato tranne che a preparare una fisiologica e necessaria successione politica. A meno che non si voglia considerare maturazione di un nuovo ceto politico la pura e semplice cooptazione al vertice imposta dai ras locali.
Con la fuoruscita dei vari Adamo, Bova e Loiero si può invece aprire una fase finalmente nuova, che segni una cesura netta con il più recente passato. E se, nell’immediato, inevitabilmente ci sarà da scontare qualcosa in termini di consenso elettorale, a lungo andare sarà benefica una rigenerazione che produca chiarezza facendo tabula rasa del passato. Una volta per tutte, si dovrebbe avere il coraggio di lasciare sull’uscio i signori delle tessere fasulle, il cui numero, in molti comuni, è stato superiore ai voti del partito nelle elezioni. Si dirà: è utopia, è sempre stato così. Ma ai tanti giovani che, nonostante i molteplici negativi esempi, coltivano una passione, non si può chiedere di avvicinarsi alla politica sbandierando abusati rituali da Prima Repubblica. Non ci si può nascondere che, tanto per fare un esempio, l’inciucio sulla legge 25 del 2001 che bandì il “concorsone” rappresenta, dopo dieci anni, una ferita ancora viva tra molti militanti e simpatizzanti. Così come le primarie taroccate dell’anno scorso non sono certo state un esempio di buona politica. Il disimpegno e l’astensionismo dilaganti hanno ragioni sulle quali per troppi anni si è evitato un dibattito serio.
Cetto è tra noi, purtroppamente
In questi giorni sui quotidiani locali è un gran dibattere. C’è chi si sente offeso dalla rappresentazione “esagerata” di un certo modo di fare politica e denuncia l’ulteriore discredito che si getta sulla Calabria. Un’accusa pretestuosa, visto che Cetto, televisivamente, “vive” dal 2003. E c’è chi, forse semplificando e generalizzando, riscontra nel personaggio l’amara e desolante realtà della cronaca quotidiana. Calabria Ora ha anche lanciato un sondaggio: “E a te Cetto fa ridere o arrabbiare?”.
Sono andato a vedere il film, spinto dai contrastanti pareri di due miei amici. Per il primo, Qualunquemente è di una noia mortale. Avrebbe voluto abbandonare la sala dopo i primi venti minuti, ma visto che di questi tempi il cinema non è uno spettacolo economico (a proposito, 7,5 euro al multisala di Reggio Calabria non sono eccessivi? Una mia amica a Brolo paga 5 euro) ha deciso di restare fino al termine della proiezione. L’altro mio amico ha invece riso dal primo all’ultimo minuto.
Personalmente, Cetto non mi ha fatto arrabbiare. La Qualunque va preso per quello che è: una caricatura. E nelle caricature sono soprattutto i tratti più caratteristici – specialmente i difetti – ad essere accentuati. È sempre stato così, nel disegno e nella satira. Altrimenti uno va a vedere una mostra di quadri o guarda un reportage giornalistico. Non si possono però nascondere alcuni evidenti limiti del film. La sceneggiatura latita, riducendosi a un escamotage per legare sketch in gran parte già noti. Si tratta, per l’appunto, di un “già visto” che raramente consente alle battute quell’effetto sorpresa che provoca lo scoppio di una risata. Di sicuro, il personaggio è più efficace e brillante nei 5-10 minuti di un’apparizione televisiva. Qualunquemente non vincerà l’Oscar. Ma non credo che sia stato prodotto, girato e interpretato con quest’ambizione.
Giornata della memoria
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
[Se questo è un uomo, Primo Levi, 1947]