Storia di un seme che si è fatto pianta

Erano tutte occupate le poltroncine del teatro della scuola media “Vittorio Visalli”, che ha ospitato il convegno celebrativo per i venti anni dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”. Una celebrazione sobria, senza alcun intento apologetico, ma – come ho avuto modo di considerare nel mio intervento – “con l’umiltà e l’orgoglio di chi è consapevole di svolgere un ruolo prezioso all’interno della comunità eufemiese”. Il tema del convegno (“Le nuove frontiere della solidarietà”) avrebbe dovuto essere svolto da due personalità di primo piano dell’associazionismo provinciale, Giuseppe Pericone e Mario Nasone, rispettivamente direttore e presidente del Centro servizi al volontariato “dei due mari” di Reggio Calabria, struttura prevista dalla legge quadro del volontariato (266/1991) per “promuovere, sostenere e sviluppare le organizzazioni di volontariato e l’associazionismo”.
Gravi problemi familiari hanno purtroppo costretto al forfait Nasone, che è anche presidente del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria, fondato nel 1968 da don Italo Calabrò (“Amatevi tra di voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!”), e che da decenni conduce importanti battaglie per contrastare situazioni di abbandoni, abusi, devianze ed emarginazione sociale.
Il consigliere del Csv Bruno Furfari ha rivolto un breve saluto, quindi il presidente dell’Agape, Pasquale Condello, ha ripercorso i venti anni di servizio dell’associazione in favore dei soggetti più deboli ed emarginati: anziani, minori, disabili. Ha inoltre letto il saluto del fondatore don Benito Rugolino (“avete riempito il mio vecchio cuore di esultanza e vitalità”), che prima di partire per Torino (dove vive) aveva visitato la sede e si era dichiarato felice perché “il seme piantato venti anni fa è diventato una pianta robusta”.
Pericone ha raccontato una favola dei nostri giorni, protagonista un extracomunitario della rivolta di Rosarno, che si conclude con un messaggio di pace universale, da raggiungere smettendola di alzare muri e cominciando a costruire ponti.
La proiezione di un emozionante videoclip realizzato da Iole Luppino e Gina Bagnato (“Vent’anni d’amore”) che ripercorre con le immagini la storia dell’Agape, fino al recente pellegrinaggio a Lourdes, ha preceduto gli interventi del pubblico e il buffet di dolci finale. I volontari rimasti per rimettere in ordine la sala hanno poi concluso la serata con una spaghettata e una grigliata al ristorante preferito dall’associazione, “da Teresa e Vince”.

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Il vocabolario “femijotu” di Giuseppe Pentimalli

Si è tenuta ieri, presso la sala consiliare del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del Vocabolario ragionato del dialetto femijotu, di Giuseppe Pentimalli. Positiva la risposta del pubblico, sia in termini numerici che sotto il profilo dell’interesse e dell’attenzione dimostrati per un’iniziativa partecipata da una confortante percentuale di giovani. In qualità di moderatore, ho svolto un breve intervento iniziale, al quale sono seguiti i saluti del sindaco Vincenzo Saccà, che si è soffermato sulle qualità umane e professionali dell’autore, apprezzate in anni di comune impegno politico e amministrativo. La relazione del professore Filippo Ascrizzi ha messo in rilievo la funzione e il significato di ribellione dell’uso del dialetto nei confronti della cultura dominante, mentre il professore Rosario Monterosso ha sottolineato l’importanza e l’attualità di un vocabolario dialettale nell’epoca di internet e del linguaggio sgrammaticato degli sms. Il glottologo e linguista Paolo Martino, della Lumsa di Roma, ha quindi confermato il valore scientifico e innovativo dell’opera, che “sarebbe più corretto definire dizionario etimologico”. In chiusura, l’appassionato intervento dell’autore: un’accorata difesa della cultura “bassa” nei confronti di una presunta cultura “alta”, tale per definizione, convenzione e imposizione dall’esterno. Quel che segue riproduce, più o meno, il mio intervento.

Ringrazio il professore Pentimalli per avermi coinvolto in un’iniziativa dall’elevato contenuto culturale. Relatori più competenti di me affronteranno gli aspetti tecnici e specialistici del volume. Il mio compito sarà invece quello del vigile. Quello cioè di dirigere il traffico e dare la parola ai relatori che si succederanno, provvedendo a tenere in caldo il microfono tra un intervento e l’altro.
Non essendo io un esperto della materia, credo che il professore Pentimalli abbia voluto la mia presenza per una questione di stima e di affetto, che sono reciproci. D’altronde, negli anni abbiamo avuto spesso modo di confrontarci su alcune questioni e ogni volta che ho pubblicato qualcosa, Pentimalli è stato tra i primi ad averne copia.
Ciò che penso di potere anche io sottolineare, da profano, è la caratteristica principale del vocabolario che, come dice il titolo stesso, è “ragionato”. Ciò ha comportato per l’autore, evidentemente, uno sforzo supplementare: per ogni lemma (quasi 10.000), viene spiegata l’etimologia, ma anche le trasformazioni che esso ha subito nel tempo e nella parlata comune, fino alla versione definitiva. Per questo motivo, consiglio ai fruitori del vocabolario di leggere attentamente la nota introduttiva, laddove sono contenute indicazioni preziose e fondamentali per districarsi in questa complessa materia, e rimandare ad un secondo momento la ricerca dei termini che la curiosità certamente alimenterà. Un’altra peculiarità di rilievo è la corposa Appendice, che non costituisce un riempitivo, bensì il tentativo di rinverdire una tradizione fatta di modi di dire, proverbi, locuzioni e frasi a doppio senso che vogliono contrastare il “lento e progressivo spegnimento dei dialetti” preconizzato da più parti.
Prima di cedere il microfono per il primo intervento, vorrei rubare qualche minuto per dire, fondamentalmente, due cose. La prima, sull’intellettuale “eufemiese” Giuseppe Pentimalli, quarant’anni di insegnamento, trentatré dei quali presso l’Istituto superiore “Nicola Pizi” di Palmi, come docente di latino e greco. Cultore raffinato dei classici latini e greci e della loro interpretazione, come si può apprezzare nella raccolta Le muse discinte (2006), ma anche attento studioso degli aspetti storico-sociali della storia calabrese, che hanno avuto una sistemazione organica nel libro La Calabria antica (2003), riguardante l’arco temporale che va dall’età della pietra al 1060 dopo Cristo.
Cito volutamente per ultimo il saggio La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, contenuto nel volume edito da Rubbettino nel 1997 che raccoglie gli Atti del convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, organizzato dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio nel 1990. E mi accosto a questo lavoro con profondo rispetto, perché ha avuto su di me un’influenza particolare, come spunto e termine di paragone e confronto per il mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Ma c’è ancora un altro aspetto della figura di Pentimalli che va messo in evidenza: l’impegno di un intellettuale calato nella sua realtà e nel suo tempo, protagonista di primo piano negli ambienti culturali eufemiesi, ma non solo, se si pensa agli anni in cui il professore ha avuto responsabilità politiche e amministrative, come sindaco del paese a più riprese (1976-79; 1985-90; 1990-92) e, più in generale, come esponente di punta della sezione locale del partito comunista italiano. In questo quadro d’insieme, va inoltre ricordato il decennio di direzione della rivista “Incontri” (1995-2005), edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio, sulla quale per la prima volta, ai tempi ormai lontani del liceo, io stesso vidi pubblicato il mio primo articolo e della quale, personalmente, avverto parecchio la mancanza.
Questo è per me “Peppino” Pentimalli, uno dei migliori figli della comunità eufemiese. Riporto – vox populi, vox dei – quanto dichiarato da un mio amico quando ha saputo della pubblicazione del vocabolario: “Solo Pentimalli poteva scriverlo”. Io non lo so se poteva scriverlo solo lui. Di certo, però, l’ha fatto e credo tanto basti per tributargli un doveroso ringraziamento.

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Non sono proprio ferie, ma bisogna dire così…

Non vado in ferie. Non ci sono mai andato. Almeno, non secondo i parametri riconosciuti internazionalmente. Per chi vive in Calabria, è abbastanza consueto… In genere, se non si ha la fortuna di possedere una casa al mare (e io appartengo a questa categoria), ci si organizza per delle sfacchinate, andata e ritorno dal mare sotto il sole cocente della Salerno-Reggio Calabria. Oppure ci si dà al piccolo cabotaggio (Tropea, Eolie, ecc.), da realizzare in uno-due giorni di fuoco. Da qualche anno mi sono stancato di questa vita da pendolare, ma qualcosa da fare la si trova sempre. Tra parenti che non rinunciano a qualche settimana (o mese, per i pensionati) nella propria terra di origine, impegni nelle associazioni, incontri più o meno culturali, di intrattenimento o soltanto culinari, incremento delle attività sportive, escursioni in provincia, a caccia del cantante buono “a gratis”, tempo per occuparsi del blog ne rimane poco. Credo pure che, per chi lo fa durante l’anno, ne rimanga poco per leggerlo.
E comunque farà bene anche soltanto staccare la spina, al di là della vacanza che non ci sarà! Il blog dà soddisfazioni, ma richiede anche una dedizione tanto piacevole quanto impegnativa.
Per cui, buone vacanze a tutti. A meno di qualche imprevedibile incursione, speriamo di ritrovarci a settembre con ancora la voglia di dire qualcosa.

Ho preso in prestito l’immagine che vedete dal sito “Alessia scrap & craft…”
http://www.4blog.info/school/2011/nuovo-cartello-per-i-blog-in-ferie/

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La lotteria

Il numero estratto sulla ruota della disperazione è il 26. Numeri invece delle persone e dei loro volti, anche questa è una tragedia. Se vedessimo le facce di questi sventurati, non soltanto il telo azzurro come il mare dei loro sogni a coprire corpi asfissiati, sarebbe diverso. Saremmo tutti più umani. Riusciremmo a comprendere cosa vuol dire stare dalla parte dei “sommersi” e quanto possa essere casuale ritrovarsi tra i “salvati”, proprio come nell’universo concentrazionario descritto da Primo Levi.
Capiremmo che ritrovarsi in sessanta stipati nel vano motore di una carretta del mare stracolma di migranti, piuttosto che sulla tolda, all’aria, è una questione legata esclusivamente alla cesoia di Atropo. Basta che qualcuno dica: “sotto si sta meglio, senza sole di giorno e senza freddo la notte” e si scende, forse contenti per avere avuto la soffiata giusta prima degli altri. Ma si muore, dopo tre giorni passati incollati uno sull’altro, per i miasmi dei motori e per le bastonate degli scafisti che risospingono sotto chi tenta di uscire da una vera e propria camera a gas.
“Ma non era così/ che mi credevo di andare/ no non era così/ come un ladro, di notte/ in mano a un ladro di mare”, canta Gianmaria Testa in Rrock. No, non è così per nessuno dei disperati che tenta di sfuggire a un destino di miseria affidando la propria vita ai trafficanti di carne, in molti casi anche indebitandosi per un punto interrogativo. Come altro definire un viaggio rischiosissimo, su pescherecci traballanti che si inabissano alla prima onda alta? È ancora vivo il ricordo del naufragio dell’aprile scorso nel canale di Sicilia, costato la vita a 250 migranti partiti dalla Libia su un barcone, probabilmente dopo un interminabile ed estenuante viaggio attraverso il deserto, in fuga dai Paesi più poveri e insanguinati dell’Africa.
Corpi gonfi d’acqua, quando si riesce a recuperarli, o asfissiati, come nella tragedia accaduta al largo di Lampedusa. Corpi – a volte portati a destinazione, a volte gettati a mare – dei più deboli o di coloro che si ammalano e non ce la fanno. Corpi che vengono risucchiati dal deserto, volti anonimi sui quali, più di un anno fa, ha fatto luce un reportage di Fabrizio Gatti sulle stragi che possono comportare i rimpatri previsti dagli accordi bilaterali tra Italia e Libia.
Sulla vita dei migranti si giocano spesso partite strumentali, alimentate dalla paura di una consistente parte di opinione pubblica. Un po’ quello che avveniva nei nostri confronti “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il titolo di un libro di Gian Antonio Stella. Anche allora i “vascelli della morte” non sempre arrivavano a destinazione, come accadde nel 1891 al largo di Gibilterra, quando il naufragio dell’Utopia provocò la morte di 576 Italiani.
Proprio il rispetto che dobbiamo alla nostra storia e ai drammi dolorosissimi vissuti dall’emigrazione italiana ci impone di non scadere nella polemica politica del “foera di ball”, ogni volta che lo straniero fornisce il pretesto per affidarsi alla pancia e all’istinto, in una questione che è principalmente di civiltà e di umanità. Con protagonisti uomini, donne e bambini, non numeri.

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Anni come giorni volati via

In una canzone di successo Raf si domandava cosa sarebbe rimasto degli anni ’80, il decennio che ha portato la mia generazione alla soglia della maggiore età e che, come tutto ciò che il trascorrere del tempo rende romantico e “mitico”, appartiene alla sfera dei ricordi più piacevoli.
Innanzitutto gli odori. Quello della casa di mia nonna e delle rose bianche del suo piccolo giardino. A ripensarci adesso, l’orzata che ci preparava era imbevibile. Troppo dolce. Eppure andavamo al fondo del bicchiere d’un fiato, come con la gassosa al limone Marra, di gran lunga superiore alla Romanella. Era quello il rifugio dei nipoti per un break tra un gioco e l’altro: pane con olio e sale, oppure i gelati che eravamo autorizzati a prendere a credenza da Micuzzu ’u Grugnu o da Grazia ’a Rofalazza, tanto poi la nonna saldava tutto. Di nascosto dal nonno, però, che aveva una concezione del denaro molto genovese. La pipa della Gelca gusto vaniglia ci faceva assumere pose da adulti, nonostante i sandali color cuoio con fibbia allacciata sulla caviglia e i pantaloncini extra corti da maratoneta.
A mano a mano, gli spazi da conquistare aumentarono. Il campo da gioco della “tola” – una variante del nascondino – non aveva alcun limite. Anzi, quando il ruolo di cacciatore toccava al meno sveglio del gruppo, alcuni si rifugiavano in una lontanissima sala giochi o se ne andavano addirittura a casa. Con le biciclette si girava il paese, attaccata al manubrio o sotto la sella la targhetta con il numero personalizzato: ne avevamo recuperate a decine quando distrussero – verbo quanto mai calzante – il vecchio palazzo municipale. I più audaci si spingevano fino alla ferrovia e attraversavano il ponte e la galleria, correndo all’impazzata per nascondersi nelle “nicchie” quando la littorina annunciava il suo arrivo. Era la linea (dismessa dal 1997) che da Sinopoli portava a Gioia Tauro, utilizzata dai lavoratori, da coloro che frequentavano le scuole superiori fuori paese e da chi si concedeva un colpo di vita al cinema “Sciarrone” di Palmi.
Lo sport più praticato era il calcio. In qualsiasi posto. Per strada, in pineta, al municipio, ma soprattutto in piazza, dove con Micuzzu du’ café e suo fratello si combatteva una quotidiana guerra di logoramento: noi compravamo i palloni, loro li sequestravano. Anche se potevamo contare sulla quinta colonna dei loro nipoti che spesso e volentieri riuscivano a recupere quanto ci veniva sottratto. Quando non ci era consentito utilizzare un pallone “normale” – raramente il tango, in effetti troppo pesante per giocarci in piazza: solitamente il super santos, che era migliore del super tele – ci si arrangiava con quello di spugna. Nei momenti di maggiore tensione e di divieto assoluto, andava bene anche la pallina da tennis di spugna o – incredibile, ma vero! – la lattina di una bibita schiacciata.
Il mito era Shingo Tamai, l’antenato di Oliver Hutton capace di tiri impossibili, con il pallone che si deformava per la potenza del calcio e si impennava altissimo, prima di ricadere in terra e schizzare verso la porta, imparabile, dopo un lungo vorticare. I cartoni animati erano una costante dei nostri pomeriggi: il pugile Rocky Joe; le lotte titaniche dei robot dotati di armi potentissime (l’alabarda spaziale di Goldrake, i raggi fotonici di Mazinga Z e quello protonico di Jeeg Robot d’acciaio); il fascino della cicatrice sullo zigomo di Capitan Harlock; le peripezie dello sfortunatissimo Remì; Dick Dastardly e il suo assistente sghignazzante, il cane Muttley, alle prese ora con la cattura del piccione viaggiatore, ora con le “corse pazze” contro il Diabolico Coupé, Penelope Pitstop, l’Insetto Scoppiettante e tanti altri.
Sul finire del decennio, inaspettatamente, arrivò a casa mia il motorino, un Califfo dotato di pedali che in salita non ne voleva proprio sapere di andare. Un’esperienza brevissima, conclusasi senza alcun rimpianto. Anni dopo ne ho rivisto uno simile in una televendita: lo davano in omaggio, insieme ad altri articoli, a chi acquistava una batteria di pentole e un servizio completo da tavola.

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Come un’onda che sale

L’immagine di Berlusconi che batte i pugni sul tavolo e mastica amaro, accusando tutti, non solo l’opposizione, di avere commesso “una vergogna”, condannando alla galera un deputato pur di colpire il presidente del consiglio, spiega più di ogni analisi politica il cul de sac in cui si è infilata l’alleanza di governo. La coperta diventa ogni giorno più corta e tenere insieme una coalizione che di fatto non esiste è impresa sempre più eroica. I pochi che ancora non l’avessero capito, prima ancora che sulla doppia votazione per l’autorizzazione all’arresto di Alfonso Papa e Alberto Tedesco, riflettano sulla vicenda del decreto rifiuti, di fatto bocciato dalla stessa maggioranza dopo che, per la prima volta nella storia parlamentare, si è assistito ad un incredibile auto-ostruzionismo, messo in atto dalle forze di governo per guadagnare tempo e tentare un accordo in extremis con il Carroccio.
Proprio i movimenti della Lega stanno mettendo a dura prova la capacità di analisi dei notisti politici. Cosa sta succedendo in via Bellerio? È davvero in corso uno scontro tra Bossi e Maroni o si tratta soltanto di un abile gioco delle parti per costringere all’angolo il premier? Il leader padano non si è fatto vedere, ufficialmente per motivi di salute, il ministro dell’Interno ha preferito sedere tra i banchi della Lega piuttosto che tra gli scranni riservati ai membri dell’esecutivo. Che Papa sia stato condannato e Tedesco salvato è un dettaglio. Nonostante le accuse sulla doppia morale scagliate contro il Pd da Roberto Castelli e, di rimando, le insinuazioni sul doppio gioco della Lega avanzate da Anna Finocchiaro. Il merito dei due casi giudiziari praticamente non è stato neanche preso in considerazione. Si è giocata la solita partita del dopo-Berlusconi, nel centrodestra ma anche nel campo dell’opposizione, come lasciano intuire le più azzardate formule di governo ipotizzate: istituzionali, tecnici, balneari.
Siamo al redde rationem, in un clima reso ancor più fosco dal timore di un ritorno ai tempi di Tangentopoli. Ora come allora si è in presenza di una crisi economica drammatica. La manovra lacrime e sangue colpisce il cittadino e risparmia la casta, eludendo la pressante domanda di aggredire i privilegi con una strafottenza degna della raffigurazione del potere fatta da De André in La domenica delle salme: “il ministro dei temporali/ in un tripudio di tromboni/ auspicava democrazia/ con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”.
Il ceto politico è nell’occhio del ciclone, sballottato e terrorizzato da una bufera giudiziaria che preannuncia ulteriori sorprese. I casi del ministro Saverio Romano e dell’ex collaboratore di Tremonti, Marco Milanese, a differenza di quanto accaduto per le vicende Bertolaso, Cosentino, Scajola e Di Girolamo, potrebbero portare al tracollo del governo. Ancora una volta, la magistratura è accusata di occupare gli spazi della politica, mentre aumenta il terrore che l’ondata giustizialista possa far venire giù tutto. Ma è giustizialismo pretendere che la legge sia uguale per tutti?

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Guido, il suonatore Jones e la lumaca di Trilussa

Si è portati a credere che tutto il bagaglio di conoscenza e di esperienza accumulato negli anni servirà, prima o poi, a qualcosa. Come se, a un certo punto, ci si fermasse e si aprisse lo scrigno dei talenti. Ed è probabilmente così, anche quando si finisce con il fare cose lontanissime dai sogni e dalle aspettative personali. Una maturità affascinante, ma terribile nello stesso tempo. Occorre anzitutto fare i conti con la realtà, con i bisogni materiali che l’irresponsabilità dei venti anni non fa avvertire pienamente.
Ci sono affetti che invecchiano e volti che sfumano, come i titoli di coda di un film che non si rivedrà mai più. Persone che spariscono dal nostro orizzonte quotidiano, con le quali occorre risintonizzare la frequenza perché un rapporto può mutare. Non necessariamente in peggio o in meglio. Si è semplicemente diversi, perché – ha detto qualcuno – soltanto gli stupidi non cambiano mai.
Certo, tutto dipende dal punto in cui si posiziona la macchina da presa. Se uno pensa che avrebbe potuto salutare tutti a 26 anni, ogni calendario nuovo attaccato al muro rappresenta un bottino mica male, un bonus di 365 giorni da sfruttare fino all’ultimo secondo. Meglio che comprare una vocale al gioco La ruota della fortuna.
C’è molto di casuale, in origine. Dopo però subentra la volontà dell’uomo. Niente accade per caso o perché così è stato scritto da un’ignota mano in qualche libro imperscrutabile. Non c’è un fabbro che fa il lavoro per gli altri, siamo noi gli artigiani del nostro destino. Per cui, si capita in un posto, piuttosto che in un altro, e si fa il proprio tragitto, lungo o breve che sia. In realtà brevissimo rispetto alla storia dell’Universo. Né più, né meno di ciò che è già successo a miliardi di esseri umani e che capiterà ad altrettanti.
La lumachella della vanagloria resa immortale dai versi di Trilussa, guardando la bava che lasciava dietro di sé, si era convinta che avrebbe lasciato “un’impronta nella storia”. Ma non tutti sono così presuntuosi. Per lo più, ci si accontenta di essere un passante tra i tanti. Come nei fotogrammi accelerati di certe scene caratterizzate da una folla indistinta che va avanti e indietro senza un apparente scopo. È una possibilità da mettere in conto.
Soltanto il suonatore Jones è morto senza avere “nemmeno un rimpianto”. C’è chi ne ha tanti, chi uno soltanto grandissimo e inconfessabile. Chi ha subito ingiustizie e chi ne ha commesse. Chi, quando sbaglia, paga senza elemosinare lo sconto. Chi non è un santo, né aspira alla santità. Gli basta stare a posto con la sua coscienza. Impresa a volte non semplicissima.
In una delle scene più celebri di quel capolavoro assoluto del cinema che è l’autobiografico Otto e ½, l’intellettuale in crisi Guido, interpretato da Marcello Mastroianni, straordinario alter ego del regista Federico Fellini, riceve in risposta dal cardinale al quale aveva confidato la sua inquietudine esistenziale (“Eminenza, io non sono felice”) due interrogativi agghiaccianti: “Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”. Già. Ineccepibile.
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Generazione botox

L’ultima vittima balzata agli onori della cronaca si chiama Sandra Rawline, manager cinquantaduenne della società immobiliare texana Capital Title. Licenziata. Perché non rendeva? Tutt’altro. Per due anni consecutivi è stata premiata come “migliore dipendente”. Il motivo del licenziamento è un altro ed è un segno dei tempi in cui viviamo. Pare che i vertici dell’azienda le avessero consigliato di tingere i capelli, ormai grigi. E già che c’era, di presentarsi al lavoro con un abbigliamento più giovanile.
Invecchiare è un lusso che non ci si può permettere. Anche a costo di rendersi ridicoli. Signore attempate con l’ombelico in bella mostra, la ciccia costretta in pantaloni elasticizzati, buffissime su dei trampoli ingovernabili. Maschere nerocorvine dalla pelle tiratissima, emuli dei personaggi lelemoriani insaccati in camicie stretch, al polso, al collo e alle dita i monili “tendenza Corona”. Un campionario da circo Barnum, degno dei più celebri fenomeni da baraccone: l’imperatore dei lillipuziani, la donna barbuta o l’uomo leone.
Seguire le mode non basta più. Occorre un ulteriore passo. Non soltanto “apparire”, ma “diventare” giovani, ricorrendo ai trucchi della cosmesi e della chirurgia plastica. Con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Visi senza espressione, pronti a scucirsi se il sorriso è troppo largo, labbra che è riduttivo definire a canotto, seni che sfidano le leggi di gravità e non fanno alcun movimento neanche shakerando il corpo che li indossa.
Un ritocco tira l’altro. Una specie di droga. È sufficiente osservare la frequenza con cui muta la luce negli occhi dei divi del jet set per farsi un’idea dell’ossessione che li divora e che fa loro smarrire naturalezza e solarità, rendendoli tristi e patetici. La gamma degli interventi è sempre più ampia: il botox per ottenere la pelle liscia, le punture per gonfiare le labbra, la blefaroplastica per occhi e palpebre, la liposuzione contro la cellulite, la liposcultura all’addome, l’acido ialuronico per ingrossare il seno o riempire le rughe, il laser per cancellare le macchie della pelle. Gli inconvenienti però possono rivelarsi devastanti. Volti deformati e gonfi come quello della splendida Laura Antonelli, per esempio.
Dopo 4-6 mesi, il botox perde efficacia e pertanto occorre ripetere il trattamento. Ma poiché non si riassorbe, come i cosiddetti filler di riempimento, l’accumulo nel corpo rischia di provocare effetti collaterali pericolosissimi. Ne sa qualcosa l’Allergan, azienda statunitense produttrice di botox, condannata al risarcimento record di 212 milioni di dollari per avere causato danni invalidanti a un paziente. Pure le protesi al silicone presentano qualche controindicazione. La società italiana di chirurgia plastica sostiene che nell’80% dei casi occorre sostituirle dopo dieci anni, mentre già dopo cinque si manifestano i primi inconvenienti.
Non si tratta di furore talebano, ma un conto è correggere gli inestetismi, altro è la folle corsa alla perfezione di plastica di chi vorrebbe mandare indietro le lancette dell’orologio, sull’onda di campagne massmediatiche martellanti e subliminali che invitano ad essere perfetti, belli e giovani. Si inizia presto. Sono sempre più numerose le ragazzine che chiedono un seno nuovo come regalo di compleanno o premio per la promozione a scuola. Tanto che un anno fa il governo italiano è dovuto intervenire con un disegno di legge per vietare le protesi mammarie alle minorenni. Legittimo chiedersi che fine abbia fatto la famiglia, se per affermare un principio di buon senso si deve scomodare la politica.  
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La bella stagione

Sarà che i primi ad avvertirne l’arrivo sono i ragazzi delle scuole, sarà che l’età non è più quella delle no-stop in riva al mare, sarà che certe estati non torneranno più. Ma questa sembra non iniziare mai. Meno male che ci sono i programmi televisivi da saldo a ricordarci che, in fondo, l’estate è l’intervallo tra il palinsesto primaverile e quello autunnale. Repliche, film in bianco e nero e poco altro.
Per certi versi non è un male. Personalmente preferisco il programma Da da da, che all’ora di cena su Rai 1 propone il meglio della storia della televisione pubblica, facendo rivedere spezzoni tratti dagli archivi, alle tante insulsaggini che ci propinano durante il cosiddetto periodo di garanzia,  quello che interessa di più agli investitori pubblicitari. Sempre meglio di certi telegiornali. Con tutto quello che accade in Italia e nel mondo non c’è spazio che per le nuove coppie reali, le abitudini più strampalate, psicologi per cani, notizie di costume. La Libia, tanto per fare un esempio, è scomparsa. Probabilmente ne riparleranno a Gheddafi catturato o ammazzato. Nel frattempo, si spara, si uccide, si vìola il mandato dell’Onu, che non prevedeva la caccia all’uomo. Come se nulla fosse.  
Certo, ci sono anche le tantissime serate di premiazione per questo o quell’evento a ricordarci che sono ancora in circolazione conduttori decaduti e tirati fuori dal sarcofago per l’occasione, che panem et circences è una formula che funziona sempre, che un premio, come il sigaro e la croce di cavaliere di giolittiana memoria, non si nega a nessuno, soprattutto se consente di allestire un baraccone pubblicitario per qualche amena località turistica o qualche ras locale. Ne abbiamo avuto un assaggio con la serata di Miss Italia nel Mondo. Uno spettacolo costato alle casse regionali 900 mila euro, secondo il consigliere del Pd Francesco Sulla. Un anticipo del trasferimento su scala regionale del “modello Reggio”, star e starlette sul corso e rubinetti dell’acqua secchi in periferia. Prossimo appuntamento, l’allestimento del villaggio di Rtl sul lungomare di Reggio, a spese della Regione, dopo i precedenti gravati sulle sofferenti casse comunali.  
Lo spettacolo della politica non va mai in ferie. È un filone dal successo assicurato. Le ultime gag sono state confezionate nelle recenti sedute parlamentari. Il numero evergreen della proposta di abolizione delle province conclusosi, al solito, con un nulla di fatto e con i promotori a fare la figura di Gianni dei Brutos, quello che prendeva sempre gli schiaffi. E il tentativo maldestro di inserire nella manovra economica una norma pro Fininvest, ennesimo e spudorato provvedimento ad personam, ritirato in fretta una volta sgamato l’inghippo e rimasto orfano dopo l’affannosa e generale presa di distanza. A sentire i protagonisti, non ne sapeva niente nessuno, né Berlusconi, né Tremonti, né la Lega. Va a finire che è davvero tutta farina di Gianni Letta, come ha maliziosamente insinuato il ministro dell’Economia. L’elezione di Alfano alla guida del Pdl e la dichiarazione sul “partito degli onesti” appartiene invece ad un’altra categoria. Più sopra ci sono solo Totò e Peppino. 
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