Siamo tutti Sallusti, ma anche no

Sul caso Sallusti, il direttore del “Giornale” condannato a 14 mesi di reclusione per un articolo fatto pubblicare nel 2007, quando dirigeva “Libero”, è stato detto tutto. Nel considerare il carcere una pena eccessiva, arrivo quindi buon ultimo. Concordo anche – e questo, seriamente, mi preoccupa – con Vittorio Feltri, quando dice che il giudice non ha alcuna colpa, poiché si è limitato ad applicare la legge: “se tu – il succo del suo ragionamento – gli metti in mano armi che vanno dal temperino al mitra e quello usa il mitra, bisogna prendersela con il legislatore che gli ha messo il mitra in mano, non con il magistrato che l’ha usato”.
La legge in questione, retaggio del codice Rocco, è sopravvissuta alla caduta del fascismo (immagino) perché, in fondo, al potere fa comodo anche soltanto adombrare la possibilità che si possa finire in galera per ciò che si pensa. Per cui, bisognerebbe cambiare la legge e stabilire che i reati a mezzo stampa sono perseguibili solo per via civile. Su questo, siamo (o dovremmo essere) tutti d’accordo.

Detto questo, si impone qualche precisazione. La prima, e sostanziale: confondere fatti e opinioni o fare di Sallusti un eroe risponde alla solita, insopportabile, logica strumentale cui tutto, in Italia, si riduce. Una cagnara utile per nascondere ciò che Alessandro Robecchi ha definito “un giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per sostenere una sua tesi”. Sì, perché il reato d’opinione, nel caso di Sallusti, non c’entra per niente: c’entra invece, il fatto che è reato “scrivere e stampare notizie false”, cioè diffamare. C’entra anche, per esempio, il dettaglio che un direttore responsabile, lo dice la parola stessa, è “responsabile” di ciò che viene pubblicato sul giornale che dirige, altrimenti qualcuno mi spieghi quale sia la sua funzione. C’entra, inoltre, con un principio etico elementare: quello di proibire che sia data ospitalità e offerta una tribuna a un giornalista radiato dall’Ordine (Renato Farina, deputato Pdl, già agente “Betulla”). E poi fare anche finta di non conoscere l’identità dell’autore dell’articolo incriminato: diversamente si incappa, come è successo al direttore del “Giornale”, anche nel reato di “omessa denuncia”. Che con la libertà d’opinione, è evidente, non ha alcuna relazione.

Non apprezzo Sallusti (eufemismo). Trovo odioso il suo modo di fare giornalismo, ammesso che sia giornalismo la faziosità e la distorsione della verità per fare l’interesse politico del proprio editore. Ritengo però che una pesantissima multa (superiore ai 5.000 euro di multa del primo grado di giudizio) e la radiazione dalla professione, per i giornalisti che facciano strame della deontologia, possa essere una pena congrua. Una soluzione che, tra l’altro, ci risparmierebbe il rischio di ritrovarci con un improponibile martire della libertà di stampa. In definitiva, è la pena che è ingiusta, perché non c’è proporzione tra reato e condanna, non la condanna in sé.
No al carcere, dunque. Certo. Ma #siamotuttiSallusti (l’hashtag che sta girando su twitter), no. Anche impegnandomi, turandomi qualsiasi cosa, non ce la potrei mai fare.

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Pensiero di notte

La vita non è una competizione in cui a volte si vince, altre si perde.
Non c’è l’inno nazionale, alla fine, e neanche la medaglia e il bouquet di fiori.
Non si va dietro la lavagna, né si indossa il cappello con le orecchie d’asino.

Però è dappertutto, anche in ciò che mortifichiamo con un banale “questa non è vita”. E invece no. Proprio quella, lo è.

Tutto è vita e tutto è un soffio. Quanto ci mette un soffio a svanire, a non lasciare niente di sé?

Soltanto utilizzando la lente della caducità, ogni cosa assume contorni reali ed essenziali. Non è rassegnazione, né passiva attesa del fluire naturale del tempo. È un cribro da agitare con saggezza, per setacciare ciò che davvero ha importanza e ciò che, invece, soltanto abbaglia, distrae, inganna.

Uomini e cose, fatti e pensieri.

Stare bene, con noi stessi e con gli altri, con quanti più “altri” sia possibile, visto che anche a Gesù – che era Gesù – uno su dodici fagliò. Ovunque: nell’abbraccio delle metropoli, confinati in qualche periferia del mondo, sonnecchianti nella noia di quattro case e un forno.

Non esiste altra ricetta per la felicità. Se si vuole, è l’uovo di Colombo. Spesso inseguiamo miraggi utili soltanto per pompare il nostro ego, che non riescono però a riscaldare. Neanche un po’.

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Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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Per qualche copia in più

Non mi piace il giornalismo urlato. Non mi piacciono i titoloni sparati in prima pagina per vendere qualche copia in più. Lo stile de “Il Giornale” o di “Libero”, tanto per fare due esempi (non) a caso. Da un po’ di tempo, “Calabria Ora” sembra avere sposato il belpietrismo. L’ultimo cavallo di battaglia di Sansonetti è la difesa del Sud dagli stereotipi nordisti che dipingono, da Napoli in giù, una terra irredimibile. Territori in mano alla criminalità organizzata, popolazioni che attendono a bocca aperta la mammella dello Stato, barbari che fanno dell’abusivismo edilizio la regola e della difesa delle bellezze naturali e paesaggistiche l’eccezione. Oddio, i reportage di ispirazione quasi lombrosiana sono intollerabili, ma non credo che certe repliche siano un bene per il Sud. Di sicuro, non lo sono per il giornalismo.

Prendiamo la lunga e bella intervista di Alessia Principe a Paolo Villaggio, in tournée con il suo spettacolo teatrale. Foto centrale dell’attore genovese e un’apertura che istintivamente suscita un moto d’antipatia: “Il Sud? Un posto tremendo”. Ed è quel “posto tremendo”, decontestualizzato dal resto del colloquio (morte, storia della cristianità, omosessualità, Fantozzi, Angelo Rizzoli, Fabrizio De Andrè e Silvio Berlusconi) che ispira anche il titolo delle due pagine centrali del giornale: “Fantozzi story. Il Sud? è una cagata pazzesca”. Adattamento in chiave meridionalista dell’urlo liberatorio di Fantozzi nel dibattito al cineforum sulla “Corazzata Potemkin”. Quel “posto tremendo” diventa anche il calamaio nel quale il direttore di “Calabria Ora” intinge il pennino per argomentare (“Scusa, caro maestro, il Sud è un’altra cosa”) che “il degrado” del Sud “è il risultato della sopraffazione” del Nord sul Meridione e concludere, amaro e beffardo: “vede Villaggio, detto con affetto, la sua idea del Sud è un po’ una cagata”. Opinione legittima, per carità. Se però si va a leggere il passaggio incriminato, i conti non tornano. O tornano di meno. Virgolettato dell’intervista: “Il Sud è terribile. Ed è spaventoso come la cultura del voto di scambio, alimentata in tutti questi anni, lo abbia rovinato in questo modo. Come avete fatto? – pausa. Ma non abbassa lo sguardo. Ha le mani raccolte. Me lo chiede davvero. Lo vuole sapere. – La corruzione è cresciuta indisturbata. Mi è bastato vedere, appena arrivato in Calabria, il vostro litorale rovinato da costruzioni abbandonate, decadenti, obbrobriose. Ma perché… Perché?”.

Niente di eclatante e neanche di originale, ad essere sinceri. Considerazioni arcinote, che si leggono quotidianamente sulla stampa locale. Dunque, siamo alle solite: soltanto i calabresi possono muovere critiche ai calabresi. Quelle di un “forestiero” sono pregiudizi intollerabili. Certo, l’attacco a una celebrità è sempre un ottimo strumento per guadagnare visibilità, un’occasione da prendere al volo, anche a costo di qualche forzatura interpretativa. Oltretutto, in questi giorni, Paolo Villaggio è finito nell’occhio del ciclone per una dichiarazione infelice sulle paralimpiadi: “sono tristi” e “non fanno ridere”. Come se lo scopo delle paralimpiadi sia fare ridere qualcuno. Ecco, la richiesta di una precisazione su queste ben più gravi frasi non sarebbe dispiaciuta. E forse avrebbe consentito a “Calabria Ora” di fare un titolo più bello.

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I colori da dietro

Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.

Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.

Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.

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Venditori di fumo

E siamo a tre. Terzo consigliere regionale arrestato in due anni. Prima, due politici del Pdl: Santi Zappalà (associazione mafiosa, corruzione elettorale, voto di scambio), insieme ad altri quattro candidati pro-Scopelliti, a dicembre 2010; Franco Morelli (concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d’ufficio e corruzione), a novembre 2011. Ora, Antonio Rappoccio, repubblicano eletto nella lista “Insieme per la Calabria”, accusato di associazione a delinquere, truffa, corruzione elettorale aggravata e peculato. I fatti sono ormai noti: 850 giovani truffati con la promessa di un posto di lavoro in cambio della preferenza. Un sistema oleato, utilizzato anche per supportare la candidatura di Elisa Campolo al consiglio comunale di Reggio Calabria. I disoccupati-elettori avevano anche dovuto pagare 15 euro per iscriversi a una cooperativa e 20 euro per partecipare a un concorso del quale, prima del voto, era stata svolta la prova scritta. Dell’esame orale, invece, non si ha nessuna notizia (chissà come mai).

Fin qua, verrebbe da dire, nulla di nuovo sotto il sole. Il tema non è questo, né il degrado morale di partiti che fanno credere di vivere sulla luna, quando tutti sanno che loro per primi vanno a bussare a certe poco raccomandabili porte, e vorrebbero nascondere dietro il paravento di inutili codici etici l’incapacità di selezionare un personale politico del quale non vergognarsi. Non è nemmeno la constatazione del marcio che ci circonda o della sonnolenza della società civile, che non reagisce e resta passiva, salvo indignarsi quando il magistrato di turno fa esplodere il bubbone. Aurelio Chizzoniti, presidente del consiglio comunale di Reggio ai tempi del “modello Reggio” di scopellitiana memoria e primo dei non eletti dietro Rappoccio, ha evidentemente un interesse personale nella vicenda. Ma le sue accuse risalgono a due anni fa e, in tutto questo tempo, la sua è stata una battaglia solitaria. Basti pensare che, tra i truffati, soltanto in dieci hanno presentato un esposto alla procura. Perché la promessa del posto di lavoro per molti non è un reato, bensì il giusto compenso in uno scambio considerato tutto sommato “naturale”. Se va male, si può sempre sperare che vada meglio la volta dopo, magari affidandosi a un politico “più serio” del chiacchierone la cui parola non vale niente. Facile intuire quanto sia libero il voto in un sistema così fragile e quanto dalla politica ci si attende, in una realtà dove tutto è politica, anche l’economia.

La questione, dicevamo, è però un’altra e riguarda il clima di veleni che ammorba l’aria nel palazzo di giustizia di Reggio. Chizzoniti non ha usato giri di parole: “Rappoccio ha fatto tutto questo perché gliel’hanno consentito”. Una pesantissima accusa di omessa contestazione dei reati, rivolta all’ex procuratore della Repubblica di Reggio, Giuseppe Pignatone, ma anche ai giudici Sferlazza e Musolino, che il politico reggino interpreta come conseguenza dello scontro con il giudice Alberto Cisterna per la scalata alla Procura di Roma. In questo contesto, anche l’utilizzo del pentito Nino Lo Giudice, che ha svelato i rapporti tra il fratello Luciano e l’ex numero due della Dna, rientrerebbe nella strategia “politica” di Pignatone, che avrebbe insabbiato la vicenda per un proprio tornaconto personale.

La denuncia di Chizzoniti non è compatibile con il profilo professionale di Pignatone. O l’una, o l’altro: tertium non datur. Ecco perché occorre fare chiarezza, al più presto, nell’interesse dei soggetti coinvolti e per la credibilità dello stesso sistema giudiziario italiano.

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Ragazze al bivio

Scampoli di estate, valigie quasi pronte e quella tristezza che assale chi deve andare. Certo, c’è anche chi non vede l’ora di lasciarsi alle spalle “quattro case e un forno” e i “quattro gatti” che ci abitano. Accompagnando magari la partenza con una buona dose di ingenerosità (chi sta fuori, spesso, lo fa sulle spalle di chi, a casa, compie enormi sacrifici): “ma che ci torno a fare qua?”.

Già, perché tornare? Ci sono infinite ragioni per mettere quanti più chilometri possibile tra sé e un piccolo paese che ha poco da offrire, soprattutto ai giovani. E ancora di meno a una ragazza.
Pochissimo lavoro, spazi di socialità quasi inesistenti, molto tempo libero che diventa tempo sprecato, non avendo granché da fare. Parcheggiate in qualche Università, per una laurea che spesso è a pieni voti, ma desolatamente inutilizzabile. Il passaggio da ragazza a zitella è brevissimo, dalle nostre parti. Dura il tempo del corso accademico. Fino a quando si studia, si ha un alibi. Dopo, diventa tutto più difficile. Valla a trovare una giustificazione, se a venticinque-trenta anni non lavori, non sei sposata e nemmeno prossima al matrimonio.

Ho ricevuto una email che spiega questo duplice stato d’animo. Lo sradicamento che vive chi torna due-tre volte l’anno in paese, con quella “paura” di diventare un “estraneo” anche alle persone care, quando la frequentazione diventa saltuaria e il rapporto si allenta. E poi la difficoltà ad essere donna, qui. Anch’io penso che occorra “il triplo della fatica”, anche se fortunatamente non è sempre così.
Sottopongo a voi l’email che ho ricevuto. Spero anche di riceverne altre, su qualsiasi tema. Il blog è a disposizione di chiunque abbia qualcosa da dire e intenda qui condividerla.

Vuoi sapere che cosa provo quando lascio la mia casa?

Lasciare la mia casa è sempre un po’ pesante, un po’ straziante.

Lasciare la mia casa è un po’ come entrare in coma e riuscire a svegliarsi solo alla fine del viaggio con gli occhi ancora un po’ pieni di lacrime e un nodo in gola che è meglio non vedere nessuno per qualche ora.

Lasciare la mia casa è un po’ come spogliarsi dell’abito più bello: sai che devi toglierlo ma vorresti tenerlo, ancora un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come rimanere orfani. E ti senti sperduto e spaesato e, pur non essendolo, ti senti solo, almeno per un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come perdere l’infanzia e il suo sapore, senza sapere come.

Lasciare la mia casa è un po’ come sparire e avere la paura nel cuore di diventare estraneo per quelle persone care, anche solo un po’.

Lasciare la mia casa è sempre un po’ un dovere da mantenere per credere di farcela, anche soltanto un po’.

Lasciare la mia casa è sempre una certezza e una speranza: so di ritornare, magari per un po’, spero di restare, molto più di un po’…

Se solo ci fosse anche solo una possibilità di restare a casa mia la sfrutterei senza pensarci perché amo la mia terra e vorrei fare qualcosa per cambiarla. Ma voglio anche riuscire a fare qualcosa della mia vita… Essere donna qui è pesante, ci vuole il triplo della fatica.

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Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele.
Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.

Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l’on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant’eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata “Delianuova”. Quindi se non vuoi essere “richiamato” per l’ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:

a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;

b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;

c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;

d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;

e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);

f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

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Putin, pussy via

Forse sono state esagerate. Forse potevano evitare di violare la cattedrale di Cristo Salvatore, cuore pulsante della Chiesa ortodossa russa. Forse sono esibizioniste in cerca di visibilità. Concesso. Però la condanna a due anni di lavori forzati per un reato d’opinione (anche se la sentenza parla di “teppismo religioso”) è abnorme.
E poi, tra il gruppo punk russo Pussy Riot e Vladimir Putin, il cui sport preferito è la sistematica violazione dei diritti umani e la disinvolta eliminazione, con le buone o con le cattive, degli avversari politici, non si pone neanche il problema di scegliere da che parte stare.

Dalla parte di Nadia Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich e Maria Alyokhina, le tre ragazze che il 21 febbraio scorso diedero vita a balletti (“danza satanica”, per i giudici) e canti di protesta in un luogo sacro per condannare l’appoggio dato dalla chiesa ortodossa a Putin, con il viso coperto da maschere colorate diventate ora il simbolo delle manifestazioni pro Pussy Riot.

Per Voltaire, il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Aggiungo io, anche dall’esistenza o meno, sul suo territorio, di strutture di “correzione” attraverso il lavoro che rimandano alle tragiche esperienze dei gulag sovietici, dei laogai cinesi, dei campi di rieducazione cambogiani. D’altronde, “il lavoro rende liberi” era il beffardo biglietto da visita che sovrastava l’ingresso di Auschwitz.

Che le manifestazioni “situazioniste” siano spesso al confine della legge, è risaputo. Che possano costare due anni di lavori forzati è medioevo.

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