Cosa vuoi che sia un salto per un ragazzino di Bagnara, il primo maggio. Erano in due, li ho visti da lontano, mentre passeggiavo sul lungomare, e ho capito subito quello che volevano fare.
Ho cercato di cogliere quell’attimo e mi sembra di esserci riuscito.
Prima di pubblicare la foto ho esitato per diverse ore. Poi mi sono convinto: no, non mi sembra riconoscibile. Inoltre: no, non è un cattivo esempio.
Da piccolo saltavo da muri che sembravano altissimi, mi arrampicavo sugli alberi, guadavo la fiumara, attraversavo la galleria mentre arrivava la littorina. Lo facevo insieme a molti altri ragazzi e siamo tutti qua. Tutti qua, con forse meno libertà.
Ecco, nel volo di questo ragazzino io vedo solo libertà.
E mi commuovo.
La primavera di libri dell’Associazione Terzo Millennio
Con l’organizzazione dell’evento “Primavera dei libri 2014” il Terzo Millennio si conferma realtà associativa particolarmente vivace, di certo quella capace di promuovere il maggior numero di manifestazioni a Sant’Eufemia. Le iniziative estive dell’associazione presieduta da Francesco Luppino costituiscono da oltre quindici anni appuntamenti di successo del cartellone eufemiese: l’escursione naturalistica nel Parco dell’Aspromonte e la rappresentazione teatrale in piazza municipio. Un’attività di valorizzazione del patrimonio culturale, naturalistico e umano del territorio che richiede passione e partecipazione, possibile proprio solo in virtù di una capacità di aggregazione che rappresenta forza e finalità stessa dell’impegno dei soci. Come dimostra l’ambizioso progetto in cantiere per agosto: un musical con protagonisti più di cinquanta attori di tutte le età, già da quattro mesi impegnati nelle prove dello spettacolo. Con tutto quello che ciò comporta – non va dimenticato – in termini di sacrificio e rinunce, per uomini e donne quotidianamente alle prese con problemi di studio, lavoro, famiglia.
L’interesse per i libri ha negli anni consolidato gli appuntamenti con gli autori, le presentazioni di volumi, l’organizzazione di convegni di assoluto livello culturale e scientifico. È questo l’humus in cui è maturata l’idea di dedicare maggio, il mese dei libri, a ben tre incontri letterari cui l’amministrazione comunale darà ospitalità nell’aula consiliare del palazzo municipale. Non si tratterà della “canonica” presentazione di libri, quella per intenderci che prevede lo schema classico di una relazione sul volume, l’intervento conclusivo dell’autore e le eventuali domande del pubblico. Si è preferito dare all’evento un taglio più informale e partecipativo, con i soci protagonisti attivi e non semplici spettatori. Una conversazione aperta al contributo di tutti in una sorta di assemblea con all’ordine del giorno gli input suggeriti dalla lettura dei libri, tutti editi da Città del Sole.
Si inizierà il 3 maggio con Francesco Idotta, docente di Filosofia e Storia presso il liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia, autore del prezioso Il desiderio del camaleonte, nel quale i temi filosofici che da millenni interrogano l’uomo vengono affrontati con una leggerezza stilistica che nasconde bene la complessità e la profondità del pensiero.
Il 17 maggio sarà protagonista la storia, con ospite di prestigio il presidente della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, professore Giuseppe Caridi, il quale colloquierà con il pubblico circa i risultati del suo ultimo lavoro, La Calabria nella storia del Mezzogiorno.
La chiusura della manifestazione, giorno 29, sarà invece affidata a Elisabetta Villaggio, regista e autrice teatrale alle prese, nel romanzo Una vita bizzarra, con la rivisitazione degli anni Settanta in Italia attraverso le vicissitudini delle protagoniste Rosa e Benedetta.
Filosofia, storia e letteratura per tre appuntamenti imperdibili.
Piero Calamandrei: Ora e sempre Resistenza
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue “gravissime” condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che – anzi – gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli… un monumento.
A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide “ad ignominia”, collocata nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista.
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
*Testo introduttivo a cura dell’Anpi
**Casa originale: http://www.partigiano.net/gt/calamandrei_kesserling.asp
L’ultimo sorso
Chissà in quale nascosto cassetto della memoria si trovavano sepolte quelle parole. Emerse all’improvviso dai fondali dei ricordi, come quella foto in bianco e nero tra le lenzuola del corredo da sposa della nonna, gli occhi di suo padre sbarrati per il bagliore del magnesio, nel vecchio baule che raccoglie quel che è rimasto dei suoi ottantadue anni.
Rivedo il sorriso di mio padre ad addolcire il tono secco di un rimprovero che era solamente apprensione per le due bolle spuntate in un attimo su pollice e indice della mia mano destra.
– Ma come fai ad essere così stupido? Come ti è saltato in testa di toccare le dieci lire che coprono il buco del piano cottura della stufa a legna?
E poi quel rimedio antico e improbabile. Ché non ci ho mai creduto potesse realmente essere efficace, ma sono molte le cose in cui non ho mai creduto. Nonostante l’età.
La proprietà disinfettante della pipì sulle escoriazioni, ad esempio. O il prodigio del latte degli scartagnoli per fare crescere le dimensioni dell’uccello. Cose così.
Eccomi allora con le due dita immerse dentro un bicchiere di vino. Quel rosso che nel tempo sarebbe diventato il mio migliore amico. E che ora è accomodato accanto a me, lato passeggero di questa vecchia auto scassata. Lo berrò fino all’ultima goccia, mi servirà.
Che buffo questo ricordo, ora. Nello specchietto retrovisore intravedo un ghigno che riconosco e al quale tento di aggrapparmi, prima di affondare. Nei film è tutto diverso, arrivati a questo punto il protagonista sfodera sempre la battuta memorabile che lo consegnerà alla storia. Che tutti ripeteranno come un mantra.
Io no. Con l’accendino in mano, i vestiti e il sedile inzuppati di benzina risento la voce di mio padre, saltata fuori da quel cassetto che non sapevo: devi averne preso da tua madre!
Non lo so da chi ne ho preso. Non so niente, ormai. Posso solo immaginare il puzzo di bruciato del mio futuro. Il rumore sordo dei sogni franati. Il sapore aspro delle promesse non mantenute. Come un limone che sei costretto a mandare giù, cercando di non fare neanche una smorfia.
Ho portato tutto con me, in questo autodafé finale che è la ragionevole condanna per i miei peccati. Il più grave, la fiducia nella mia forza di volontà e nel mio spirito di adattamento.
Eppure è volato un anno senza lavorare, senza portare un soldo a casa. Un anno di lacrime, quelle di mia moglie. Per le bollette scadute, l’assicurazione della macchina non pagata, lo sguardo scocciato del fruttivendolo, le parole sussurrate dai vicini al mio passaggio veloce a filo di muro, come un topo sfuggente agli occhi.
– Mi spiace, non posso più tenerti. Neanche in nero. Tra un po’ chiudo e mando tutti affanculo, non ha senso andare avanti così.
Spiace anche a me, cazzo. Dopo che ti ho fatto il servo per anni e mai ferie pagate, contributi, malattia. Niente di niente. Per seicento euro al mese. Farei lo stesso lavoro per metà stipendio, ora. Ma non si può, mi dici. E allora sono io a mandare tutti affanculo, anche se mi dispiacerà.
Eccome se mi dispiacerà. Restano sempre troppe cose da fare, troppe parole che non si è avuto il tempo di pronunciare. Troppe pagine di libri da leggere che mi avrebbero consolato, credo.
Un ultimo sorso e si va: l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.
Forse sarà come molti anni fa sul letto di un ospedale. Il fuoco dentro il corpo e la perdita dei sensi, il materasso un buco nero che inghiotte tutto. Fallimenti compresi.
Deve essere proprio così la morte. Una discesa folle aggrappato a un cavallo impazzito.
Prosit.
“Non uccidetelo: è innocente”. Una riflessione
Non commenterò la rappresentazione teatrale “Non uccidetelo: è innocente”. In cuor mio avevo già deciso che sarebbe stato un successo a prescindere da pubblico e consenso; indipendentemente persino dalla sua stessa messa in scena. Anche se la pioggia fosse durata tutta la settimana, costringendo gli organizzatori all’annullamento (non soltanto al rinvio di due giorni), sarebbe stata una vittoria per chi ci ha creduto fin dal primo momento. E non era facile, perché – spiace dirlo – un po’ di ostruzionismo c’è stato, soprattutto all’inizio.
Certo, sono stati tutti bravi, chi più e chi meno. Mimmo Cammareri (Gesù) e Vincenza Carbone (Maria) hanno fatto commuovere una piazza Municipio gremita e muta, ma anche gli altri attori hanno interpretato i rispettivi ruoli con pathos. Il coro polifonico “Cosma Passalacqua” ha confermato di meritare i riconoscimenti ottenuti anche fuori dai confini comunali. Eufemia Costanzo ha dimostrato che in paese probabilmente non c’è nessuno in grado di coinvolgere così tante persone, dal nulla, in un’iniziativa che richiede entusiasmo, impegno e sacrifici. Ripeto, dal nulla, perché questa volta alle sue spalle non c’era nessuna associazione, ma soltanto un estemporaneo gruppo di “giovani e adulti eufemiesi”. Mi rendo conto che questo è un terreno scivoloso, perché parlare di Eufemia Costanzo e Nino Altavilla, mettendo da parte ciò che ci lega da 36 anni, per me non è facile. Quindi, qui mi fermo.
Sulle immancabili piccinerie di paese due parole però vale la pena spenderle. Si sa: i criticoni non mancano mai e se ognuno spera di suscitare apprezzamenti unanimi è meglio che resti a casa a guardare la televisione. E qua occorrere distinguere tra quelli che non hanno mai fatto niente e quelli che, perché qualcosa la fanno, ambirebbero a una sorta di esclusiva. Poiché mi piace essere chiaro, io non credo che una rappresentazione teatrale sulla passione di Cristo possa “danneggiare” la Processione dei Misteri che storicamente si svolge a Sant’Eufemia il Sabato Santo. Né che sia blasfema l’esecuzione, in entrambe le manifestazioni, di una canzone che fa parte della tradizione religiosa di Sant’Eufemia. Né condivido il ragionamento “se partecipi a quella manifestazione non puoi partecipare alla mia”. Con queste logiche il paese non crescerà mai. Con le chiacchiere da comari e le beghe di campanile non si va da nessuna parte.
E allora un applauso va rivolto a tutte queste persone – ed erano un centinaio tra attori, truccatori, costumisti, scenografi, operai – che non erano mai salite su un palco, che nella vita fanno tutto tranne che recitare e che per mesi hanno tenuto accese fino alle due di notte le luci di un quarto piano di palazzo, con tutto l’entusiasmo e l’amore che avevano dentro.
*La fotografia fa parte del servizio pubblicato su Facebook da Toni Condello
Seminatori di bellezza
Restare o partire. Non c’è molto da girarci attorno, il dilemma è sempre quello. Non ci sono più le valigie di cartone, certo. E fortunatamente il progresso tecnologico ci fa sentire a casa anche a 10.000 chilometri di distanza. Un po’ di coraggio serve, però. La stessa dose richiesta per rimanere, del resto. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, ha ricordato la docente di italiano Carmelà Cutrì prendendo a prestito le parole di Cesare Pavese in La luna e i falò. Purché queste non diventino un invito alla diserzione (“tanto da questo posto andrò via”), poiché “non esistono luoghi migliori o peggiori; esistono luoghi in cui i cittadini credono, a cui danno valore, per i quali si spendono e si mettono in gioco”.
Il richiamo a vivere la propria comunità con passione e responsabilità ha fatto da leitmotiv all’evento “Per il nostro bene comune”, realizzato dal Centro Servizi per il Volontariato “Dei due Mari” e dalla due quarte classi del liceo scientifico “Fermi” in collaborazione con l’amministrazione comunale e le associazioni di volontariato “Agape” (Sant’Eufemia) e “Asproverde” (Sinopoli). Maria Grazia Manti, responsabile del settore promozione del Csv, ha spiegato la genesi del progetto, abbozzato già in occasione della premiazione della fotografia presentata nella passata edizione del concorso fotografico “Scatti di valore”: un albero fiorito accompagnato dal messaggio “Considero valore… far fiorire il presente”. È iniziato tutto da quello scatto, hanno spiegato i ragazzi nei loro interventi: uno sguardo fuori dalla finestra e la sensazione di avere anche dei doveri nei confronti del proprio paese, a partire da quello di contribuire ad animare quei potenziali punti di ritrovo che l’incuria rende poco attraenti. Un progetto sviluppato in tre fasi: l’osservazione “con occhi nuovi” della realtà in cui si vive; lo studio di due vicine esperienze di cittadinanza attiva (cooperativa sociale “Felici da matti” e l’associazione di volontariato “Roccella in movimento”); l’incontro a scuola con il sindaco Domenico Creazzo, sottoposto a un forcing di domande sulle problematiche del territorio.
Proprio la sala consiliare del palazzo municipale ha ospitato l’evento conclusivo, con gli studenti protagonisti assoluti e applauditi. I componenti della band impeccabili nell’esecuzione dei brani proposti e le “voci narranti”, che hanno raccontato cosa comporta una visione più profonda della realtà e il senso di responsabilità che ne deriva. Un originalissimo diario di bordo fatto di parole e sentimenti, cui il sindaco Creazzo si è richiamato per invitare i giovani a partecipare alla vita della cittadina con passione, coraggio e responsabilità, doti indispensabili per trasformarsi nei “costruttori di bellezza” invocati nel suo intervento dal presidente del Centro comunitario “Agape” di Reggio Calabria, Mario Nasone.
Ai saluti e ai ringraziamenti del professore Pietro Violi è seguita l’emozionante descrizione delle parole subito dopo “seminate” sul prato della pineta comunale insieme ad alcune piantine, l’esecuzione della canzone “Domani” degli Artisti uniti per l’Abruzzo e la chiusura del direttore del Csv, Giuseppe Pericone.
Petali
Il mio posto è tra il tuo giubbotto e il vento, gli occhi a fissare in alto quel sorriso affaticato che conosco. Che indossi sempre quando hai paura di rivelarti nudo, di essere letto. Decifrato. Punture di freddo sulla faccia, come aghi di pino. E il mare che non fa niente per piacere, avido di sabbia invernale e lattine arrugginite, cocci levigati di vetro verde e mozziconi consunti, falò arsi sotto la luna gigante. Lacrime e parole di esistenze spiaggiate, le nostre.
Essere stanata dal tepore del mio rifugio è un gioco triste che soddisfo con calcolata cura. Mi ritrovo aggrappata ai tuoi pensieri, nuvole in fuga da una quotidianità che ci manca. L’attesa del gorgoglio della moka sul fornello, i nostri volti illuminati a intermittenza su vetrine sorridenti, strade da percorrere a passo lento. Ogni volta che lo desideriamo.
Ti ho cercato pur sapendo di non poterti trovare. L’ho fatto nuovamente. Ma lo dovevo a me stessa. Alla donna che ero, non certo a quella che sono diventata. Improbabile sotto questa maschera che mi dipinge felice in un mondo ideale, a canticchiare sopra la musica che altri suonano per me. Come fosse perfetta sinfonia e non uno sguaiato lamento di olocausto. Lo dovevo alla mia sfrontataggine e allo stupore che ti procurava, sempre. Lo devo all’ostinazione di un finale che reinventiamo di volta in volta, per darci ancora una possibilità.
Anche se non ho mai creduto a quella storia sul perdono, che va bene per il buio di una sala, gli occhi umidi e i singhiozzi soffocati fino al riaccendersi delle luci. Per perdonarti avrei dovuto sopravvivere ai miei fantasmi. Per perdonarti e per poterti ritrovare. Trovarti com’eri prima, intendo.
Mi aggrappo a un sogno solo mio, inseguito di stazione in stazione, senza alla fine crederci più di tanto. Ravvivato da quel poco di ombretto a sfumare che nasconde i miei anni e le tue colpe. Un trucco che amiamo entrambi. E che somiglia alla sapienza delle rondini, si manifesta quando è ora di partire. Loro tornano sotto lo stesso balcone, per ricominciare dalle macerie di un cerchio disegnato. Io mi riannido tra una camicia e una lampo. Lì intravedo l’idea di noi, sbiadita. Come se tutto fosse successo ad altri, non a noi che pure avvertiamo il sapore salato della nostalgia, desiderio di cielo azzurro e sole e calma. Di auto parcheggiate e corpi sudati. Di corse a inseguire la libertà. Di notti incollati a due cornette. Di incoscienza che era coraggio.
Ora vado, non provare a trattenermi. Tanto lo sai che tornerò. Coloriamo parentesi con la cocciutaggine dei bimbi piegati sul foglio, l’avambraccio sdraiato per non fare copiare il compagno che pressa accanto per sbirciare. La promessa del ritorno è l’unica certezza che possiamo permetterci, l’illusione di una vittoria assurda. Abbiamo vinto perdendo, come petali che resistono, soffiati altrove.
Per il nostro bene… comune
Di seguito il comunicato stampa del Centro Servizi per il Volontariato e del Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che pubblico volentieri e con l’invito alla più ampia divulgazione.
Sabato tutti in pineta!
“Per il nostro bene… comune”
Evento di animazione e cittadinanzattiva a cura degli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC)
È questo il titolo dell’evento che, sabato 5 aprile a partire dalle ore 10.00 presso la Pineta Comunale, vedrà gli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico di Sant’Eufemia d’Aspromonte mettere in gioco valori, entusiasmo, energie e talenti per animare e dare vita ad un luogo che rappresenta un bene comune per tutta la cittadinanza.
L’iniziativa vuole essere un momento di sintesi e di condivisione di una micro-azione sperimentale promossa dal Centro Servizi al Volontariato di Reggio Calabria in collaborazione con la Dirigenza e lo staff-Docenti del Liceo aspromontano nell’ambito del più ampio ed ormai consolidato progetto di promozione del volontariato giovanile denominato “Scatti di Valore”.
“Per il nostro bene… comune”, infatti, è il risultato di un percorso ideato e sviluppato dal CSV su impulso degli stessi studenti e docenti di Sant’Eufemia, nato per promuovere consapevolezza circa le potenzialità materiali ed immateriali del territorio nonché per testimoniare un modo nuovo di abitare i luoghi e di prendersene cura, contribuendo così allo sviluppo dei territori ed all’accrescimento del ben-essere delle comunità, a partire proprio dalla capacità di mobilitazione delle nuove generazioni.
L’evento, affermando valori e rafforzando legami, vuole essere anche l’occasione per incentivare processi collettivi di partecipazione, cittadinanza responsabile ed impegno civile nelle comunità di Sant’Eufemia e della vicina Sinopoli.
Dopo i saluti istituzionali, protagonisti assoluti saranno i giovani studenti: il programma prevede infatti un prologo musicale a cura della band del Liceo e, subito dopo, uno speciale “Racconto di viaggio” durante il quale i ragazzi narreranno a più voci il percorso che ha portato a questa giornata, le emozioni vissute, le scoperte fatte e le cose imparate durante il cammino, nonché gli spunti e le idee per progettare il domani.
A seguire, gli studenti daranno vita ad un reading per presentare i valori che, alla luce del percorso fatto, desiderano seminare e che si impegnano a coltivare attraverso azioni concrete, con l’aiuto delle associazioni di volontariato, delle istituzioni e di tutta la comunità.
E proprio per simboleggiare questo desiderio di impegnarsi a far fiorire l’oggi ed il domani dei luoghi in cui vivono, i ragazzi pianteranno in tutta la Pineta valori e fiori: un momento evocativo e simbolico a suggello del percorso fatto e raccontato, un momento al quale tutta la comunità è invitata a partecipare.
Con Reggio è un blues a Bagnara
Per chi non c’era, il testo del mio intervento alla presentazione del libro di Antonio Calabrò, Reggio è un blues, presso la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, a Bagnara Calabra. La foto è tratta dal profilo facebook di Ginevra Hepburn
Ho incrociato Antonio Calabrò sei mesi fa, grazie alla sua rassegna “Calabria d’Autore”, un’iniziativa culturale di successo portata avanti in collaborazione con l’Associazione “Incontriamoci Sempre” di Reggio Calabria in quello splendido gioiellino che è la stazione ferroviaria di Santa Caterina: una struttura abbandonata che l’Associazione presieduta da Pino Strati ormai da anni ha restituito alla collettività, rendendola uno dei luoghi culturalmente più vivaci di Reggio.
Antonio Calabrò è tante cose, tutte molto intriganti: scrittore, giornalista di punta del giornale online ZoomSud, simpatico cultore di quella musica che sembra arrivare dal mare e che lui raccoglie e rilancia dal suo “Balcone sullo Stretto”. Ma anche agitatore culturale, un vulcano di idee che si traducono in iniziative di riconosciuta qualità. Calabrò rappresenta uno dei tanti volti belli di quella Reggio che egli stesso definisce “bella e dannata”.
Conoscevo già, invece, Salvatore Bellantone. Avevamo avuto un “contatto” un paio d’anni fa e la cosa che mi colpì nel nostro primo incontro furono le sue parole: “voglio fare l’editore, qui”. Nel mondo della piccola editoria, è un’affermazione molto coraggiosa, perché spesso si finisce con il diventare semplici stampatori.
Bellantone invece ha coraggio e talento. E quindi fa l’editore, qui: legge quello che gli propongono o che lui stesso intuisce possa essere meritevole di essere divulgato e se la sua valutazione è positiva, pubblica. I volumi di “Disoblio” sono l’esito finale di un’operazione editoriale molto attenta ai contenuti, che devono coincidere con la “mission” di questa giovane casa editrice: valorizzare le energie e le risorse locali, portare alla luce quel patrimonio culturale del territorio che va ricercato con pazienza certosina. Perché esiste, Bellantone lo sa, però va cercato con quella lanterna che è il simbolo di “Disoblio” e che, in fondo, fa svolgere alla casa editrice la stessa funzione etica delle biblioteche in Marguerite Yourcenar: granai nei quali vengono ammassate le riserve contro “l’inverno dello spirito”. Un’attività che è culturale e sociale. E che pertanto va incoraggiata e sostenuta.
“Reggio è un blues”, quindi. Calabrò aveva già avuto modo di farsi apprezzare nel 2005 con Johnny Rolling. Una gioventù di musica, battaglie e amori nella Calabria degli anni ’70, un libro sulle passioni e sulle contraddizioni della generazione post-sessantottina; e nel 2010 con Un libro ci salverà, un titolo che ci dice molto sulla vera natura di Antonio Calabrò. Un ottimista irriducibile: anche quando la realtà che racconta è amara e dolorosa, Calabrò concede uno spiraglio alla speranza, alla convinzione che la strada del bello esiste e che spetta a noi cercarla e percorrerla.
Calabrò è giornalista e scrittore. La tempestività è quella del cronista di strada. Leggendo ZoomSud a volte mi chiedo: “ma come ha fatto a scrivere già un pezzo su quell’avvenimento, se si sa qualcosa da neanche un’ora?”. Antenne dritte, fiuto e penna fluida. Queste sono le doti dei grandi giornalisti. Che, ovviamente, non inficiano il giudizio sullo “scrittore”: semmai, ne arricchiscono il profilo. Perché è anche vero che Calabrò “narra” la realtà che lo circonda mettendoci tutto se stesso. Il suo non è mai un racconto asettico. La passione trasuda da ogni parola utilizzata per raccontare storie e drammi di questa martoriata e splendida città che è Reggio. Una città sempre in bilico tra salvezza e dannazione, che Calabrò racconta senza farsi prendere la mano né dalla retorica indulgente e fatua, né dal qualunquismo parolaio di chi è bravo soltanto a criticare senza mai sporcarsi le mani per migliorare la società in cui vive. Una scrittura “impegnata”, quindi, perché le parole non sono involucri vuoti, ma lo scrigno di emozioni e sentimenti che vanno tradotti in energia positiva.
Da attento osservatore, Calabrò rileva le storture, le contraddizioni, i difetti della sua città. È proprio dalla constatazione di ciò che rende Reggio brutta e invivibile che occorre ripartire: gli scempi ambientali, il malaffare, la ’ndrangheta. Ma anche dalla deriva etica di una società che sembra avere smarrito la bussola dei vecchi e sani valori. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve. Ecco perché i racconti di Calabrò sono un costante invito alla responsabilità. Senza una collettiva assunzione di responsabilità, ogni sforzo si rivelerebbe inutile.
La denuncia si accompagna quindi alla proposizione di esempi di bellezza pescati nell’attualità o nel passato della storia della città. Il ricordo diventa resistenza, ribellione e speranza. Anche quando racconta il disastro materiale e morale di Reggio, l’autore lo fa offrendo la possibilità di un’altra città. Non tutto è perduto, ma solo se ci rendiamo conto di ciò che siamo diventati possiamo darci un orizzonte di speranza e confidare in un futuro migliore.
Calabrò utilizza diversi registri di scrittura: l’arma sottile dell’ironia, quella romantica della nostalgia per i bei tempi andati, quella asciutta della fedeltà a una rappresentazione mai edulcorata. La sua sensibilità è attratta da storie dimenticate che hanno spesso come protagonisti i “vinti”: storie che racconta con “compassione”, che è la capacità di “patire con”, di sentire cioè sulla propria pelle la sofferenza altrui. Il dramma delle vite stentate degli ultimi, la crisi economica e quella etica del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo.
Come un vecchio menestrello Calabrò racconta storie ascoltate chissà dove e chissà quando. Il suo rapporto con Reggio Calabria rimanda a quello tra Jorge Luis Borges e Buenos Aires, alla profondità e alla magia di un’affermazione ripresa da Leonardo Sciascia in riferimento alla sua amata Racalmuto: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”.
Storie dimenticate e una città che purtroppo non esiste più. La Reggio non ancora violentata da una cementificazione selvaggia; la Reggio non ancora umiliata da due terrificanti guerre di ’ndrangheta; la Reggio non ancora saccheggiata da una classe dirigente inadeguata e truffaldina, la Reggio dei mestieri; la Reggio dei “rioni”: il “Pescatori”, il “Ferrovieri”, il confine geografico del Calopinace, sorta di “via Emilia” nell’accezione gucciniana di limite estremo nella Modena del secondo dopoguerra, al di là del quale c’era il “West”.
Ricomporre le tessere di questo antico mosaico non è ginnastica per la mente, bensì corrisponde ad un maturo impegno civile. Nella ossessiva ricerca di conferme di un passato diverso da questo triste presente emerge il tema principale dei racconti di Calabrò: l’amore incondizionato per la propria città, che l’autore dichiara senza giri di parole: “è la potenza dell’amore che mi spinge a criticare Reggio e perfino ad odiarla”.
Perché amare non significa coprirsi gli occhi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino; significa grattare il passato per togliere la polvere dell’oblio da avvenimenti e persone, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche.
Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è soprattutto un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.
Un riscatto nel quale Antonio Calabrò, nonostante tutto, continua a credere. E noi con lui.
Reggio è un blues… a Bagnara
Antonio Calabrò e Salvatore Bellantone hanno voluto farmi questo bel regalo, che ho accettato con molto piacere. E quindi sabato 29 marzo, a partire dalle ore 19:00, avrò l’onore di presentare a Bagnara l’ultimo libro di Calabrò, Reggio è un blues (Disoblio Edizioni).
Insieme all’autore e all’editore, ci ritroveremo presso la sede della Società operaia di mutuo soccorso, in via Antonio De Leo, con Mimma Garoffolo (presidente della Soms di Bagnara), Giuseppe Spoleti (assessore alla Cultura di Bagnara), Domenico Canale e Rodolfo Megale, i due musicisti che daranno all’evento quel tocco di originalità che da dicembre contraddistingue la tournée di presentazione del libro.
