Il mio 2014

Non amo particolarmente i bilanci. Sanno di pannelli didattici di alcune mostre, che li leggi e cerchi di comprendere vicende e protagonisti, anche se è difficile riuscire a spiegare tutto in un paio di righe. Lo spazio a disposizione è limitato, la sintesi della didascalia dice e non dice, perché è risaputo che il diavolo si nasconde in dettagli impossibili da riportare in poche righe. Il punto di vista, poi, rimane sempre quello di chi scrive, anche se la storia è il “piatto di grano” e le mani ignote che l’hanno raccolto prima che diventasse immagine o parole cantate sbadatamente, senza prestare molta attenzione.
Fa bene chi specifica “bilancio personale”: per farne uno completo, “obiettivo”, occorrerebbe scomodare le centinaia di persone che hanno condiviso con noi gli attimi lenti e quelli veloci dell’anno appena concluso. Chiedere a loro della nostra vita. A loro che ci hanno visto vivere.
La realtà è fluida, difficilmente si lascia intrappolare in un giudizio che puoi tenere in tasca come il portachiavi da tirare fuori davanti al portone. Siamo talmente impegnati a viverla che a volte diventa dura riuscire anche a comprenderla.

Non si può tirare una riga verticale sulla pagina del 2014, mettere a sinistra le cose negative e a destra quelle positive, richiudere il foglio, riporlo nel cassetto degli anni andati e ripartire.
Quindi non farò un bilancio. Non proverò a mettere ogni cosa al suo posto, un gioco che non conosco perché so che domani potrei essere chiamato a rivedere tutto, a segnare di qua ciò che avevo collocato di là. Il presente è fatto di emozioni che nessuna tabella può contenere per sempre. Non esistono avvenimenti memorabili o da dimenticare; siamo esistiti noi in quel preciso istante, noi che già mentre leggiamo potremmo essere cambiati e provare emozioni nuove, diverse.
Esistono invece stati d’animo da difendere gelosamente, fatti di benessere interiore e coscienza a posto. Di qualche sorriso, anche. Ricevuto, donato. Di tante belle persone incontrate, con le quali è stato bello condividere parole e sentimenti, riconoscersi.

Credo in ciò che posso toccare con le mani e vedere con gli occhi. Credo nell’impegno quotidiano che pur non avendo riscontri immediati è acqua che disseta e sole che riscalda. Ognuno di noi ha impegni da onorare e responsabilità più o meno gravose. Individualmente, nelle famiglie e nella società. Il principio è giocarsi anche “l’ultimo frammento di cuore”, se si pensa che ne valga la pena. E pazienza se a volte ci si scontra con incomprensioni assurde. Pazienza se qualcuno vuole per forza scorgere nell’attività dell’altro chissà quale secondo fine; se confonde la lealtà per sudditanza; se pensa che la propria pur legittima ambizione personale possa passare come un rullo compressore sulla dignità altrui, senza innescare meccanismi istintivi di autodifesa.
È stato l’anno in cui come mai in passato sono stato a un passo dall’andare, ma dopo un paio di notti insonni ho deciso ancora una volta di restare, testardamente e convintamente.

È stato un anno che ho vissuto come ho potuto e come ho voluto, dando tutto ciò che avevo da dare. Senza rimpianti.
E quindi va bene così.

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Il Natale di solidarietà dell’Agape

Siamo contenti perché quest’anno siamo riusciti a coinvolgere nuove energie, com’era già capitato nella colonia estiva. Sabato 20 abbiamo effettuato, a gruppi, una ventina di visite domiciliari ad anziani soli o ammalati: abbiamo parlato con loro, soprattutto abbiamo ascoltato (che è la cosa che più fa piacere a chi passa da solo gran parte della sua giornata), quindi abbiamo consegnato un pensierino natalizio, che nel pomeriggio abbiamo portato anche agli ospiti della Residenza Sanitaria per Anziani “A. Messina”.

Martedì 23 ci siamo stancati e divertiti (in ogni caso più divertiti che stancati) con la “tombolata di beneficenza”: un’iniziativa molto importante per noi perché di autofinanziamento per le attività dell’associazione. La sala del ristorante “Le Macine” era pienissima e quindi siamo molto soddisfatti. Grazie a chi c’è stato e grazie a chi non c’era ma è stato lo stesso con noi e con i ragazzi che ogni anno partecipano alla colonia estiva per disabili, per lo più realizzata proprio con il ricavato della tombolata.

Mercoledì 24 abbiamo infine diviso tra due famiglie in difficoltà del paese il carrello della spesa che i nostri generosi concittadini avevano riempito nei giorni precedenti presso il Market Verdeblu.

Vorremmo fare di più, ma sappiamo di avere fatto quello che andava fatto, con le risorse che abbiamo e con l’amore che sappiamo.

Grazie a tutti

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Natale sarà

Fino a quando non ci metti piede dentro senti di essere ancora un uomo. Un uomo con la sua dignità di uomo dallo sguardo fiero e dritto. Acciaccato, ma uomo. Nonostante i colletti delle camicie graffiati dalla barba, i tacchi di gomma deformati sul bordo esterno, la tasca posteriore dei pantaloni bucata perché il portafogli si sistema sempre di traverso ed è una partita senza storia quella tra lo spigolo di finta pelle e l’angolo di stoffa nei pressi della cucitura.

Varchi quella soglia e sei un fallito. Per sempre.

Mi sono fatto forza e sono entrato. Di fretta, quasi col fiatone e con le parole che martellavano al centro del petto. Non è stato affatto semplice, no. Orgoglio, forse vergogna. Chissà che aspetto avevo mentre casualmente giravo intorno all’isolato. Avanti e indietro per un paio di giorni, aspettando che la città si distraesse. Che non badasse a me e al colletto della mia camicia spelacchiato. Con tutte le lucine che le facevano l’occhiolino, perché sembrava interessata soltanto alla mia andatura rassegnata, a questo sguardo che punta e non guarda?

Non la ricordo neanche la scritta dell’insegna. I colori, sì. Nero e giallo come la divisa del Borussia Dortmund, quelli del 3-1 alla Juve nella finale di Champions 1997. Sfondo nero e scritta gialla, a caratteri cubitali: COMPRO ORO. Sotto, qualcosa che si riferiva al pagamento: “in contanti”, “immediato”, o giù di lì.

Nel periodo di Natale la quotazione dell’oro dovrebbe salire, è bene approfittare di quei giorni per concludere un buon affare.

Credo di averla ascoltata da qualche parte questa dritta, qualcuno deve avermela soffiata come rimedio da adottare in caso di emergenza. Che puntualmente è arrivata.

Non avevo altra scelta, con il piano di rateizzazione per il pagamento della bolletta appeso all’albero come una pallina. Va bene l’affitto scaduto da mesi e mesi, bontà del proprietario della mia abitazione, ma il taglio della corrente no. Inizierò a pagare alla fine di gennaio, quattro rate mensili. Nel frattempo arriverà il primo trimestre del prossimo anno, ma che importa. Non sono nella condizione di pensare a cosa potrà accadere da qui a quattro mesi. Non so neppure se sarò ancora vivo, tra quattro mesi.

Ricordo però il sorriso dell’uomo dell’oro. Uguale a quello del mio medico da bambino, quando tentava di farmi ingoiare l’antibiotico:

È uno sciroppo buonissimo. Dolce. Non è vero che è amaro. Lo bevono tutti i bimbi che vogliono diventare imbattibili nella corsa.

Quel sorriso che non riesce affatto a nascondere il trucco. Che sa di fregatura lontano un miglio. Però non mi ha chiesto nemmeno la carta d’identità, una cortesia inconsueta che ho apprezzato. È stato come andare da una puttana senza essere riconosciuto da nessuno. Tutto sommato, va bene così.

La bilancia elettronica è stata feroce: 22 grammi. E sì che avevo rovesciato sul bancone i miei quarant’anni tradotti in oro. Battesimo, comunione, anniversari e altri eventi meritevoli di gioielli insignificanti che mai ho indossato. Non abbiamo idea di quanta vita possa contenere un sacchetto di carta per le caramelle. Pazienza se equivale a otto banconote da 50 euro e due da 20. Quel che conta è che Babbo Natale arriverà anche per i miei figli. Ci concederemo un pranzo diverso da quello striminzito che ogni tanto attendo tra un clochard e un indiano, in fila alla mensa della Caritas. Stapperemo anche lo spumante, se spumante può contenere una bottiglia prezzata 99 centesimi.
E sarà Natale anche per noi.

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Il resoconto della presentazione di Minita, a cura di Disoblio Edizioni

Il resoconto della presentazione del libro, a cura di Disoblio Edizioni.

(Per la casa originale, cliccare al seguente link: https://www.messagginellabottiglia.it/2014/12/santeufemia-daspromonte-presentato-il.html)

Si è svolta sabato 13 dicembre, presso la Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). Alla presentazione, moderata da Carmela Cutrì (Docente di Lettere presso il Liceo Scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte), sono intervenuti: Carmelo Pirrotta (Assessore alla Cultura di Sant’Eufemia d’Aspromonte), Fabio Cuzzola/Lou Palanca (Scrittore), Salvatore Bellantone (Editore), Domenico Forgione (Autore del Libro).

Carmela Cutrì ha introdotto i lavori, ricalcando come Domenico Forgione sia uno scrittore multiforme che propone in maniera avvincente una serie di racconti dotati di grande sensibilità umana. Il suo stile narrativo ricorda molto Umberto Saba, perché mette in evidenza le figure al margine della società. Come lo definisce Antonio Calabrò nella sua prefazione, l’autore è un artista del sentimento e un artigiano della speranza.

Carmelo Pirrotta ha spiegato l’importanza della presentazione di Minita per la città di Sant’Eufemia d’Aspromonte perché con questo libro Domenico Forgione ci arricchisce tutti, evidenziando come non possa esserci crescita alcuna se non attraverso la cultura e la lettura. Il suo libro sottolinea come il cambiamento provienga da ognuno di noi, con la consapevolezza di trasmettere ai più giovani dei modelli di vita sana.

Fabio Cuzzola/Lou Palanca ha spiegato come il libro di Domenico Forgione metta in risalto un nuovo genere letterario proveniente dal mondo della blogosfera e poi diventato un libro vero e proprio. Come dice Deleuze, occorre parlare al mondo e del mondo dal microcosmo da cui si proviene, senza mai dimenticare il luogo da cui si parla. La forza di Domenico Forgione è proprio questo, l’approccio meticcio alla globalità e al linguaggio. Come Anteo, l’autore è un gigante ben radicato nella propria terra, anche da un punto di vista etico, soltanto che gli dèi lo guardano solo. Parla dei vinti, dei semplici, di coloro che sembra non facciano storia invece ne sono i tasselli essenziali. Minita è un libro di resistenza contro tutte le oppressioni e un libro di radicamento alla propria terra.

Salvatore Bellantone ha chiarito come Domenico Forgione sia uno scrittore poliedrico. Come un arcobaleno, dentro di sé ha tanti di quei colori che rendono bella la sua scrittura, capace di raccontare qualsiasi cosa. Minita narra una grande trasformazione, da una vita a un’altra, in direzione di una chiara visione delle cose, nella quale tutto sarebbe diverso se ognuno di noi facesse la sua piccola parte. Il libro propone un viaggio alla scoperta della propria vera identità, coincidente con l’urgenza di non essere più così come il sistema impone con le sue mode, ideali e reali, e con i suoi strumenti di controllo e di manipolazione. Tale ritrovamento consiste nel recupero della coscienza e dello sguardo sul mondo proveniente dalla realtà in cui si è cresciuti, senza le macchie della società dei consumi, della fretta e del capitalismo. Minita è un libro di resistenza, di ribellione a tutti gli schemi manipolanti imposti dall’alto e a tutti i costumi degenerati della nostra società. Impone la fermata del tempo del potere e dell’economia, e l’accesso a un diverso tempo nel quale c’è ancora la propria unicità.

Domenico Forgione ha chiarito come Minita sia il libro più sofferto che ha scritto, perché parla di lui senza veli. Molti degli scritti presenti nel libro provengono dal blog “Messaggi nella bottiglia”, e contiene svariati racconti: giornalistici, di storia grande e piccole storie, di personaggi locali. Il libro racconta il mio ritorno a quello che ero. È un mix di cultura alta e bassa, di ironia e dramma. Ho voluto trattare dei sentimenti umani, lasciando al lettore la libertà di farsi un’idea e di ricercare le proprie citazioni che riempiono il proprio mondo. Come direbbe De André, “in ognuno brilla una goccia di splendore”. Occorre abituarsi a vedere le cose e le persone nella loro giusta dimensione ma ciò è possibile cominciando a fare qualcosa per gli altri ogni giorno. È questa la rivoluzione di cui necessitiamo, tornare al buon senso e alla responsabilità.

Accesa infine la lanterna della Disoblio, Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata irradiata dalla luce della conoscenza, un bagliore nella notte portatore di una diversa visione delle cose, incentrata nella convivenza e nella condivisione.

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Minita in libreria

Minita è stato il primo post che ho pubblicato sul blog, più di quattro anni fa. Oggi è diventato il titolo di un libro.

 

“Nei momenti di difficoltà ho sempre avuto l’abitudine – quasi un riflesso – di ascoltare canzoni che so a memoria e di scrivere. È stato per me naturale provare a riempire la sensazione di vuoto allo stomaco continuando a “tenermi impegnato” con quello che avevo sempre fatto: un po’ per pigrizia, un po’ perché Massimo Troisi aveva ragione ad obiettare che non se la sentiva di ricominciare da zero, sentendo in cuor suo che due o tre cose discrete nella vita le aveva comunque fatte. E anche se così non fosse, dedicarsi a ciò che procura serenità indubbiamente rappresenta per lo spirito un efficace ricostituente”.

[Dalla premessa]

“Il libro scorre veloce: l’ironia garbata, a volte pungente, invita al sorriso. La malinconia a tratti lacera, ma diventa piacevole nella speranza di un ricordo. Ricordando spera, e sperando ama; cesella distanze che sembrano infinite, unisce due rette con uno scherzo ben riuscito, colora ogni spazio bianco e diluisce quelli neri con una scolorina lirica frutto del suo ingegno.
Non appiattisce, anzi rimarca le differenze: si limita a svelare i trucchi disneyani di un mondo voluto a forza manicheo; suggella le enormi differenze tra gli uomini, tra tutti gli uomini, intingendo direttamente la penna nel suo cuore messo a nudo: non ci sono buoni e cattivi, ci sono fatti, circostanze, e persone che si trovano nella mischia, a volte senza neanche uno scudo per difendersi. La realtà è così complessa che vale la pena di essere vissuta, canticchiando Because The Night e gustando U Mangiari i San Giuseppi”.

[Dalla prefazione di Antonio Calabrò]

“E allora vedremo la bellezza di ieri, i personaggi semplici di paese, i maestri di scuola e i genitori di una volta, gli insegnanti di vita, le amicizie, i giochi, la centralità dello studio e della formazione politica; le comunità preoccupate per il destino dell’altro, gente affamata e povera, racconti di guerra, di emigrazione, di morte sul lavoro, personaggi illustri, mastri e tipi divertenti; e anche esempi di solidarietà, di condivisione, di amicizia nella disabilità, storie di bufale, leggende ed episodi fatali.
[…] Diventando Minita, Domenico Forgione non scappa via dalla nostra terra “perché sa dove andare”. Il suo compito è raccontare “i colori da dietro”, da altri punti di vista; è dire alla gente che “basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie”; è indicarle la necessità di imparare a convivere con la ragione dell’altro”.

[Dalla postfazione di Salvatore Bellantone]

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Chi non vota e chi fa l’alba al seggio

Un paio di considerazioni – mi auguro – non banali sul dato della diserzione dalle urne, costantemente in crescita e confermato anche in questa tornata elettorale.
Votare nella sola giornata di domenica non aiuta. Ragioni di spending review, si motiva. Ma a forza di tagliare anche la possibilità di esercitare i propri diritti, alla fine resterà ben poco.
Disaffezione degli elettori, sempre più delusi dalla politica, ormai rassegnati al declino che comunque fa il suo corso, nonostante i politici. O forse proprio per causa loro. Può darsi.

Rabbia generalizzata contro tutto ciò che “puzza” di casta, privilegi, furberie, arricchimento personale a discapito del bene comune. Gli esempi non mancano. Se possibilità di salvezza può esistere, si conclude, è fatica sprecata cercarla in soggetti che si scannano per una poltrona. I canali da attivare sono altri, fuori dalla politica, nella strada e nell’impegno quotidiano per un mondo migliore.
Non è semplice contestare questo genere di considerazioni. Aggiungerei anche un altro elemento, non trascurabile: il disastro del Movimento Cinque Stelle, la formazione di Grillo e Casaleggio che era riuscita a intercettare lo scontento verso la classe politica dandogli “dignità” istituzionale, in forme spesso rozze e populiste, ma che ha finito per gettare nel cassonetto dei rifiuti il biglietto vincente della lotteria rivelandosi, in definitiva, forza politica inconcludente, velleitaria, autoreferenziale.

A mio avviso sono due i fattori che concorrono al dato spaventoso e preoccupante (checché ne pensi Renzi) dell’astensionismo: lo sbandamento dei partiti di destra e il fallimento del Movimento Cinque Stelle. Insomma, la “colpa” è di chi non va a votare, non di chi si reca alle urne. Ecco perché non è corretto sminuire la vittoria del centrosinistra. Chi vuole vincere deve essere in grado di avanzare una proposta politica credibile, cosa che evidentemente il centrodestra non è al momento capace di fare, intrappolato sotto le macerie del post-berlusconismo in Italia e del post-scopellitismo in Calabria, e pertanto propenso alla diserzione o al tentativo trasformistico e opportunistico di saltare sul carro del vincitore.
A maggior ragione sarebbe auspicabile il recupero dell’umiltà della militanza politica. Quella che dava, non chiedeva e neanche si aspettava. Si militava per un ideale, perché ognuno si sentiva il granello di sabbia che avrebbe inceppato la macchina del potere. I partiti sono indispensabili cinghie di trasmissione tra la società e i luoghi decisionali, strumenti di mediazione e composizione degli interessi collettivi dai quali non si può prescindere se non si vuole tornare al conflitto permanente dello stato di natura hobbesiano.
Sono stato al seggio dalle 6.45 di domenica all’alba di lunedì e conserverò l’immagine di due ottuagenari come monito da tirare fuori quando lo sconforto cercherà di prevalere sull’etica dell’impegno. Il primo fotogramma contiene un’esile figura appoggiata per tutta la durata dello spoglio alla transenna che separava il pubblico dal seggio, da dove mi lanciava occhiate di complicità ogni volta che dall’urna veniva estratta una preferenza per il nostro candidato. Il secondo, il passo lentissimo e sofferto di un compagno storico che ha impiegato 45 minuti per scendere dalla macchina, percorrere con l’aiuto di una stampella il lungo corridoio che portava al seggio, votare e fare il tragitto di ritorno.
Anche per loro occorre andare a votare, sempre. Perché c’è stata una notte buia in cui i nostri nonni non hanno potuto godere di questo e di molti altri diritti.

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Il gobbo della Matrice

Conviveteci voi, se ne siete capaci, con una gobba che vi deforma il corpo e lo spirito. Con il disprezzo della gente, ché jimbu e zoppia non possono non avere a che fare con i peccati di qualche impresentabile antenato e, quindi, ben vi sta. Non ascoltate Ezechiele. Geremia avverte che le colpe dei padri ricadono sui figli, perché qualcuno deve pur pagare: nessuno pensi di riuscire a farla franca. Ve lo fa credere anche il prete, lo so, sfogliando la margherita del librone che sistemo già aperto alla pagina che ascoltate in un silenzio gelido. Voi non sapete leggere, io sì. A fatica, ma quel tanto che mi basta per capire che le parole vanno interpretate e che chi le interpreta è l’unico vero Dio.
Don Saverio mi prese con sé, per rispetto del sangiovanni che aveva con mio nonno: un modo per dare a uno sgorbio un ruolo nella società affidandogli il compito di accendere e spegnere le candele, togliere la cera bruciata, annunciare con lo sguardo l’inizio della messa. Insomma, ho imparato a cantilenare brani arcani proprio grazie a questo panetto da mezzo chilo che mi ritrovo piantato sulla scapola, a incurvarla. Altrimenti sarei rimasto un cafone come voi, schiavo di gnuri che a stento vi riconoscono il diritto di mangiare, quando arriva il momento di spartire con loro il raccolto di ciò che voi avete seminato. Che fra voi e il mulo con cui condividete sforzo e fame e freddo non fanno differenza. Che si scopano le vostre mogli e le vostre figlie perché qua, in questo inizio di Novecento, è ancora e sempre tutta roba loro.
Quando faccio tintinnare il campanello e vi lasciate cadere sulle ginocchia, a questo pensate, alla pena che certamente state scontando sulla terra, che vi varrà – sperate – una carezza sul prezzo finale: perdona, Signore, i miei peccati e quelli dei miei cari. Lo leggo sulle vostre labbra tremanti per gli spifferi e per la paura dell’inferno che potrebbe toccarvi in sorte.

La vostra ripugnanza è il carburante della mia abiezione. La vomito sui ragazzi che si prendono gioco di me, quando riesco ad acciuffarne qualcuno e lo rimando dai genitori pestato per bene. Come il chierichetto cui dovettero staccare la tavoletta chiodata che rabbiosamente gli avevo conficcato nella coscia mentre cercava di tuffarsi fuori dalla sagrestia.

A risalire controcorrente il sangue del mio sangue, dicevo, bisogna perciò imbattersi per forza in un nonno assassino o in una zia puttana. Un ubriacone che per un bicchiere di vino negato al tocco avrà chiamato fuori dalla cantina il cornuto che ha osato tanto, per poi lasciarlo dentro la conetta della strada, riverso sulle sue stesse luride viscere. Una zitellona indifferente al sudore stantio di corpi sfatti dalla fatica e dall’alcol, perché il denaro non fete se la pancia reclama un boccone. La ragione di una punizione divina così appariscente va ricercata in altre vite, mi pare ovvio.
Eppure sono salvo, mentre tutto intorno a me continua a crollare. Il flagello di questo finale d’anno è per voi che avreste banchettato con il poco che custodite nelle credenze di povere baracche, cicatrice ancora fresca di un’altra recente punizione divina. Perché la mia pena è dietro alle mie spalle, non davanti ai miei occhi. Non avrei certo festeggiato, io. Non ne ho motivo. Avrei invece agognato il mattino, per incontrare volti da scrutare e non salutare.
Ne sto incrociando molti, stamattina. Stravolti, impolverati, incrostati di sangue rappreso. Mi aggiro tra le rovine e le vittime che – dicono – sono più di cinquecento, forse mille. Non provo pietà per il dolore e per le lacrime che rendono vive queste strade morte. Come se l’orrore di questo 28 dicembre 1908 fosse la mia rivincita, una vittoria finalmente: la bruttezza ci salverà.

La bruttezza ti salverà. Non tanto il grido d’aiuto che solo io ho raccolto – di certo non possono ascoltarlo le vite che saranno e che attendono le tue mani per affacciarsi al mondo – e che ha portato il mio passo claudicante davanti al cumulo di macerie che ti sta seppellendo viva. Ti tirerò fuori solo se accetterai di sposarmi.
Tocca a te decidere.

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La giustificazione

Ieri mi è stato fatto notare che da un po’ di tempo aggiorno il blog con minore frequenza. Poiché ci tengo alla reputazione di questo mio alter ego, non mi rimane che prendere metaforicamente in mano carta e penna e provare a giustificare la mia “latitanza”. In effetti, sì: è un periodo di bonaccia. Capita, anche perché il 2014 sembra una gara di fondo e forse ho bisogno di recuperare le energie necessarie per affrontare al meglio lo sprint finale. Mi servirà perché sarebbe davvero un peccato restare senza benzina in corpo sul più bello.
Ma non è solo questo. Direbbe Paolo Conte che “è tutto un complesso di cose”. Ad esempio l’impegno con il Partito Democratico, del quale mi onoro di essere segretario cittadino in una situazione locale oggi “difficile”. Perché c’è la maledetta abitudine di trasportare sul piano personale vicende che sono politiche, complicando situazioni che sono molto più semplici di ciò che si vuole strumentalmente far credere. Ad ogni modo, il 23 novembre diremo la nostra, con la consapevolezza di chi sa di dover lottare contro un assessore regionale uscente, un’intera amministrazione comunale e un ex sindaco. Qualche amarezza personale ha ovviamente lasciato strascichi e provocato contraccolpi che probabilmente hanno influito sulla prolificità del blog. Ecco, di questo mi dispiace. Per il blog, ovviamente. Il resto va come deve andare: ho le spalle abbastanza larghe e conosco il mondo con i suoi volubili protagonisti.
C’è poi la riflessione sul destino dei blog in generale. Da anni si dibatte infatti sulla loro “crisi”, provocata dall’irruzione dei social network nel mondo della comunicazione. Qualche sera fa ne discutevo – in un’atmosfera quasi goliardica attorno a un’ottima bottiglia di rosso – con Salvatore Bellantone e Fabio Cuzzola. Non sarebbe male riuscire ad organizzare un evento e coinvolgere altri blogger sul tema del futuro della comunicazione online (portando anche il vino, perché no): tra i primi che mi vengono in mente, Mara Rechichi, Tiziana Calabrò, Pasqualino Placanica e Antonio Calabrò, con i quali ci “seguiamo” a vicenda. Insomma, se ci siete, battete un colpo.

A completamento delle considerazioni sulla ragione della parsimonia dei miei interventi – e rovesciando altresì il celebre adagio in cauda venenum – c’è anche da dire che da qualche mese le mie energie sono assorbite dal lavoro di lima su alcune pagine che a breve saranno stampate. Ci siamo quasi.
Ecco, l’ho detto.

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Muti, Cilea e un po’ di Sant’Eufemia sconosciuta

Le immagini della visita di Riccardo Muti al mausoleo di Francesco Cilea, a Palmi, hanno riportato alla mia mente una curiosità storica della quale forse non tutti sono a conoscenza. L’autore di Adriana Lecouvreur nacque infatti a Palmi il 23 luglio 1866, figlio dell’avvocato Giuseppe e di donna Felicia Grillo. Nelle sue vene scorreva però una parte di sangue eufemiese: quello della nonna Rachele Parisi, figlia di Francesco e Marianna Capoferro, la quale a 23 anni, il 2 giugno 1822, aveva sposato il ventottenne Francesco Cilea, medico originario di Pentidattilo. L’atto di matrimonio, redatto dall’allora sindaco di Sant’Eufemia Antonino Luppino, è conservato nel “Registro dei matrimoni” (anno 1822), presso l’Ufficio Anagrafe e Stato civile.

Un altro filo rosso che lega Cilea alle pendici dell’Aspromonte ci porta invece dritti a Nino Zucco: pittore, scrittore e scultore originario di Sant’Eufemia sulla cui opera l’8 aprile 2013 l’amministrazione comunale ha organizzato un convegno, grazie all’input arrivato da una serie di articoli e interventi che su questo blog avevano denunciato l’oblio ingiustamente calato su uno degli eufemiesi più illustri del Novecento.

Zucco fu infatti spesso ospite della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. È opera di Zucco il celebre quadro che ritrae il Maestro seduto al pianoforte. Così come il disegno a carboncino che ne riproduce il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte.

Fu proprio grazie all’opera di convincimento di Zucco che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito per realizzarne la maschera funeraria.

A trent’anni dalla morte (1981), Zucco diede alle stampe il ricordo e il carteggio attestanti il rapporto “di profonda devozione da parte mia e di benevolenza e affettuosa amicizia da parte del maestro per me che durò fino alla sua morte” (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, Barbaro editore). Un’amicizia iniziata negli anni Quaranta, quando Cilea volle conoscere personalmente l’autore dell’articolo a lui dedicato dal quotidiano newyorkese in lingua italiana “Il Progresso Italo-Americano” del potentissimo Generoso Pope, sul quale a lungo scrisse anche il giornalista e critico musicale Nino Fedele, un altro eufemiese illustre.

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