La stampa inglese, noi e la Salerno-Reggio Calabria

Leggevo ieri sul “Quotidiano del Sud” la notizia della critica ironica e spietata del giornale inglese “The Indipendent” a proposito dei lavori eterni sulla Salerno-Reggio Calabria, tornati ancora una volta d’attualità dopo la rassicurazione del presidente del Consiglio Renzi circa il loro completamento entro il 2016. Ho chiesto la collaborazione di Mario “il londinese” per una traduzione ottimale del pezzo firmato da Michael Day il 20 maggio (“Ultimo sforzo per l’autostrada italiana ‘eterna incompiuta’, a 50 anni dall’inizio dei lavori”), che pubblico. Insomma, al netto di qualche scontato luogo comune, il dato è che non siamo ben visti e che l’ironia degli inglesi sui ritardi nei lavori della nostra autostrada è purtroppo giustificata.

Nel 1966 Lunar 9 fu la prima navetta spaziale ad atterrare sulla luna, l’Inghilterra vinse la coppa del mondo, l’Italia aprì il primo tratto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Nel successivo mezzo secolo, le missioni spaziali hanno raggiunto obiettivi più importanti e l’Inghilterra non ha più vinto, ma incredibilmente l’Italia sta ancora, lentamente, lavorando alla costruzione dell’autostrada A3, generalmente conosciuta come “l’eterna incompiuta”.
La costruzione di quest’autostrada, 443km di distanza da Salerno, sud di Napoli, giù sino a Reggio Calabria, la punta dello stivale italiano, è stata condizionata da lavori non regolari, ritardi e scandali. I sindacalisti affermano che l’autostrada rappresenta l’incarnazione di tutto ciò che va male nel Paese, azzoppato dalla corruzione e dalla cattiva amministrazione: “l’autostrada è il simbolo di come le opere pubbliche siano gestite in Italia”, dice Stefano Zerbi, portavoce del Codacons, l’organizzazione che tutela i consumatori italiani.
Non è un segreto che l’autostrada parte dalla Campania, la casa della Camorra, e poi scende giù fino alle aree malfamate della Ndrangheta, che includono città come Rosarno e Gioia Tauro.
Se da un lato i mafiosi guadagnano milioni grazie a contratti di lavoro con ditte a loro affiliate, dall’altro fanno anche in modo che l’autostrada non disturbi le altre loro attività. Infatti, a circa metà percorso, sembra che l’autostrada torni indietro curvando goffamente su se stessa. Si dice che questa deviazione sia stata fatta per soddisfare la richiesta di un boss locale che non voleva che l’autostrada passasse troppo vicino alla propria villa.
Questa settimana però il primo ministro Matteo Renzi, che sembra essersi imbarcato nella missione di modernizzazione dell’Italia, dopo l’approvazione della riforma elettorale in parlamento ha espresso ottimismo: “Tutto sarà finito nel 2016!”. “Finiremo la Salerno-Reggio Calabria”, ha dichiarato a RaiUno. “Entro la fine del 2015 tutti i cantieri affretteranno i lavori e, al massimo entro il prossimo anno, l’autostrada sarà completata”.
Sembra che 3.000 operai stiano lavorando notte e giorno, sette giorni alla settimana, per velocizzarne il completamento.
In tanti però diffidano dai toni trionfalistici di Renzi, visto che dopo cinquant’anni ancora non è sicura la data di ultimazione dei lavori.
“È chiaro a tutti che solo un miracolo permetterà che i lavori siano completati tra un anno” afferma La Repubblica. Il quotidiano afferma infatti che alcuni documenti del ministero dei Trasporti indicano nel novembre del 2017 l’apertura dei 20 km di autostrada tra Laino Borgo a Campotenese.
“Sono sorpreso dalle parole del Primo Ministro”, dichiara Gigi Verardi, sindacalista della sezione calabra della Fillea-Cgil: “a nostro avviso, sono solo dichiarazioni propagandistiche”.
E anche se fosse “finita” l’anno prossimo o l’altro ancora, è probabile che 43 km di autostrada non avranno la corsia d’emergenza.
“Crederemo alla fine dei lavori quando lo verificheremo”. “E ciò significa con tutte le misure di sicurezza che sono state previste nel progetto”, aggiunge Zerbi.
Nel frattempo, il contribuente italiano continuerà a pagare di tasca propria, anche se ancora non avrà l’autostrada che avrebbe dovuto avere diversi decenni fa.

(Michael Day, The Indipendent, 20 maggio 2015. Traduzione in collaborazione con Mario Forgione)

Articolo originale:
http://www.independent.co.uk/news/world/europe/italys-eternally-unfinished-highway-enters-final-stretch–50-years-after-construction-began-10261986.html

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Che succede alla Pro Loco?

Stamattina la Gazzetta del Sud titolava: “Caos alla Pro Loco, presidente pronto a gettare la spugna”. Ho letto l’articolo con interesse: di questa associazione sono stato socio fondatore nel 1997 e membro del consiglio direttivo per quasi un decennio, dopodiché ho ogni anno rinnovato la tessera, pur non partecipando da tempo all’organizzazione di alcun evento. Il mio è più un supporto morale, se vogliamo anche una manifestazione d’affetto per quel che è stato: tra le tante cose belle fatte, mi piace ricordare la realizzazione del documentario “Don Pepè”, che ricostruiva la vita del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli più illustri e amati di Sant’Eufemia.
Parlo soprattutto da eufemiese che non può restare indifferente di fronte alla notizia della crisi di un’associazione del paese. Sono sempre stato dell’avviso che il mondo del volontariato costituisca una preziosa risorsa per i piccoli comuni. Esso va pertanto messo nelle condizioni di operare e svolgere al meglio la propria azione di valorizzazione del patrimonio umano e territoriale del quale è parte integrante. Se un’associazione chiude, siamo tutti più poveri. Da qui la preoccupazione per le dimissioni degli organi elettivi – presidente Rocco Luppino in testa – preannunciate nell’articolo, ma non ancora ufficiali.
Dispiace non aver letto nell’articolo il nome di Eufemia Costanzo. Molto di ciò che la Pro Loco ha fatto in 18 anni di attività porta la sua firma, la firma di una donna che ha sempre dato tutta se stessa per animare il paese, trascinando giovani e meno giovani nelle associazioni per le quali ha operato in 40 anni di encomiabile attività. Attività che è continuata anche in questi ultimi due anni, nonostante cioè la scarsa o nulla collaborazione della Pro Loco e la necessità di inventarsi esternamente ad essa il gruppo di supporto “Insieme per crescere”. La cito soltanto per questo, perché credo che la riconoscenza debba essere un valore e non un rimpianto. Tralascio ovviamente ogni considerazione di natura personale.
Che la Pro Loco abbia negli ultimi anni ridotto le proprie attività è un dato di fatto. Sagra della Patata e davvero pochissimo altro. Ma non sto qui a giudicare. L’esperienza nell’associazionismo mi insegna che ognuno dà quel che può, per come sa, quando ne ha tempo e voglia. Anche se ci sono dei doveri minimi nei confronti dell’associazione della quale si fa parte. Ma lo spirito è quello, altrimenti non sarebbe volontariato. Onestà intellettuale vorrebbe però che chiunque non sia nelle condizioni di “dare” un minimo di contributo si faccia da parte. Le medagliette sul petto non hanno nessun senso.
So che è antipatico parlare di sé, ma è quello che io ho fatto proprio con la Pro Loco otto anni fa, quando mi resi conto che l’associazione per me era diventata un peso. Mi dimisi da segretario, lasciai il campo e mi dedicai alle attività che tuttora svolgo con l’Agape. Perché questo mi rende felice (“e la felicità non è un fatto secondario”), non certo per questioni personali nei confronti di chicchessia.
Voglio sperare che da questa situazione si possa venire fuori. Me lo auguro soprattutto per il paese. Ma serve il coraggio di fare qualche passo indietro. L’attuale direttivo è stato eletto nel 2013, a neanche un anno dalle elezioni comunali. In quella circostanza furono riconfermati presidente Rocco Luppino e vicepresidente Eufemia Costanzo (più Pino Sobrio nel direttivo), mentre un nuovo gruppo – espressione del nuovo corso politico e amministrativo del paese – entrò a far parte del consiglio d’amministrazione. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è il fallimento di un’associazione attiva da quasi un ventennio.
Il peccato originale del direttivo eletto nel 2013, a mio avviso e senza farne una questione di nomi, sta proprio nel tentativo di dare una connotazione “politica” alla Pro Loco. Il corto circuito è scattato per la confusione dei ruoli e perché dovrebbe essere la politica a mettersi sempre al servizio delle associazioni. Non il contrario.

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Il triste centenario dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo

Il 29 giugno del 1915 le campagne di Sant’Eufemia erano distese gialle venate di verde, come se sopra la terra già brulla fosse passato il pennello di un pittore a dipingere le spighe di grano quasi del tutto mature e accarezzate dal vento. “Giugnu farci in pugnu”, confermava infatti la saggezza popolare per indicare l’inizio della mietitura, lavoro che poi avrebbe impegnato le giornate dei braccianti per tutto il mese di luglio: “a giugnu, u ’ranu c’u pugnu; a giugnettu, u ’ranu è nettu”.
Il mattino annunciato dal sole caldo e accecante sarebbe stato diverso dai precedenti, anche se i protagonisti di quella giornata memorabile non sapevano che si stavano apprestando a scrivere una pagina storica per quei mucchietti di case conficcate nella carne viva dell’Aspromonte, ancora sanguinante per le ferite del terremoto del 1908. L’inizio di storia d’amore giunta fino ai nostri giorni, appena in tempo – forse – per essere celebrata prima che ne venga decretata la fine, cent’anni dopo.
Quel lontano giorno Padre Annibale Maria di Francia, proclamato santo nel 2004, celebrò la messa e consacrò la Casa delle Figlie del Divino Zelo a San Giuseppe e al Cuore SS. di Gesù. Il religioso arrivava da Messina, città nella quale spese la sua vita (vi nacque il 5 luglio 1851, vi morì l’1 giugno 1927) al servizio dei bisognosi e dei derelitti del quartiere “Avignone”, il più degradato del capoluogo peloritano. Qui, tra i tuguri che erano stati proprietà dei marchesi Avignone (case di “Mignuni”, per il volgo), a partire dal 1878 Padre Annibale svolse la sua opera di redenzione morale e materiale degli ultimi (“cu vai a casa du Patri ’i Francia, trasi, si ’ssetta e mancia”), culminata con la fondazione di un orfanotrofio antoniano femminile (1882) e di uno maschile (1883). Nel 1887 fondò la Congregazione religiosa delle “Figlie del Divino Zelo” e nel 1897 la Congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, entrambe dedite alla preghiera per le vocazioni e all’assistenza e all’educazione degli orfanelli e dei bambini abbandonati.
Padre Annibale giunse a Sant’Eufemia in compagnia della messinese Madre Maria Nazarena Majone (era nata a Graniti il 21 Giugno 1869, morì a Roma il 25 gennaio 1939), cofondatrice delle “Figlie del Divino Zelo”, con la quale condivise la fatica e l’amore del servizio per i poveri del quartiere “Avignone” e che fu la vera artefice della fondazione di nuove “Case”, oltre a quella di Sant’Eufemia: San Pier Niceto (Messina, 1909), Trani (Bari, 1910), Altamura (Bari, 1916), Roma (1924), Torregrotta (Messina, 1925), Novara di Sicilia (Messina, 1927).
Con loro una grande eufemiese, suor Maria Rosaria Ioculano, nata dal medico Antonino e da Caterina Versace il 27 agosto 1849, la quale aveva consacrato alla Congregazione la vita e donato a Padre Annibale tutti i suoi beni. Il 26 luglio fu quindi inaugurato il laboratorio per le ragazze del paese e, di lì a poco, l’asilo infantile.
Nel corso del Novecento l’Istituto antoniano di Sant’Eufemia ha accolto molte ragazze decise a prendere i voti, mentre ancora più numerosi sono stati gli orfanelli e i bambini in condizioni di degrado economico e sociale ospitati nella struttura di via delle Rose che il 3 novembre 1927 raccolse l’ultimo respiro di suor Ioculano.
Ora sembra che su questa storia si stia per scrivere la parola fine. Per una ragione “spirituale”: la crisi vocazionale che ha ridotto sensibilmente il numero delle suore presenti nell’Istituto. Per una prettamente economica: il progressivo calo degli iscritti alla scuola dell’Infanzia paritaria, le cui rette di fatto mantengono l’intera struttura, che è diventata “casa di accoglienza per minori” dopo la chiusura degli orfanotrofi decretata a partire dal 31 dicembre 2006 (legge n. 149 del 28 marzo 2001).
L’anno scolastico 2015-2016, che partirà regolarmente nonostante i pochi iscritti (40) potrebbe davvero essere l’ultimo.

*Foto tratta dalla pagina Facebook Scuola FDZ – Sant’Eufemia d’Aspromonte

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Minita a Gerace Libro Aperto

La presentazione di “Minita” nella terza giornata di Gerace Libro Aperto, lo scorso 2 maggio, nello scenario incantevole della chiesa di San Francesco. Moderatrice Marisa Larosa, all’incontro sono intervenuti l’editore di Disoblio Salvatore Bellantone e il giornalista di Ciavula.it Giovanni Maiolo. Il servizio per FimminaTV è di Valentina Femia, il montaggio di Simona Schirripa.
 

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La “Primavera di libri” del Terzo Millennio

Saranno due gli appuntamenti di “Primavera di libri”, la kermesse culturale ideata dall’Associazione Terzo Millennio, che già nel 2014 ha visto succedersi nel “salottino” allestito all’interno dell’Aula consiliare del Palazzo municipale Francesco Idotta, Giuseppe Caridi ed Elisabetta Villaggio.
“Primavera di libri – ci dice il presidente del Terzo Millennio Francesco Luppino – rappresenta per me un regalo che voglio offrire a me stesso, ai soci e ai simpatizzanti dell’associazione: un’occasione per arricchire e stimolare la voglia di cultura consapevole che questa, e solo questa, è il segreto per poter fare la differenza”.
La seconda edizione si articolerà in due incontri. A rompere il ghiaccio, sabato 9 maggio alle ore 18, Eva Gerace e Francesco Idotta con la presentazione di Educare per crescere. Il viaggio del camaleonte (Città del Sole, 2015), l’esito cartaceo di un progetto “per l’educazione alla vita” avviato da un gruppo di studiosi italo-argentini al fine di consegnare ai giovani “uno strumento di apprendimento sull’amore e i vincoli con gli altri” che privilegi “l’etica delle differenze, la sola che possa generare amore e rispetto per la vita, quell’amore che trascende la smania di dominio e amplia la capacità di abitare il proprio spazio, il proprio tempo e la dimensione di ognuno”.
Francesco Idotta, docente di storia e filosofia presso il locale liceo scientifico “Enrico Fermi” e influente maitre a penser per generazioni di studenti eufemiesi, ha contribuito alla sezione narrativa del libro: tre gruppi di racconti, illustrati dalla pittrice Patricia Gerace. La parte scientifica è invece curata da Eva Gerace, specialista in psicologia clinica dalle molte suggestioni letterarie, come hanno potuto constatare gli eufemiesi che nell’agosto scorso ne ascoltarono l’intenso intervento in occasione del Premio “Merica” assegnatole dal gruppo “Insieme per crescere”.
Il secondo incontro (sabato 16 maggio, sempre alle ore 18) sarà invece dedicato a un incontro-dibattito sul tema “Perché restare?”. Questione sempre più attuale per giovani e meno giovani alle prese con il lacerante dubbio se valga la pena continuare a sperare di riuscire a realizzare qua il proprio futuro o se non sia il caso di arrendersi e seguire l’esempio dei tanti che quotidianamente abbandonano la nostra terra e cercano una possibilità al Nord o all’estero.
Chi scrive ne parlerà con Katia Colica, scrittrice e giornalista “senza anestesia”, autrice di racconti, poesie, sceneggiature teatrali. La più recente, edita ad aprile da Città del Sole e applauditissima alla prima presentazione, Un altro metro ancora, “monologo sul bordo della vita” che racconta un episodio realmente accaduto nel corso della seconda guerra mondiale: la storia di un gruppo di sfollati salvati da un eroe “per caso” che si offre di essere il primo della colonna di uomini e donne in procinto di attraversare un campo minato. Pagine intrise di impegno civile e lirismo, il marchio di fabbrica dei suoi due romanzi-inchiesta di successo (mentre il terzo è di prossima pubblicazione): Il tacco di Dio. Arghillà e la politica dei ghetti (Cdse, 2009) e Ancora una scusa per restare. Storie di ordinaria invisibilità in una notte metropolitana (Cdse, 2012).

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Un altro metro ancora

Che fine ha fatto la Resistenza? Se lo chiedeva già Luigi Longo nell’omonimo pamphlet pubblicato per il trentennale del 25 aprile. Che fine ha fatto la Resistenza, oggi? Ha senso parlarne ancora?
La risposta è: sì. Sì, fino a quando ci sarà qualcuno pronto a difendere la Costituzione repubblicana, che rappresenta il respiro di una storia comune e la sintesi di tutto ciò che la Resistenza voleva essere. Sì, ha senso celebrare il 25 aprile, l’esito finale del processo di Liberazione che consentì ai figli e alle figlie migliori del Paese di difenderne l’onore infangato dal fascismo, riconquistando la libertà per se stessi e la dignità per un popolo intero. Giovani senza nome, eroi spesso involontari dei quali vanno recuperate le biografie e vivificati gli ideali.
La conservazione della memoria è essa stessa atto di resistenza: distinguere i buoni dai cattivi, il bene dal male, chi lottava per la libertà e l’indipendenza da coloro che combattevano per il nazifascismo. Verità un tempo scontate, oggi insidiate da un revisionismo indulgente e sovente strumentale.
L’ultimo lavoro di Katia Colica, Un altro metro ancora (edito da Città del Sole) è impegno civile e “politico”, perché l’arte e la cultura diventano atti politici quando scandagliano la realtà e dichiarano una scelta di campo. Un “monologo sul bordo della vita” – come recita il sottotitolo – destinato al teatro, che racconta l’eroismo inconsapevole del protagonista Aitano: un canto vigoroso da dedicare a coloro che hanno resistito, resistono e resisteranno “a tutto l’orrore del mondo”.
Capita che pagine di intensa umanità siano scritte dagli Aitano della società, anonimi viandanti che con un gesto salvano se stessi e il mondo. Il protagonista di Un altro metro ancora non aspira a diventare eroe. Lacero e sporco decide di disertare dopo avere mescolato assieme paura e coraggio, spinto dal desiderio di riabbracciare la madre sfollata. Si ritrova però nel crocevia della Storia, accanto a un’umanità in fuga dall’orrore della guerra e bloccata davanti a un campo minato: “è stato lì che ho deciso”. Ed eccolo allora mettersi in testa al “millepiedi umano” che ha nei polmoni un unico soffio di vita e nelle orecchie il suo mantra, la raccomandazione ai compagni di calpestare le sue impronte (“questi sono i miei passi, e questi saranno i vostri passi”) per non rischiare di saltare in aria.
Lì, sul bordo della vita. Tra le voci e gli sguardi di un gruppo di sfollati calabresi decisi a tornare a casa ad ogni costo. Una storia di famiglia, ascoltata dalla voce della bimba fuori campo diventata molti anni dopo la mamma dell’autrice, in pagine marchiate dall’inchiostro dell’impegno civile e del lirismo (l’addio a Mina, che ospita Aitano accogliendolo come fosse il figlio che la guerra le aveva sottratto; la fine tragica della mamma del protagonista): il tratto distintivo della scrittura di Katia Colica.
Un altro metro ancora è la storia universale di Peppino Impastato e di tutti coloro che in ogni tempo e luogo contano e camminano, lottando per regalare all’umanità “cento passi ancora” di speranza. Ma è soprattutto una storia di “fedeltà”, che parla ai ragazzi di oggi di amore nei confronti della propria terra: un “amore potente, delicato, ostinato, amore testardo” al quale aggrapparsi per rinascere dopo ogni fallimento, rimettendo assieme i cocci dei sogni andati in frantumi. Per provare a ricostruire.
Per restare.

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Una vita in piega

I ricordi sono anarchici, indisciplinati, irridono le regole del fair play. Colpiscono a tradimento, quando meno te l’aspetti. Stai facendo le tue cose, ti si parano davanti e non si spostano neanche a sgomberarli con gli idranti. Non si scappa dai ricordi, conoscono scorciatoie che li fanno arrivare sempre prima di te al prossimo incrocio. E lì ti aspettano. La fuga è una scelta che non paga. Mai. Perché fuggire dai ricordi è fuggire da se stessi. Impossibile. Meglio rassegnarsi, inspirare forte e affrontarli, anche se il nodo in gola punge nostalgia. Prenderli in braccio e cullarli. Cullarsi con essi. Con quel groppo che forse, alla fine, verrà in qualche modo schiacciato giù.
Sono trascorse quasi due settimane e Pino Condello è ancora all’ingresso del municipio. Si gira e ride dentro il gilet nero di pelle, con il sorriso che ho rivisto – o mi è sembrato di vedere – anche il giorno successivo, su un viso che ormai non era più il suo, eppure in posa per salutarci con il caratteristico riccio delle sue labbra. Un ghigno simpatico. L’espressione di chi sa che alla vita bisogna sempre sorridere, anche se a volte l’allegria è una maschera esibita per tenere lontane le domande indiscrete. Quelle imbarazzanti, capaci di farci mostrare agli altri senza veli e che richiedono in chi ascolta uno sforzo di comprensione. Mentre il suonatore Jones non ha di questi impicci: continua a suonare “per tutta la vita”, perché la gente ha stabilito che è quello che sa fare, e va bene così.
È tra la porta di vetro e la scalinata, il braccio ancora alzato a salutare senza guardare, girato di spalle e in cammino. Mentre va via, come un titolo di coda che sfuma. Come la sua vita, in un pomeriggio che nessuno avrebbe immaginato. Che ha finito per cristallizzare aneddoti e imprese, ai quali ognuno si è aggrappato per farsi forza tra occhi rossi, increduli.
“Pinuccio” era l’amico di tutti. Chiunque l’abbia conosciuto ha almeno un episodio da raccontare, incorniciato dal suo sorriso: “ricordiamolo – ha raccomandato il fratello Natale – nella sua voglia di vivere e condividere la buona compagnia; nella sua leggerezza e nella sua allegria”.
Originale, a volte bizzarro, non certo “pazzo”, anche se a quel soprannome ci teneva perché se l’era guadagnato sul campo. A suon di imprese impossibili su una delle sue numerose moto: scavalcando macchine o domando le due ruote con una gamba ingessata, dritta come la lancia di un soldato medievale in sella a un cavallo; sulla Ducati 998 trasformata ogni mattina in un proiettile rosso per giungere in orario sul posto di lavoro. Con la strafottenza dello studente impenitente. Con gli occhi puri del bimbo della fiaba di Andersen, l’unico in grado di accorgersi che il re è senza vestiti. Perché spesso occorre una buona dose di pazzia per vedere e rivelare la verità, per dipingere la gente con aggettivi azzeccati e locuzioni affilate. Per prenderci sempre. Vivere al di fuori degli schemi imposti dalla società, che costringono gli individui a comportarsi come gli altri vogliono, mortificandone l’autenticità.
A un “pazzo” – che comunque “può avere un attimo di lucidità, mentre lo stupido è senza speranza” – è consentito giocare con la vita e farsi beffe del prossimo, usare la battuta irriverente come la penna di un moderno Cirano: con questa spada vi uccido quando voglio.
Sfrontato, mai volgare o maleducato. Libero. Tra i pochi in paese ad avere il coraggio di dire ciò che pensava di questo “circo” di quattromila anime, un posto in cui “manca soltanto il serial killer”. Un solitario amante della compagnia, perché il tempo della sua vita l’ha sempre scandito lui.
A modo “suo”, avrebbe cantato Frank Sinatra.
Con quel buco nero che forse ogni tanto lo inghiottiva, chissà. Il ricordo della morte al suo fianco durante i lunghissimi giorni del coma, la lotteria della vita che estrae il suo numero, salvandolo, e condanna il compagno in un incidente con la moto, ancora ragazzi.
Di questa storia vissuta di corsa, in piega, rimane l’oro dei capelli di Walter scompigliati dal vento, come nelle pedalate di padre e figlio in mountain bike per le strade del paese. Le note del jazz e del blues della colonna sonora di un film finito troppo presto. Allegria e leggerezza.

*Entrambe le fotografie sono tratte dal profilo Facebook di Pasquale Pellizzeri, nella seconda alla guida del Sidecar

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Minita a Calabria d’Autore

Venerdì 3 aprile ho presentato “Minita” all’interno della prestigiosa rassegna “Calabria d’Autore”, organizzata dall’Associazione Incontriamoci Sempre presso la sede della Stazione FS Reggio Calabria “Santa Caterina”. Di seguito, il resoconto della serata, realizzato da Stefania Valente per la testata giornalistica online ZoomSud.
(http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/79497-domenico-forgione-a-calabria-d-autore.html)

Di Stefania Valente  Calabria d’autore ospita Domenico Forgione, dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, giornalista pubblicista, scrittore e autore, tra gli altri, del libro “Minita”, edito da Disoblio.
Sul palco Antonio Calabró, che ha curato la prefazione del libro, affiancato da Daniela Mazzeo, agitatrice culturale ormai nota al pubblico affezionato di Calabria d’Autore e Vanessa Schiavone, collaboratrice fissa della rassegna, per colloquiare con lo scrittore e cercare di carpire le armoniche fondamentali della sua scrittura.
Domenico Forgione è un ragazzo di Sant’Eufemia d’Aspromonte nato per caso in Australia che ispira una fiducia immediata. Il suo ingresso sul palco, accompagnato dalle note di Chuck Berry, infonde l’impressione di una persona equilibrata e rassicurante, positiva, che sorride sempre alla vita, nonostante la vita gli abbia chiesto fatica e pazienza, come traspare dietro il suo sorriso e come lui stesso ci confermerà nel corso della serata.
Antonio Calabró apre il colloquio indagando sulle motivazioni che hanno portato alla stesura di questo libro. Forgione risponde che la motivazione alla scrittura è difficilmente circoscrivibile, ma che senz’altro in questo libro c’è la voglia di denunciare atteggiamenti distorti delle piccole società della Calabria che portano ad una omologazione spersonalizzante, che mortifica l’individuo. C’è il conseguente desiderio di dare un volto, un nome ed un posto ad alcuni personaggi del paese meritevoli di nota, che altrimenti sarebbero rimasti in ombra.
Le domande si susseguono numerose e interessanti. Daniela Mazzeo è incuriosita dal rapporto (tenero) che lo scrittore ha con le donne. Vanessa Schiavone invece dal suo pensiero sull’istituzione scolastica e sulle riforme che essa sta subendo. Forgione risponde con la serenità che gli è propria e che gli abbiamo riconosciuto al primo sguardo. Le donne sono per lui “angeli” e la scuola andrebbe riformata ricostruendo il prestigio della classe insegnante col ripristino della passione e soprattutto del rispetto.
“La scrittura è un atto politico?” provoca Calabró quasi a sorpresa. “Sì” risponde lo scrittore “è un atto politico. Esprimere opinioni e assumersi le responsabilità delle proprie affermazioni è sempre un atto politico”.
La discussione si sposta al titolo del libro e alle radici della malavita organizzata in Calabria. Il titolo? Semplicemente il nome “Domenico” distorto da lui stesso bambino. La ’ndrangheta? Poggia le sue radici sul disagio economico e sociale, ma il suo diffondersi e incancrenirsi negli strati sociali è favorito anche dalla solita mentalità “del favore” che innanzitutto andrebbe corretta.
Così, sulla solita questione senza soluzione, la serata volge al termine, con un ultimo pensiero da parte del nostro ospite sulle giovani generazioni. È un pensiero di fiducia più che di speranza, di esortazione a non cadere nelle grinfie e nei meccanismi del nepotismo e della raccomandazione, ma di difendere la cultura e il merito.
Una scelta che lui stesso ha fatto e che, nel tempo, lo ha ripagato dandogli la possibilità di diventare la persona di qualità che abbiamo conosciuto, lo scrittore che abbiamo apprezzato leggendo le sue opere, il ragazzo di Sant’Eufemia che non ha tradito il suo modo di essere.
Domenico Forgione lascia il palco tra gli applausi. Il pubblico ha conciliato gli impegni del venerdì santo per essere presente e tutti sono soddisfatti per l’atmosfera briosa, tra libri, musica, brani di film; la solita miscela che caratterizza ormai la rassegna.
La serata si chiude con la solita freschezza: un piatto di spaghetti, un bicchiere di vino.
Qualcuno va via con “Minita” sotto il braccio, qualcuno con l’uovo di sei chili vinto alla lotteria di beneficenza organizzata dall’Associazione, qualcuno sotto il braccio della moglie e qualcuno da solo, ma tutti accomunati dalla sensazione che qualcosa per questa nostra terra devastata si possa fare, non miracoli, ma qualcosa che funzioni sì.
Alla prossima, venerdì 10 con Mimmo Cavallaro che racconterà la sua storia.

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Come a scuola tanti anni fa: le parole del professore Aldo Coloprisco su Minita

Non me l’aspettavo e proprio per questo mi ha fatto ancora più piacere ritrovare tra la posta elettronica l’email del mio professore di Lettere alla scuola media, Aldo Coloprisco. Sono trascorsi quasi trent’anni, ma per me rimane sempre il mio caro professore. E quindi sono contento che mi abbia dato un bel voto. (D. F.)

Carissimo Domenic, sono lento per natura, ma la vista ultimamente mi crea non pochi problemi che grazie alla mia caparbietà cerco di superare. Questo incipit mi serve per spiegare il lungo tempo che ho impiegato per leggere il tuo Minita.
Ti dico subito che mi è piaciuto tantissimo, che mi ha commosso per l’umanità che hai saputo spargere in tutte le tue pagine. I tuoi personaggi balzano vivi e veri, anche se molti hanno fatto il lungo viaggio e ora ti sorridono dall’alto della loro raggiunta serenità.
Minita è il canto di un giovane uomo che ama il suo paese e che sa guardare gli uomini e i fatti che lo riguardano con bonaria ironia e con la consapevolezza che le cose buone e belle esistono e sono accanto a noi.
Sarà perché anch’io ho voluto molto bene a mia nonna, o forse perché anch’io sono nonno, le pagine di “Una regina di nome Ciccia” mi hanno particolarmente preso, non solo per il titolo straordinario che sarebbe bastato da solo a esaltare la figura di questa donna d’altri tempi che tu hai reso immortale, ma anche perché attraverso il ricordo della nonna riporti a vita il passato che balza presente e vero dalle tue pagine. Questo mi conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che in realtà non esiste il passato, ma tutto è presente e vive dentro di noi.
Mi piace ciò che descrivi. Parti dal paese ma poi abbracci il mondo. Grazie a te diventano personaggi per sempre anche i poveri cristi. Salvatore, Ceu Galera, mastru Nino, Frank il mongolo, Peppe e tantissimi altri sono tratteggiati con lo spirito di chi, pur sottolineando la particolarità di quelle esistenze, abbia voluto abbassar loro le palpebre e accarezzare con dolcezza le guance.
Minita è una preziosa miniera o, con una immagine più leggera, una pista da ballo dove i danzatori volteggiano su una musica ora allegra ora triste e malinconica che tu scegli con oculato discernimento: vedo personaggi che conosco, altri di cui ho sentito parlare, altri ancora a me ignoti.
Mi commuovono per la delicatezza dei toni e per la sincerità dei sentimenti che esprimono le pagine dedicate alla cara maestra, signora Rina De Leo, mia paesana e amica.
E che dire de “L’ultima lezione” con cui ricordi con l’affetto devoto di un discepolo il maestro divenuto anche un grande amico? Tu, caro Domenic, sei stato fortunato a incontrare sulla tua strada il prof. Rosario Monterosso, ma anche lui lo è stato e sicuramente sorride soddisfatto dall’angolo del suo paradiso nel constatare che i suoi consigli e i suoi insegnamenti continuino a vivere nella tua mente.
Io, purtroppo, non ho avuto il piacere e l’onore di godere della sua amicizia. Era una conoscenza superficiale, un saluto, una stretta di mano e basta. Me ne dolgo nel profondo, perché avrebbe potuto dare anche a me le sue lezioni di vita.
La penna di Minita è come la zappa del contadino, che rivolta la terra per renderla fertile e pronta alla semina. La raccolta alla fine sarà generosa e si chiama “lo stupore di Mico”, l’esempio e il coraggio dei bambini e del campione Lorenzo Genovese, le analisi critiche sempre originali e puntuali delle opere di scrittori contemporanei, i commenti ai testi di canzoni che hanno scandito e accompagnato i momenti dolcissimi e quelli tristi di una giovane e inquieta esistenza.
Finisco questa mia chiacchierata ringraziandoti per aver dato spazio al mio “Libraio di Meladoro “. Lo so, hai usato un occhio di riguardo per questo tuo vecchio professore bizzarro: bellissima definizione, che mi riporta alla mente il favoloso mondo dei miei verdi anni e delle innumerevoli ore trascorse in mezzo agli studenti meladoresi nella speranza o nella illusione di farli partecipi della mia pazzia.
Un forte abbraccio e buona Pasqua.

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Abbasso le bombe, viva la bellezza

Una reazione istantanea come un riflesso condizionato. Come il piede che scalcia non appena il martello colpisce il ginocchio. Come il sorriso che scatta naturale davanti alla bellezza di questi ragazzi colorati e con gli occhi pieni di speranza. Occhi che non si arrendono, che non possono arrendersi perché se lo fanno loro c’è davvero da abbassare la saracinesca e sparire. Lasciare il campo ai bruti che sabato notte, ma neanche tanto (alle 21.40 circa), hanno tentato di colpire al cuore l’avamposto più alto della cultura eufemiese, quel liceo scientifico che rappresenta la speranza e l’argine. La speranza di un futuro migliore; l’argine alla barbarie che pure resiste e rilancia. Per questo motivo non occorre abbassare la guardia e insistere, tenere i riflettori accesi perché anche se non sono stati rilevanti i danni materiali dell’esplosione nei locali che ospiteranno il liceo “Fermi”, è grave l’azione subita da tutta la città. Non è stato colpito il liceo, attentati del genere feriscono il futuro di un’intera comunità, che per questo è chiamata a reagire. A schierarsi. A metterci la faccia. Accanto ai ragazzi e ai loro bellissimi striscioni di vita, contro la morte della violenza e della sopraffazione.

Farlo con ancora più forza di quella espressa stamattina nel corteo partito dalla sede attuale del liceo e che, percorrendo le vie del paese, ha fatto tappa nei locali dell’ex scuola elementare “Purgatorio” e da lì è poi approdato nella sala consiliare del Palazzo municipale, dove due portavoce degli studenti hanno rivolto al sindaco di Sant’Eufemia Mimmo Creazzo l’invito a non indietreggiare nell’impegno a favore della legalità e della civiltà:

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 
e fui contento, perché rubacchiavano. 
Poi vennero a prendere gli ebrei, 
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 
Poi vennero a prendere gli omosessuali, 
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 
Poi vennero a prendere i comunisti, 
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 
Un giorno vennero a prendere me, 
e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Martin Niemöller) 
Iniziamo con la citazione di questo testo, perché pensiamo che un episodio come quello avvenuto sabato sera, un ordigno esploso dentro la nuova scuola, non possa (e non deve!!!) passare sotto silenzio. 
Il silenzio delle persone genera l’indifferenza: l’indifferenza uccide! 
Noi non possiamo tacere sull’uso di metodi che generano violenza e paura. 
Sogniamo un luogo, e Sant’Eufemia può essere quel luogo, dove non abbiamo più paura e dove pensiamo che lavorare per il Bene Comune sia un valore irrinunciabile. Perseguire il Bene Comune vuol dire, soprattutto, tutelare i diritti dei più deboli, di quelli che stanno ai margini della società, di chi non ha voce. 
Sogniamo un luogo in cui possiamo vivere relazioni basate su collaborazione e concordia, perché pensiamo che la Pace sia una delle condizioni fondamentali per vivere felici e vivere una vita autentica. 
Per questo scendiamo in piazza e ci mettiamo la faccia, perché il nostro futuro sia possibile e non venga precluso da chi crede di opprimere e prevaricare sugli altri. 
Chiediamo a chi gestisce la cosa pubblica di testimoniare in modo più responsabile la tutela dei diritti dell’uomo e la promozione della bellezza della condizione umana. 

Un inno alla partecipazione contro il disimpegno, l’indifferenza e l’apatia, per una battaglia che è di tutti. Che ognuno di noi deve sentire propria. Perché, come ha sottolineato nel suo intervento la dirigente scolastica del “Fermi” Graziella Ramondino, “la scuola è da sempre stata il tempio della cultura e della civiltà: la profanazione di una sua istituzione, quale che sia la matrice, simboleggia comunque un attentato alla civiltà e al progresso degli uomini e va respinta con ogni forza ed energia per evitare che conquiste millenarie dell’occidente civilizzato regrediscano d’un colpo nella barbarie”.
In una comunità che deve essere solidale, il momento dello scontro e delle divisioni non può sussistere quando viene colpito il futuro delle nuove generazioni. L’auspicio è che siano organizzate altre iniziative, oltre a questa spontanea e “improvvisata” dalla sera alla mattina attraverso il tam-tam dei social sulla spinta emotiva dell’indignazione, alla quale non tutti coloro che avrebbero voluto hanno potuto partecipare. Un consiglio comunale aperto darebbe una dimensione ufficiale e un taglio istituzionale, com’è giusto che sia quando episodi così gravi colpiscono la cittadinanza.
Questo è il momento dell’unità, l’ora in cui la comunità diventa testuggine. L’ora in cui tutti devono dare un contributo di civiltà, la goccia che insieme ad altre gocce diventa mare. L’ora in cui l’I care di don Milani diventa azione.
Perché quel “me ne importa, mi sta a cuore” contiene la forza rivoluzionaria del cambiamento reale, quello delle coscienze che la scuola è chiamata a formare. Delle donne e degli uomini che verranno e che vogliamo migliori di noi.

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