Chi non vota e chi fa l’alba al seggio

Un paio di considerazioni – mi auguro – non banali sul dato della diserzione dalle urne, costantemente in crescita e confermato anche in questa tornata elettorale.
Votare nella sola giornata di domenica non aiuta. Ragioni di spending review, si motiva. Ma a forza di tagliare anche la possibilità di esercitare i propri diritti, alla fine resterà ben poco.
Disaffezione degli elettori, sempre più delusi dalla politica, ormai rassegnati al declino che comunque fa il suo corso, nonostante i politici. O forse proprio per causa loro. Può darsi.

Rabbia generalizzata contro tutto ciò che “puzza” di casta, privilegi, furberie, arricchimento personale a discapito del bene comune. Gli esempi non mancano. Se possibilità di salvezza può esistere, si conclude, è fatica sprecata cercarla in soggetti che si scannano per una poltrona. I canali da attivare sono altri, fuori dalla politica, nella strada e nell’impegno quotidiano per un mondo migliore.
Non è semplice contestare questo genere di considerazioni. Aggiungerei anche un altro elemento, non trascurabile: il disastro del Movimento Cinque Stelle, la formazione di Grillo e Casaleggio che era riuscita a intercettare lo scontento verso la classe politica dandogli “dignità” istituzionale, in forme spesso rozze e populiste, ma che ha finito per gettare nel cassonetto dei rifiuti il biglietto vincente della lotteria rivelandosi, in definitiva, forza politica inconcludente, velleitaria, autoreferenziale.

A mio avviso sono due i fattori che concorrono al dato spaventoso e preoccupante (checché ne pensi Renzi) dell’astensionismo: lo sbandamento dei partiti di destra e il fallimento del Movimento Cinque Stelle. Insomma, la “colpa” è di chi non va a votare, non di chi si reca alle urne. Ecco perché non è corretto sminuire la vittoria del centrosinistra. Chi vuole vincere deve essere in grado di avanzare una proposta politica credibile, cosa che evidentemente il centrodestra non è al momento capace di fare, intrappolato sotto le macerie del post-berlusconismo in Italia e del post-scopellitismo in Calabria, e pertanto propenso alla diserzione o al tentativo trasformistico e opportunistico di saltare sul carro del vincitore.
A maggior ragione sarebbe auspicabile il recupero dell’umiltà della militanza politica. Quella che dava, non chiedeva e neanche si aspettava. Si militava per un ideale, perché ognuno si sentiva il granello di sabbia che avrebbe inceppato la macchina del potere. I partiti sono indispensabili cinghie di trasmissione tra la società e i luoghi decisionali, strumenti di mediazione e composizione degli interessi collettivi dai quali non si può prescindere se non si vuole tornare al conflitto permanente dello stato di natura hobbesiano.
Sono stato al seggio dalle 6.45 di domenica all’alba di lunedì e conserverò l’immagine di due ottuagenari come monito da tirare fuori quando lo sconforto cercherà di prevalere sull’etica dell’impegno. Il primo fotogramma contiene un’esile figura appoggiata per tutta la durata dello spoglio alla transenna che separava il pubblico dal seggio, da dove mi lanciava occhiate di complicità ogni volta che dall’urna veniva estratta una preferenza per il nostro candidato. Il secondo, il passo lentissimo e sofferto di un compagno storico che ha impiegato 45 minuti per scendere dalla macchina, percorrere con l’aiuto di una stampella il lungo corridoio che portava al seggio, votare e fare il tragitto di ritorno.
Anche per loro occorre andare a votare, sempre. Perché c’è stata una notte buia in cui i nostri nonni non hanno potuto godere di questo e di molti altri diritti.

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Il gobbo della Matrice

Conviveteci voi, se ne siete capaci, con una gobba che vi deforma il corpo e lo spirito. Con il disprezzo della gente, ché jimbu e zoppia non possono non avere a che fare con i peccati di qualche impresentabile antenato e, quindi, ben vi sta. Non ascoltate Ezechiele. Geremia avverte che le colpe dei padri ricadono sui figli, perché qualcuno deve pur pagare: nessuno pensi di riuscire a farla franca. Ve lo fa credere anche il prete, lo so, sfogliando la margherita del librone che sistemo già aperto alla pagina che ascoltate in un silenzio gelido. Voi non sapete leggere, io sì. A fatica, ma quel tanto che mi basta per capire che le parole vanno interpretate e che chi le interpreta è l’unico vero Dio.
Don Saverio mi prese con sé, per rispetto del sangiovanni che aveva con mio nonno: un modo per dare a uno sgorbio un ruolo nella società affidandogli il compito di accendere e spegnere le candele, togliere la cera bruciata, annunciare con lo sguardo l’inizio della messa. Insomma, ho imparato a cantilenare brani arcani proprio grazie a questo panetto da mezzo chilo che mi ritrovo piantato sulla scapola, a incurvarla. Altrimenti sarei rimasto un cafone come voi, schiavo di gnuri che a stento vi riconoscono il diritto di mangiare, quando arriva il momento di spartire con loro il raccolto di ciò che voi avete seminato. Che fra voi e il mulo con cui condividete sforzo e fame e freddo non fanno differenza. Che si scopano le vostre mogli e le vostre figlie perché qua, in questo inizio di Novecento, è ancora e sempre tutta roba loro.
Quando faccio tintinnare il campanello e vi lasciate cadere sulle ginocchia, a questo pensate, alla pena che certamente state scontando sulla terra, che vi varrà – sperate – una carezza sul prezzo finale: perdona, Signore, i miei peccati e quelli dei miei cari. Lo leggo sulle vostre labbra tremanti per gli spifferi e per la paura dell’inferno che potrebbe toccarvi in sorte.

La vostra ripugnanza è il carburante della mia abiezione. La vomito sui ragazzi che si prendono gioco di me, quando riesco ad acciuffarne qualcuno e lo rimando dai genitori pestato per bene. Come il chierichetto cui dovettero staccare la tavoletta chiodata che rabbiosamente gli avevo conficcato nella coscia mentre cercava di tuffarsi fuori dalla sagrestia.

A risalire controcorrente il sangue del mio sangue, dicevo, bisogna perciò imbattersi per forza in un nonno assassino o in una zia puttana. Un ubriacone che per un bicchiere di vino negato al tocco avrà chiamato fuori dalla cantina il cornuto che ha osato tanto, per poi lasciarlo dentro la conetta della strada, riverso sulle sue stesse luride viscere. Una zitellona indifferente al sudore stantio di corpi sfatti dalla fatica e dall’alcol, perché il denaro non fete se la pancia reclama un boccone. La ragione di una punizione divina così appariscente va ricercata in altre vite, mi pare ovvio.
Eppure sono salvo, mentre tutto intorno a me continua a crollare. Il flagello di questo finale d’anno è per voi che avreste banchettato con il poco che custodite nelle credenze di povere baracche, cicatrice ancora fresca di un’altra recente punizione divina. Perché la mia pena è dietro alle mie spalle, non davanti ai miei occhi. Non avrei certo festeggiato, io. Non ne ho motivo. Avrei invece agognato il mattino, per incontrare volti da scrutare e non salutare.
Ne sto incrociando molti, stamattina. Stravolti, impolverati, incrostati di sangue rappreso. Mi aggiro tra le rovine e le vittime che – dicono – sono più di cinquecento, forse mille. Non provo pietà per il dolore e per le lacrime che rendono vive queste strade morte. Come se l’orrore di questo 28 dicembre 1908 fosse la mia rivincita, una vittoria finalmente: la bruttezza ci salverà.

La bruttezza ti salverà. Non tanto il grido d’aiuto che solo io ho raccolto – di certo non possono ascoltarlo le vite che saranno e che attendono le tue mani per affacciarsi al mondo – e che ha portato il mio passo claudicante davanti al cumulo di macerie che ti sta seppellendo viva. Ti tirerò fuori solo se accetterai di sposarmi.
Tocca a te decidere.

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La giustificazione

Ieri mi è stato fatto notare che da un po’ di tempo aggiorno il blog con minore frequenza. Poiché ci tengo alla reputazione di questo mio alter ego, non mi rimane che prendere metaforicamente in mano carta e penna e provare a giustificare la mia “latitanza”. In effetti, sì: è un periodo di bonaccia. Capita, anche perché il 2014 sembra una gara di fondo e forse ho bisogno di recuperare le energie necessarie per affrontare al meglio lo sprint finale. Mi servirà perché sarebbe davvero un peccato restare senza benzina in corpo sul più bello.
Ma non è solo questo. Direbbe Paolo Conte che “è tutto un complesso di cose”. Ad esempio l’impegno con il Partito Democratico, del quale mi onoro di essere segretario cittadino in una situazione locale oggi “difficile”. Perché c’è la maledetta abitudine di trasportare sul piano personale vicende che sono politiche, complicando situazioni che sono molto più semplici di ciò che si vuole strumentalmente far credere. Ad ogni modo, il 23 novembre diremo la nostra, con la consapevolezza di chi sa di dover lottare contro un assessore regionale uscente, un’intera amministrazione comunale e un ex sindaco. Qualche amarezza personale ha ovviamente lasciato strascichi e provocato contraccolpi che probabilmente hanno influito sulla prolificità del blog. Ecco, di questo mi dispiace. Per il blog, ovviamente. Il resto va come deve andare: ho le spalle abbastanza larghe e conosco il mondo con i suoi volubili protagonisti.
C’è poi la riflessione sul destino dei blog in generale. Da anni si dibatte infatti sulla loro “crisi”, provocata dall’irruzione dei social network nel mondo della comunicazione. Qualche sera fa ne discutevo – in un’atmosfera quasi goliardica attorno a un’ottima bottiglia di rosso – con Salvatore Bellantone e Fabio Cuzzola. Non sarebbe male riuscire ad organizzare un evento e coinvolgere altri blogger sul tema del futuro della comunicazione online (portando anche il vino, perché no): tra i primi che mi vengono in mente, Mara Rechichi, Tiziana Calabrò, Pasqualino Placanica e Antonio Calabrò, con i quali ci “seguiamo” a vicenda. Insomma, se ci siete, battete un colpo.

A completamento delle considerazioni sulla ragione della parsimonia dei miei interventi – e rovesciando altresì il celebre adagio in cauda venenum – c’è anche da dire che da qualche mese le mie energie sono assorbite dal lavoro di lima su alcune pagine che a breve saranno stampate. Ci siamo quasi.
Ecco, l’ho detto.

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Muti, Cilea e un po’ di Sant’Eufemia sconosciuta

Le immagini della visita di Riccardo Muti al mausoleo di Francesco Cilea, a Palmi, hanno riportato alla mia mente una curiosità storica della quale forse non tutti sono a conoscenza. L’autore di Adriana Lecouvreur nacque infatti a Palmi il 23 luglio 1866, figlio dell’avvocato Giuseppe e di donna Felicia Grillo. Nelle sue vene scorreva però una parte di sangue eufemiese: quello della nonna Rachele Parisi, figlia di Francesco e Marianna Capoferro, la quale a 23 anni, il 2 giugno 1822, aveva sposato il ventottenne Francesco Cilea, medico originario di Pentidattilo. L’atto di matrimonio, redatto dall’allora sindaco di Sant’Eufemia Antonino Luppino, è conservato nel “Registro dei matrimoni” (anno 1822), presso l’Ufficio Anagrafe e Stato civile.

Un altro filo rosso che lega Cilea alle pendici dell’Aspromonte ci porta invece dritti a Nino Zucco: pittore, scrittore e scultore originario di Sant’Eufemia sulla cui opera l’8 aprile 2013 l’amministrazione comunale ha organizzato un convegno, grazie all’input arrivato da una serie di articoli e interventi che su questo blog avevano denunciato l’oblio ingiustamente calato su uno degli eufemiesi più illustri del Novecento.

Zucco fu infatti spesso ospite della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. È opera di Zucco il celebre quadro che ritrae il Maestro seduto al pianoforte. Così come il disegno a carboncino che ne riproduce il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte.

Fu proprio grazie all’opera di convincimento di Zucco che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito per realizzarne la maschera funeraria.

A trent’anni dalla morte (1981), Zucco diede alle stampe il ricordo e il carteggio attestanti il rapporto “di profonda devozione da parte mia e di benevolenza e affettuosa amicizia da parte del maestro per me che durò fino alla sua morte” (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, Barbaro editore). Un’amicizia iniziata negli anni Quaranta, quando Cilea volle conoscere personalmente l’autore dell’articolo a lui dedicato dal quotidiano newyorkese in lingua italiana “Il Progresso Italo-Americano” del potentissimo Generoso Pope, sul quale a lungo scrisse anche il giornalista e critico musicale Nino Fedele, un altro eufemiese illustre.

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Forza Eufemiese

I campionati di calcio giovanili e le categorie dilettantistiche sono come il militare: periodi “mitici” che si finisce per ricordare negli anni, magari davanti a una bottiglia di vino o a una birra ghiacciata, tra vecchi eroi del tempo andato. Ancora oggi a quelli della mia generazione capita di ricordare la “lotta” tra ragazzini di 13-14 anni, in occasione delle trasferte, per salire su una Fiat 131 blu sulla quale una volta ci stringemmo in nove (più i borsoni). La nostra automobile preferita. Merito del simpatico autista che aveva sempre aneddoti curiosi da raccontare e che, puntualmente, all’altezza dell’uscita di Gioia Tauro, faceva scendere uno o due passeggeri: insomma, quelli che eravamo in soprannumero. Dall’autostrada ci arrampicavamo sul cavalcavia, lui superava in tranquillità l’eventuale posto di blocco della polizia, quindi ci riprendeva a bordo. Perfezione geometrica. La Fiat 126 bianca di Peppe Napoli, che chissà quanti chilometri ha macinato in giro per la provincia, e poi altri bolidi: la Fiat 127 rossa sulla quale al ritorno da Bagnara una volta consumammo un’intera cassetta di fragole; il “maggiolino” della Volkswagen con optional “vista sull’asfalto”, grazie a un buco nella carrozzeria coperto dal tappetino; la Citroen due cavalli, che in teoria non avrebbe mai dovuto cappottarsi: impresa realizzata dal suo proprietario, per fortuna non con noi a bordo.

Amicizie nate nello spogliatoio e intatte decenni dopo, grazie a una passione che andrebbe sempre trasformata in occasione di crescita sociale e umana, collettiva e individuale. Altrimenti non ha senso. Non so se provare tenerezza o sorridere per quelli che si creano chissà quali aspettative. Bisognerebbe invece capire che uno su trecentomila ce la fa e che la finalità di una squadra di calcio dilettantistica non è quella di creare campioni. Anche se qualcuno bravo ogni tanto salta fuori e riesce anche ad avere anche una discreta carriera. Anche se alla fine a nessuno piace perdere. No, il calcio a questi livelli e in queste realtà – come qualsiasi altra attività sportiva – è qualcosa di molto importante proprio perché va al di là della prestazione e del risultato. Vincere o perdere non è tanto questione di un gol in più o in meno. Vincere o perdere è riuscire ad essere fattore di aggregazione, trasmettere valori positivi a ragazzi che domani diventeranno adulti. Condivisione, rispetto, responsabilità e sacrificio: talenti che vanno oltre la pratica sportiva, elementi fondamentali del percorso di maturazione che ogni ragazzo vive.

Lo so che sono di parte, perché è mio amico e perché per molti anni su quella Fiat 126 bianca ci sono salito ogni settimana, per andare a volte in posti impossibili nei quali non sono mai più ritornato: Cataforio, ad esempio.

Dirigenza, allenatori e giocatori passano, ma lui c’è sempre: da almeno 35 anni dici Eufemiese (ora A.C. Sant’Eufemia) e inevitabilmente pensi a Peppe Napoli. Una passione che non ha mai flessioni, nonostante le difficoltà di un impegno gravoso anche sotto l’aspetto organizzativo. Domani inizia il campionato di Seconda categoria, che avrà tra le protagoniste l’Eufemiese (io la chiamerò sempre così): un grosso in bocca al lupo a Peppe Napoli, a mister Franco De Luca, ai collaboratori e ai ragazzi. Forza Eufemiese!

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Perché voto Oliverio

Al termine di una telenovela estenuante e a dire il vero anche stucchevole, finalmente domenica 5 ottobre si terranno le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza della giunta della Regione Calabria. Non era scontato che finisse così: chiunque segua con un minimo di attenzione le vicende politiche del partito democratico calabrese ha potuto verificare gli innumerevoli tentativi messi in campo più o meno strumentalmente per impedire il rispetto dello statuto del partito, che all’articolo 18 prevede lo svolgimento delle primarie per le cariche monocratiche istituzionali. Mesi a gettare sul tavolo il papa nero, quello bianco e l’altro arancione; chilometri su chilometri macinati tra via delle Nazioni a Lamezia e via del Nazareno a Roma, per trovare una quadra che semplicemente non c’era, come poi s’è visto. Non si è capito molto, purtroppo scontiamo un atavico deficit di chiarezza, ma tra quel poco c’è di sicuro l’ostilità pervicace di alcune frange del partito (segretario regionale in testa) nei confronti della legittima aspirazione del presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio, in campo già dalla primavera scorsa e con le carte abbondantemente in regola: ben 153, su 300, sono stati infatti i delegati regionali firmatari della sua candidatura.
Tra i candidati in lizza, considero Oliverio il più idoneo a guidare una regione complessa come la Calabria, principalmente perché dotato di un cursus honorum adeguato e del riconoscimento della bontà del suo impegno nelle istituzioni, come certifica l’apprezzamento unanime del lavoro svolto, da ultimo, a capo della Provincia di Cosenza. Esperienza che servirà molto più degli slogan, considerato che – finito il tempo della propaganda – poi bisognerà amministrare. Oliverio ha dimostrato di sapere governare: a questo si deve guardare quando si andrà a votare, non certo alla carta d’identità che di per sé può anche non significare niente. Il cambiamento vero va perseguito sul campo, nella guida di un ente che fa acqua da tutte le parti e che ha l’assoluta necessità di recuperare in credibilità. Altrimenti il cambiamento rischia di rivelarsi una bandiera sventolata in campagna elettorale e subito dopo riposta nel cassetto dei buoni propositi. La ragione per cui scelgo Oliverio, in definitiva, risiede nella sua affidabilità amministrativa.
Di Gianluca Callipo non mi convince la trita riproposizione dell’armamentario propagandistico renziano, lo scimmiottamento su scala locale del modus operandi del presidente del consiglio, il generico e ostentato richiamo al “cambiamento”. Indispensabile come l’aria, certo. Ma a partire dal rapporto con gli elettori, se non si vuole che rimanga parola vuota. Cambiamento significa, ad esempio, mettere chiarezza su “chi sta con chi” e porre fine ad atteggiamenti ambigui. Il trasversalismo della campagna per le primarie di Callipo, da questo punto di vista, è davvero imbarazzante. E prima o poi occorrerà aprire una discussione sull’opportunità di primarie condizionate dal voto di non iscritti ai partiti del centrosinistra. Personalmente, non mi rassegno all’idea che le “nostre” primarie possano essere inquinate dal voto di settori del centrodestra, oggi disorientati dal fallimento di quello schieramento e alla ricerca disperata di una nuova verginità politica. Transumanze dettate dall’opportunismo e che niente hanno a che fare con le ragioni ideali della politica. Votare Oliverio vuol dire anche sbarrare la strada al trasformismo dei gruppi di potere cresciuti a pane e inciuci.

* A Sant’Eufemia d’Aspromonte il seggio sarà allestito all’interno del Palazzo municipale, domenica 5 ottobre dalle 8:00 alle 21:00.

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Anime nere

“Che ci fanno queste anime/ davanti alla chiesa/ questa gente divisa/ questa storia sospesa”: “macchie di lutto” per Fabrizio De André e Ivano Fossati in Disamistade. “Anime nere”, nel libro di Gioacchino Criaco dal quale Francesco Munzi ha tratto un film potente, spiazzante per chi temeva la semplificazione del ricorso alle categorie del bene e del male. Come se la questione fosse solo identificare il male senza riuscire a raccontarlo. Non per tentare di spiegarlo, magari ricorrendo a giustificazioni storiche o sociologiche, con il rischio di offrire – anche soltanto involontariamente – un assist all’alimentazione del suo fascino perverso. Bensì per gridare: questo siamo, questo esiste. Nonostante noi, vittime e carnefici; nonostante voi, che ci impiegate un attimo a capire tutto rifugiandovi in comodissimi stereotipi. Con tutta l’umanità possibile, senza retorica e cercando di proteggere quel che resta dell’uomo risucchiato dal gorgo della violenza, condannato a un destino quasi ineluttabile. Fatto di sangue che chiama sangue. Ma forse ancora capace, se non di redimersi, di ribellarsi ai codici della morte pur provocando ancora morte, superbo e drammatico paradosso che rimanda ai temi universali della tragedia greca.
Anime nere è una fotografia, racconta uno spaccato della realtà calabrese per come essa è, senza la presunzione di insegnare nulla: “non è mio compito lanciare messaggi”, ha precisato Munzi nel dibattito seguito alla prima del “Lumiere” di Reggio Calabria. Come d’altronde aveva già fatto Criaco nelle pagine del romanzo, epopea criminale che innalza a tragedia universale il dramma familiare di una famiglia di pastori diventata nel giro di una generazione protagonista mondiale del traffico internazionale della droga e del riciclaggio di denaro sporco. Ascesa inarrestabile, comune a molte famiglie di ’ndrangheta, che non può che concludersi dietro le sbarre o sottoterra. Subito dopo i titolo di coda, la commozione di Criaco è diventata così l’emozione degli spettatori, un tutt’uno con il “collettivo urlo liberatorio” richiamato nel suo intervento dallo scrittore per definire l’esito della pellicola.
Lutto dopo lutto, le contraddizioni delle “anime nere” si sciolgono nel sangue di un finale sorprendente, che realizza sul piano della realtà il falò con cui Luciano (uno straordinario Fabrizio Ferracane) brucia metaforicamente il passato, il presente e il futuro della propria famiglia. Per i figli dei pastori diventati criminali non c’è salvezza. Non per Luciano, che era rimasto quando probabilmente avrebbe fatto meglio ad andare. Né per Luigi (Marco Leonardi), che passa indifferentemente dal night di mille euro a notte allo scuoiamento di un capretto gonfiato soffiando dentro una penna Bic. Tantomeno per Rocco (Peppino Mazzotta), che non sa resistere al richiamo del sangue e incarna l’immortalità di “regole” arcaiche tramandate nel dialetto africoto dei dialoghi sottotitolati in lingua italiana, respirate insieme alla stessa aria dei paesaggi dolorosamente stupendi dell’Aspromonte, trasformati da Munzi in set cinematografico.

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La promessa

Pizzico queste sei corde, il loro suono accompagna la nenia senza tempo che mi sussurravi da bambino per farmi addormentare. Anche i mostri che il lume a petrolio proiettava sulla parete trovavano finalmente riposo, una pace che negli anni non ho più vissuto. Una tregua che vorrei siglare ancora, irricevibile a quanto pare.

Non lo so se riesci ad ascoltarmi, ma io sono qua. Per quanto possa esserti di conforto, proprio davanti a te. Forse è più utile a me, ma non importa. Importa il silenzio rotto dal canto di questa storia che sa di muffa e cimici. Storia non memorabile, ma mia: ciò che ero; ciò che sono.

Ti osservo con la devozione di un fedele inginocchiato ai piedi della statua muta. Ti guardo e attendo parole che so non arriveranno mai. Che mai potranno arrivare. Mi accontento del soffio che a fatica esce dal tuo petto e che sorreggo fino a farlo adagiare sopra le lenzuola candide. Lentamente, quasi accompagnandolo dal palmo delle due mani ai fiorellini ricamati sul lino. Come in una deposizione già vista. Devo accontentarmi di questo perché altro di te non mi rimane. Né molto di me, che ho rinunciato a tutto pur di tenere fede al nostro patto:

– Anche se non tu dovessi più essere capace di badare a te stessa, non ti porterò in ospizio. Stai tranquilla, mamma: te lo prometto.

Ti avevo appena raccontato del pranzo di Natale con gli ospiti della casa di riposo. Mi aspettavo pochi anziani, immaginandone la gran parte al tepore delle famiglie, arbitri delle rumorose corse ingaggiate dai nipotini per presentare i regali della mezzanotte:
– Guarda cosa mi ha portato Babbo Natale!

Invece erano tutti presenti, gruppo marmoreo dell’aridità e di una salvezza che stentiamo a riconoscere. Solitudini rassegnate, aspre, ignare. Lontane dallo squillo di voce che nel pomeriggio anticipava l’indicazione dei numeri sul tabellone. Lontane dal nostro dovere di umanità. Altrove.

Un Natale che ricorderò per sempre. Come quello dei miei otto anni, una tavola spoglia e niente da mangiare, neanche un pezzo di pane. Avevo adocchiato un deposito di patate da semina: tra il pensiero e lo scasso fu un attimo, cosicché cominciai a scegliere le migliori per portarle a casa, quando i miei occhi si posarono a terra, su di uno strano foglio color mattone piegato in quattro. Lo aprì e in quell’istante imparai ad amare Dante Alighieri, il cui profilo austero occupava il centro della banconota da 10.000 lire. Allora fu carne, come non ne vedevamo da Carnevale. Se chiudo gli occhi riesco a sentire le tue lacrime scorrere calde sulle mie guance. Le stesse di quando scappai di casa per due giorni temendo una tua punizione per quell’uovo che avevo rubato in un pollaio e bevuto d’un fiato, che invece tu sapevi stantio, lasciato sotto il culo della gallina per la cova.

Devo al Sommo Poeta il più bel pranzo di Natale della mia vita.

Vorrei regalartene uno uguale, per riassaporare ora quella felicità. Per diventare ancora una volta il tuo piccolo eroe. Mi aggrappo al ricordo della morbidezza del tuo grembo quel giorno, cercando di non farmi trafiggere dalle raffiche di nostalgia. E mi ritrovo a cullare i tuoi 38 chili in questo finale scelto insieme, che non mi permette di entrare nei tuoi occhi per scoprire cosa guardano quando mi fissi senza sorridere. Ma che contiene tutto ciò che c’è da sapere.

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La colonia estiva dell’Agape

Ha ragione chi ha commentato lo scatto rubato al gioco di due bambini speciali – uno affetto da una grave patologia, l’altro extracomunitario – con la considerazione che loro sì avrebbero tutti i titoli per tenere un corso di studi o una conferenza sui temi dell’integrazione e della lotta a ogni tipo di discriminazione. E viene da riflettere sulle responsabilità della società degli adulti nell’opera quotidiana di corruzione di uno stato di natura che è fatto di tolleranza, non di violenza dell’uomo contro l’uomo.
Per questo e per tanti altri motivi non è retorico ribadire che chi fa volontariato il dono lo riceve, non lo dà. Perché i maestri migliori sono quelli che ignorano di esserlo eppure riescono a insegnare l’autenticità della vita con un sorriso, un abbraccio, una carezza. A ricordarci quanto sia penoso affannarsi in inutili complicazioni quando è tutto così semplice, quasi come fare una torta di sabbia e provare emozione per un “capolavoro” che le onde del mare presto porteranno via.
La colonia estiva dell’Agape di Sant’Eufemia viaggia verso i venti anni. Alcuni volontari non ne hanno saltata neanche una, altri si sono aggiunti estate dopo estate, in un ricambio generazionale sempre più sofferto che quest’anno ha però registrato il segno positivo, grazie alla partecipazione di due nuove ragazze che hanno fatto la differenza e sulle quali l’associazione spera di fare affidamento nelle prossime edizioni, insieme a chi all’ultimo minuto ha dovuto a malincuore rinunciare e ad altri che vorranno unirsi a un gruppo affiatato, composto anche da quelli che ormai si portano dietro i figli. Bravissimi.
Anche tra i “ragazzi” in ciambelle e braccioli (dieci, di età compresa tra 6 e 63 anni) ci sono state novità. Segno che occorre continuare a tendere l’orecchio e ad osservare la comunità con occhi attenti, sentinelle dell’emarginazione, della solitudine, dell’indifferenza.
Il desiderio del mondo del volontariato è scomparire, perché ciò significherebbe che le istituzioni riescono a garantire i diritti di tutti e a soddisfare i bisogni delle categorie sociali più deboli. Purtroppo così non è, proprio per questo l’azione di supplenza del welfare sviluppata dalle associazioni rappresenta un patrimonio – non solo di umanità – prezioso e provvidenziale.

Chi ha preso parte alla colonia avrà frammenti di felicità da custodire nel segreto della propria anima: canzoni e giochi di parole, una mano che ne sostiene un’altra per girare la stecca del calciobalilla, il coro “oh-issa” per le uscite dall’acqua più impegnative, la corsa di una ragazza ebbra di gioia per salutare il pulmino dopo il ritorno a casa. Gesti semplici perché l’amore è così: semplice. Ma anche quel magone finale, da spingere e tenere giù a forza, di fronte alle domande senza risposta sul dolore degli uomini, sulle ragioni insondabili della crudele lotteria che condanna o salva lo stesso innocente.

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Sulla vicenda dei Bronzi la penso così

Puntuale come il cd autunnale di Mina, l’estate 2014 ha portato in dono il sempreverde dibattito sulla trasferibilità dei Bronzi di Riace. Questa volta ci ha pensato l’ambasciatore per le Belle arti di Expo 2015 Vittorio Sgarbi a rispolverare la vexata quaestio, prima proponendo l’idea di un tour meneghino per i due guerrieri greci in occasione dell’esposizione universale e poi traducendo l’auspicio in una richiesta ufficiale – sottoscritta insieme al presidente della Lombardia Roberto Maroni – al ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha preannunciato la costituzione di una commissione di esperti per decidere sulla trasportabilità delle due statue. Neanche a dirlo, la polemica è divampata immediatamente. Molte le reazioni stizzite: “chi vuole vederli deve venire a Reggio, a Milano si porti il David di Michelangelo e vediamo cosa dirà Renzi in proposito”, il senso di quelle più concentrate sul campanile. Non sono mancati però i possibilisti: “sarebbe una bella pubblicità per la città e una buona occasione per guadagnarci qualcosa”. D’altronde, dai sei mesi di visite al Padiglione numero 1 che dovrebbe ospitare i Bronzi, Sgarbi ipotizza un incasso di 15 milioni di euro, un terzo dei quali – assicura – potrebbe essere destinato alla città di Reggio.
Inevitabili, poi, anche le remore sulla fattibilità di scarrozzare le due statue senza rischiare di danneggiarle. Questo sì problema sul quale non ci si può dividere e preliminare rispetto a qualsiasi altra considerazione.

Assodata quindi la priorità della loro salvaguardia e al netto delle guerre di religione tra chi è pronto a fare le barricate per non spostarli dal museo di Reggio Calabria e chi è disposto ad accettare di spedirli in giro per l’Italia o per il mondo, il dato da cui bisogna partire, senza pregiudizi, è che i Bronzi – ora come ora – non creano turismo culturale, né indotto economico.
Perché è un bel dire “i turisti devono venire qua”, quando la verità inconfutabile è che i turisti a Reggio non vengono. Chi ha competenze tecniche e responsabilità di governo su questo dovrebbe confrontarsi, in modo da elaborare una proposta seria e realizzabile entro un paio d’anni. Avvitarsi perennemente in un dibattito inconcludente non risolve il problema; semmai, diventa un alibi all’inefficienza di chi doveva fare e non ha fatto, per negligenza o per incapacità. E, quindi, sarebbe forse più utile concentrarsi su come agire per rimuovere i molti ostacoli strutturali e incoraggiare il flusso turistico a Reggio.
Si potrebbe ad esempio pensare all’istituzione di una commissione per il rilancio e la valorizzazione del museo della Magna Grecia, composta da soggetti istituzionali e esperti del settore, alla quale affidare l’incarico di elaborare un progetto organico di sviluppo culturale della città in grado di colmare il gap di ricettività del territorio e di fruibilità dell’arte che Reggio sconta nei confronti di altre realtà nazionali e internazionali. Magari facendo ricorso proprio ai fondi garantiti dalla tournée dei Bronzi a Expo 2015 o da altre, limitate nel tempo, da svolgersi nell’ambito di eventi di eccezionale partecipazione.

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