Nel nome di Sant’Ambrogio

Un lungo filo rosso tiene insieme solidarietà e memoria, facendo rivivere una storia lontana ma viva, una prova di umanità che da oltre un secolo lega Sant’Eufemia a Milano e al culto di Sant’Ambrogio.
Il terremoto del 28 dicembre 1908 distrusse l’intero paese. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza: l’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato si ferma a 530 vittime, che diventano circa 700 per la giunta comunale del tempo; ma secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, superiori al migliaio. Duemila i feriti, una percentuale di patrimonio edilizio perduto pari all’85%.
Nella testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè il primo ad arrivare a Sant’Eufemia fu il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito: «Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».
Il giorno dopo giunsero i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’ingegnere Antonio Pellegrini, che redasse la relazione sul lavoro svolto dal comitato, illustrò la divisione dei compiti tra medici, ingegneri e semplici volontari: «Ingegneri e muratori alle demolizioni, all’estrazione dei cadaveri, al recupero di masserizie; medici, volontari, infermieri alla ricerca dei feriti e degli ammalati, alle medicazioni, alla disinfezione dei cadaveri. Né solo questo fu l’aiuto primo portato agli eufemiesi; la povera popolazione, affamata e lacera, ebbe in quantità pane, galletta, carne, pasta, biancheria, coperte, abiti».
Nei terreni della Pezza Grande, sui quali inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, furono costruite tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. Enorme fu anche il contributo della Croce Verde, la quale – oltre alle numerose casse di medicazione, medicinali, tende e coperte – aveva inviato sui luoghi del disastro l’Automobile Ospedale “Pompeo Confalonieri”: «Centro dell’ambulatorio – si legge in una relazione del tempo – era l’automobile ospedale, che con i suoi fianchi aperti e colle larghe tende, riparava i malati più gravi, ricoverava le donne ferite per le medicazioni; e sembrava dimostrare che la fraternità di Milano era venuta grande e premurosa ad allargare le sue braccia in sollievo degli sventurati».
Nel mese di marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”. Al completamento dei lavori, il nuovissimo rione “Città di Milano” contava 759 baracche, capaci di ospitare 2.000 sfollati. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari.
Il 9 marzo, dopo avere ricevuto il parere favorevole dell’amministrazione comunale milanese guidata dal senatore Ettore Ponti, il commissario prefettizio Consalvo Cappelli deliberò che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, fosse da quel giorno la bandiera del Comune di Sant’Eufemia.
Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, costituita nel dicembre del 1975 e promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città. Più volte una sua delegazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio. Nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.

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Tutto è bene quel che finisce bene

Sant’Eufemia è tornata al suo posto. Nei giorni scorsi avevo dato la spiacevole notizia della scomparsa della statuetta di Sant’Eufemia che da tre anni si trova nella chiesa di Ognissanti a Londra. Con la statua, erano anche scomparsi il piccolo altare, le piante e i fiori: un trafugamento inspiegabile, ma anche misterioso per le sue modalità.
Ad aggiungere mistero al mistero, è di oggi la bella notizia che altare, statuetta, piante e fiori sono nuovamente al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross.
Può darsi che chi ha commesso il furto sacrilego si sia in un secondo momento ravveduto. Chissà, forse come nel Canto di Natale di Dickens, l’avvicinarsi del Natale ha aperto il cuore del novello Scrooge.
Oppure che abbia ragione Padre Grant, il quale ha così commentato la scoperta fatta una volta entrato in chiesa: «Forse qualcuno ha avuto bisogno di averla accanto per qualche giorno, per trovare conforto nella sua presenza. Il suo ritorno è un invito a non perdere mai la speranza sulla natura generalmente benigna dell’essere umano».

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Rubata a Londra la statuetta di Sant’Eufemia

Del piccolo altare è rimasta solo l’ombra sul muro, come i segni lasciati sulle pareti del castello Voltaire dai mobili che non ci sono più, nel celebre romanzo Atlante occidentale di Daniele Del Giudice.
Accostato di lato, anche il pannello illustrativo che racconta la storia di Sant’Eufemia infonde mestizia. Spariti anche i fiori e le piante. Sparita, ovviamente, soprattutto lei, la statuetta della patrona che tre anni fa con mio fratello Mario avevamo deciso di fare arrivare a Londra (Sant’Eufemia a Londra) e che era stata collocata al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross, la chiesa di Ognissanti in stile neogotico distante una trentina di minuti da Trafalgar Square.
Grande accoglienza allora, sintetizzabile nelle parole di una parrocchiana della multietnica comunità di New Cross: «È bellissima, ha l’aspetto di una che ascolta. Le porterò dei fiori: tutti meritiamo di essere ascoltati».
E grande amarezza oggi, che il giovane parroco Padre Grant non ha nascosto nel momento in cui ha dovuto comunicare l’accaduto: «Purtroppo questo è il mondo in cui viviamo, dove una cosa del genere diventa accettabile, perché non sorprende».
In effetti, i tempi questi sono… Ma ci riproveremo.

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L’intima gioia

In un celebre esperimento del 1971, lo psicologo Philip Zimbardo e un team di ricercatori ricrearono nei sotterranei dell’Università di Stanford (California) le condizioni di una prigione. Tra 70 studenti furono selezionati 24 volontari, valutati idonei dopo essere stati sottoposti a diversi test della personalità, i quali furono divisi casualmente in due gruppi da dodici: metà guardie e metà detenuti. L’esperimento, che doveva durare due settimane, fu interrotto dopo sei giorni, in conseguenza dei ripetuti ed eccessivi episodi di sadismo e di violenza delle guardie nei confronti dei detenuti.
L’ esperimento carcerario di Stanford aveva lo scopo di comprendere cosa spinge persone buone a diventare cattive in situazioni specifiche: «Il male – scrisse Zimbardo nel libro L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? – è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio».
Fatti di cronaca più o meno recenti sembrano confermare questa tesi. Da ultimo, gli abusi e le violenze emerse nell’indagine che a Trapani ha portato all’arresto di undici poliziotti penitenziari e alla sospensione dal servizio di altri quattordici.
Il clima politico e culturale, d’altronde, alimenta gli istinti più bassi nell’approccio alle tematiche dell’esecuzione della pena e, più in generale, alle problematiche carcerarie. Indignarsi per le condizioni disumane delle carceri italiane, per il loro sovraffollamento, per gli 81 suicidi da gennaio ad oggi, è impopolare e non porta voti. Ha più appeal la logica securitaria del “buttare le chiavi” e l’idea che fare soffrire chi finisce in carcere, in fondo, è del tutto naturale. Se la sono cercata. E pazienza se il detenuto sta già scontando il reato commesso con la privazione della libertà: l’ulteriore e gratuita afflizione dell’offesa alla dignità umana non desta scandalo.
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove, evidentemente, è dello stesso avviso: «L’idea – ha dichiarato in occasione della presentazione della nuova auto per il trasporto dei detenuti – di vedere […] come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia». Poiché qualcuno gli ha fatto notare la bestialità dell’affermazione, si è corretto precisando che si riferiva ai detenuti mafiosi.
Il sottosegretario, che pure dovrebbe esserne a conoscenza, non sa o fa finta di non sapere che nelle carceri italiane ci sono migliaia e migliaia di “presunti” mafiosi che in realtà non lo sono, come spesso viene certificato dalle archiviazioni e dalle assoluzioni successive all’arresto. Innocenti che soltanto in virtù dello stigma del 416 bis subiscono umiliazioni quotidiane, che nelle “traduzioni” sono costretti a tenere le manette, fino a provocarsi profondi solchi sui polsi al termine di un viaggio di centinaia di chilometri, in furgoni-fornaci nei quali sono tenuti chiusi i bocchettoni dell’aria climatizzata nel vano posteriore, quello riservato ai detenuti. Che vengono fatti scendere nei piazzali delle aree di servizio e accompagnati in bagno come asini alla cavezza. Che si ritrovano in celle di sosta dall’aria irrespirabile per l’umidità, tra cartacce sporche di escrementi.
Il problema, in realtà e purtroppo per Del Mastro e per quelli che la pensano come lui, è più complesso. L’umanità è un valore universale e prescinde dalla dicotomia innocente/colpevole. Per molti il ragionamento è complicato, ma secoli di cultura giuridica – compendiati nell’articolo 27 della Costituzione italiana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) – affermano proprio questo.
La grandezza di una democrazia e dei suoi rappresentanti è tutta qua. La miseria di certe dichiarazioni, anche.

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I cioccolatini della ricerca Airc 2024

Anche quest’anno l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia sarà al fianco dell’Airc, che torna in 2.000 piazze per distribuire le colorate confezioni da 200 grammi di cioccolato fondente Venchi.
Nel 2023 sono state registrate in Italia 395.000 nuove diagnosi di tumore (208.000 tra gli uomini e 187.000 tra le donne), più di mille al giorno. I progressi nella ricerca rendono però più efficaci le cure e prevengono le recidive: tra il 2010 e il 2020 sono infatti aumentate del 54% le persone vive a dieci anni di distanza dalla diagnosi.
Con l’acquisto dei cioccolatini della ricerca offriamo un contributo concreto al lavoro di circa 6.000 ricercatori Airc, per rendere il cancro sempre più curabile.
Vi aspettiamo in piazza Matteotti, domenica 10 novembre, a partire dalle ore 9:00.

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4 novembre

La ricerca sugli eufemiesi che parteciparono alla Prima guerra mondiale, durata quasi quattro anni, si rivelò molto impegnativa, perché mai come allora il foglio da riempire si presentava bianco. Scrivere la biografia di ogni singolo soldato è operazione molto complessa, realizzabile soltanto incrociando i dati forniti da diverse fonti. Le informazioni sui circa 600 militari di Sant’Eufemia d’Aspromonte che parteciparono al conflitto si trovano infatti sparse tra le pagine di 257 volumi di ruoli matricolari della provincia di Reggio Calabria, da sfogliare una ad una, così come le schede contenute nei 67 cassetti dell’Ufficio notizie. Ma le difficoltà sono anche altre, ad esempio riuscire a seguire gli spostamenti delle compagnie sul fronte di guerra o individuare i paesi e le frazioni dove venivano allestiti gli ospedali da campo, la cui numerazione varia costantemente.
La ragione dello studio pubblicato nel libro Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra (Il Rifugio editore, 2018) si può riassumere nella volontà di andare oltre i freddi numeri. Mi interessava ribadire la funzione etica della parola scritta in quanto atto di giustizia nei confronti degli ultimi, dei dimenticati, di coloro che attraversano la storia senza lasciare alcuna traccia. Per questo avevo bisogno di tutti quei giovani, non soltanto degli ottantotto ai quali era già stata riservata qualche riga nell’Albo d’Oro dei caduti.
Non si può comprendere il significato di quella tragedia se non si entra nei camminamenti insieme a chi li percorse allora, senza patire insieme ai fanti il gelo dell’inverno sul Carso, la fame, le condizioni igieniche aberranti delle trincee. Dei circa seicentocinquantamila caduti italiani, centomila morirono per malattia: febbri, bronchiti, polmoniti, infezioni, colera, tubercolosi, tifo, malaria, meningite, “spagnola”. A quella sofferenza volevo dare un nome e un volto, in modo da percepirla ancora viva, più vicina a chi la legge tradotta in una cifra: ventuno, il numero degli eufemiesi morti per malattia.
Ho così visto i piedi congelati di Antonino Carlo sull’Asiago e di Francesco Villari sul Pasubio, e sono stato accanto ai 130 feriti e ai 72 prigionieri nei campi di prigionia austro-ungarici e tedeschi, dove le condizioni di vita erano durissime. Giovani ammassati in baracche prive di qualsiasi forma di riscaldamento, con a disposizione una razione di cibo (una minestra con poche foglie di rapa, una patata, pochi grammi di pane) inferiore a 1.000 calorie giornaliere. La denutrizione e la scarsissima igiene provocavano l’insorgere di epidemie, il dilagare della dissenteria e uno stato di deperimento che in breve tempo portava molti prigionieri alla morte: tra questi e insieme ad altri cinque eufemiesi, Domenico Ceravolo, stroncato da un’enterite nel campo di prigionia di Milowitz, in Boemia.
I versi di “San Martino del Carso” ci toccano più nel profondo se scopriamo che, tra i morti asfissiati in seguito all’attacco chimico austriaco sul monte reso immortale dai versi di Giuseppe Ungaretti, cinque erano nostri nonni o bisnonni.
Ma mi interessava anche scoprire l’umanità che mai capitola, nemmeno tra le atrocità e l’abiezione della guerra. L’eroismo del diciottenne Antonino Tripodi, che trae in salvo cinque civili travolti dall’inondazione provocata da una piena dell’Isonzo, le commoventi cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, la lettera che Antonia invia al marito Giuseppe Luppino insieme ad una ciocca di capelli castani, la punizione assurda di Bruno Cammarere, reo di avere dato di nascosto del vino a un prigioniero austriaco.
Tra i soldati eufemiesi morti nella Prima guerra mondiale, undici risultano dispersi. Di loro non fu mai trovato il corpo, nessun fiore fu posato sulle loro tombe. La ricostruzione della loro tragica vicenda militare è una forma di risarcimento postumo, un modo per considerarli meno dispersi.

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L’orologio azzurro di Giuseppe

Quando in spiaggia giocavi a pallone con gli altri bambini, non sapevo se essere felice o piangere mentre osservavo la tua determinazione nel calciare con tutta la forza che avevi. Ancora riuscivi a muovere qualche passo, se qualcuno ti sorreggeva da dietro. Alzami tu, dicevi. La più bella dichiarazione di fiducia mai ascoltata. Ripetuta negli anni. Sulle rampe delle scale con le tue braccia attorno al collo, sull’altalena che non avevi mai provato e della quale volesti fare esperienza, al largo, in mare, per raggiungere la boa diventata tua personale conquista: gli occhi sorridenti e le mani che si agitavano per richiamare l’attenzione degli altri volontari dell’Agape sulla riva. Avrei voluto piantarci una bandierina su quella boa: «Giuseppe è arrivato fin qui».
Nell’acqua ti sentivi libero, come se avessi lasciato sulla terraferma la gabbia della malattia che ti inchiodava ad una sedia a rotelle. Per questo volevi essere lasciato solo e allontanavi le nostre mani dalla ciambella.
La felicità aveva il colore del mare e della sabbia, e il suono della tua voce che inseguiva la boccia lanciata e caduta pochi centimetri davanti ai tuoi piedi. Vincevi lo stesso tu. Vincevi sempre tu. Come nella playstation: sullo schermo correvi e segnavi al pari di tutti gli altri bambini, ti lanciavi in tackle oppure ti tuffavi per parare il rigore di un incredulo Higuain, rassegnato e con le mani tra i capelli al cospetto della tua prodezza.
Abbiamo inventato tanti giochi e ne abbiamo cambiato i regolamenti, ogni volta che l’abbiamo voluto. In questo siamo stati liberi, nessuno poteva decidere per noi.
Sapevamo che il tempo ci era nemico. Ma chissà poi se è stato così. Non si può accettare la morte di un ragazzo. Non la possono accettare i genitori, non la possiamo accettare noi che ti abbiamo voluto bene. Se il tempo ha un inizio e una fine, se il dolore ha un inizio e una fine. Ma se ora e allora sono un tutt’uno, se riusciamo a confondere e a confonderci nell’unicità delle nostre esperienze: cosa sono stati i tuoi diciott’anni? Cosa il fuoco della tua lotta?
Il tempo scandito dal tuo orologio azzurro era diverso dal nostro. Tu lo sapevi, per questo hai detto ad Assunta, tua madre, di tenerlo al polso lei, quando non ci saresti più stato. Perché il tempo dell’amore non ha tempo, non ha scadenza. Come il pupazzo di Winnie the Pooh, che ti accompagnò con noi a Lourdes e che è con te oggi, in questo tuo ultimo viaggio.
Ho letto l’esperienza di un padre distrutto di fronte alla fragilità del figlio disabile, eppure capace di cogliere il senso più profondo della vita. Ciò che importa – diceva – non è capire fin dove potrà arrivare un figlio disabile, se riuscirà ad acquisire competenze e abilità, se sarà un minimo autosufficiente, o se non lo sarà per niente. Ciò che importa è cosa i genitori e coloro che gli vogliono bene saranno “capaci di fare”, cosa saranno “disposti a diventare”. Se saranno capaci di arrivare alla sua altezza.
Non lo so se siamo stati alla tua altezza. So però che hai cambiato in molti di noi il modo di vedere le cose, la prospettiva del mondo. Ci hai fatto capire cosa è importante e cosa è invece superfluo, coreografico, privo di sostanza. Ci sei stato maestro.
Ho un ricordo di molti anni fa, un saggio di musica nel teatro della scuola media. L’insegnante che ti aiuta ad alzarti, la tua fatica nello spingere in avanti le gambe per giungere alla pianola. Un passo dopo l’altro, un rallenty sospinto dagli occhi di tutti e poi “Jingle Bells”. Sorretto dalle mani sicure della docente, tra il silenzio e l’emozione della sala, tutta concentrata sulle tue dita che battono i tasti bianchi e neri: «Suonate campane, suonate tutto il tempo».
Continua a suonare, Giuseppe. Per te, per noi, per la vita che ci hai insegnato.

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Passeggiata letteraria tra le vie di Sant’Eufemia

Grazie ad “Adexo”, che ha voluto inserire tra le iniziative del cartellone “Balenando in Burrasca Reading Festival” la passeggiata tra i profili illustri, gli edifici e i luoghi che hanno segnato la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Grazie all’Istituto Comprensivo Sant’Eufemia – Sinopoli – Melicuccà, ai ragazzi delle classi 3A e 3B della scuola media, che hanno partecipato con interesse alla conversazione ispirata dai pannelli illustrativi collocati nei vari punti del paese.
D.F.

IL REGGINO, 10 ottobre 2024 (articolo della redazione)
Sant’Eufemia d’Aspromonte, Domenico Forgione a Balenando Festival con la passeggiata letteraria

L’appuntamento si è concretizzato con un incontro itinerante che coniuga la ricerca storico-letteraria con l’attrazione turistica
La cultura si sposa con la montagna: una originale Passeggiata Letteraria a S. Eufemia D’Aspromonte si è realizzata grazie a una speciale guida: lo storico Domenico Forgione che ha proposto un itinerario montano tra letteratura, storia e suggestivi luoghi. In collaborazione con il Balenando in Burrasca Reading festival, infatti, Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata protagonista di un racconto caratterizzato dall’attraversamento di tappe importanti che hanno visto protagonisti i profili illustri di quei personaggi che hanno segnato la storia del territorio, ma anche gli edifici e i luoghi che ancora oggi rappresentano punti di grande interesse paesaggistico, turistico e culturale.
«Un modo per entrare nella storia del paese e proporla a chi lo visita – racconta lo storico Forgione – quindi si può dire che il percorso proposto è una sorta di vero e proprio museo all’aperto. Nella passeggiata è stata ricostruito il corso degli eventi del paese di S. Eufemia D’Aspromonte attraverso i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti più significativi». Si è partiti dalla zona più antica del sito, per attraversare le varie epoche affascinando soprattutto i giovanissimi studenti che, grazie alla dirigente Francesca Barbaro con gli insegnanti, Mariella Fedele, Teresa Zappalà, Rossella Morabito, Alessandra Tedesco, Gabriele Bello e Francesco Luppino, hanno aderito con grande entusiasmo al progetto, accompagnando all’interessante evento le classi 3A e 3B delle Scuole Secondarie di I grado “V. Visalli” Sant’Eufemia d’Aspromonte e dell’Istituto Comprensivo “Sant’Eufemia – Sinopoli – Melicuccà”. L’appuntamento si è concretizzato mercoledì 9 ottobre a S. Eufemia D’Aspromonte con un incontro itinerante che coniuga la ricerca storico-letteraria con l’attrazione turistica.
L’appuntamento letterario fa parte del programma di Balenando in Burrasca Reading festival, realizzato a cura di associazione Adexo con risorse Pac 2014/2020 – Az. 6. 8. 3. dalla Regione Calabria – Dipartimento Istruzione Formazione e Pari Opportunità – Settore Cultura.

GAZZETTA DEL SUD, 11 ottobre 2024 (articolo di Giuseppe Fedele)
“Balenando in Burrasca” – Passeggiata letteraria per amare S. Eufemia

Studenti dell’I.C. guidati dallo storico Forgione per le vie del paese
Guidata dallo scrittore, storico e ricercatore Domenico Forgione, mercoledì mattina ha avuto luogo una “Passeggiata letteraria”, evento inserito nel tabellone stagionale annuale delle iniziative di “Balenando in Burrasca” reading festival organizzato dall’associazione “Adexo” di Reggio Calabria, con la collaborazione della scuola secondaria di I grado “V. Visalli” di Sant’Eufemia d’Aspromonte facente parte dell’I.C. S. Eufemia-Sinopoli-Melicuccà diretto dalla prof.ssa francesca Barbaro. Con i professori Rossella Morabito, Francesco Luppino, Mariella Fedele, Teresa Zappalà e la dirigente vi hanno preso parte gli allievi delle classi III A e III B.
Con la Passeggiata letteraria ieri mattina è stata ripercorsa la storia del paese tra il 1800 e il 1900, mediante soste che sono state effettuate presso i nove pannelli storici che lo scorso anno sono stati installati su iniziativa dell’Associazione Culturale “Aspromonte Milano” con sede a Segrate, presieduta da Massimo Rositano ed alla quale aderiscono molti eufemiesi trapiantati nell’hinterland milanese, lungo il percorso storico con lo scopo di creare occasioni per fare periodicamente qualche passeggiata, soprattutto con i ragazzi delle scuole che dovrebbero essere più interessati alla storia del proprio paese. Lungo tutto il percorso i ragazzi si sono dimostrati molto attenti, soprattutto quando lo scrittore Domenico Forgione ha parlato dello storico ponte in ferro lungo la dismessa tratta Sinopoli-Gioia Tauro della Ferrovia Calabro Lucana. E questo perché di recente gli studenti hanno partecipato a un concorso e saranno premiati concorrendo proprio con un lavoro sul ponte e sulla ferrovia. Vivo compiacimento è stato espresso al termine per il fatto che la passeggiata tra i pannelli esplicativi della storia di S. Eufemia è stata inserita nel tabellone stagionale annuale tra le iniziative di “Balenando in Burrasca” che comprende anche teatro, reading e iniziative culturali varie.

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La giornata mondiale degli insegnanti

Non è facile essere insegnanti, oggi. A volte, occorre una sviluppata propensione al martirio. Per motivi noti a tutti, sui quali periodicamente si discute senza che si riesca a restituire a questa straordinaria missione (definirla soltanto una “professione” sarebbe riduttivo) il prestigio e l’autorevolezza di tempi ormai andati. Di prima delle risme di circolari ministeriali, della più varia burocrazia, dell’intrusione mortifera delle famiglie nelle questioni scolastiche.
Appartengo ad una generazione per la quale gli insegnanti stavano giusto un gradino sotto i genitori. Ovviamente, non a scuola: dentro l’aula non ce n’era per nessuno, la loro autorità non si discuteva e, a dirla tutta, nessun genitore si sarebbe mai sognato di farlo.
Oggi ricorre la giornata mondiale degli insegnanti, anche se mi pare ci sia poco da festeggiare. È tuttavia l’occasione per un tuffo nel passato, che in ogni campo della vita costituisce sempre un efficace artificio per sfuggire alle miserie del presente.
Nello specifico, se mi guardo indietro non posso che concludere di essere stato molto fortunato. Ho avuto ottimi insegnanti, sia sotto il profilo didattico che dal punto di vista umano: maestri ed educatori che hanno inciso profondamente sulla mia crescita, facendo di me l’uomo che oggi sono.
Negli anni delle elementari, la maestra Rina De Leo mi ha insegnato a leggere speditamente, a non sbagliare le “e” con l’accento e le “a” con l’acca, ma soprattutto mi ha educato al rispetto dei ruoli. Senza bisogno della bacchetta, dei ceci sotto le ginocchia, della punizione dietro la lavagna. Con la tenerezza di una madre. Una lezione che non ho dimenticato.
Alle medie, il professore Aldo Coloprisco (oggi compie gli anni: auguri!) mi ha fatto capire che non basta conoscere le date storiche più importanti o la biografia degli autori più famosi. L’attività teatrale che svolgevamo durante l’anno è servita a responsabilizzare noi ragazzi e a convincerci che il posto in cui viviamo è nostro. Buon cittadino è colui che si spende per rendere più bella la realtà nella quale vive, contribuendo alla sua crescita mediante l’aggregazione, la partecipazione ad iniziative socio-culturali, il coinvolgimento nei processi di integrazione di coloro che in genere vengono emarginati.
Nel quinquennio liceale, il professore Rosario Monterosso mi ha trasmesso l’amore per la storia: devo a lui i libri che ho scritto. Aveva valori solidi e non negoziabili, da uomo serio e rigoroso. Mi ha insegnato che, quando si osserva un fenomeno, non bisogna fermarsi alle apparenze; che, di fronte ad una “verità”, bisogna cercare un punto di osservazione diverso. Tentare di indossare le scarpe altrui, senza rinunciare alle proprie idee.
Qualche anno fa ho avuto una disavventura. Il professore Monterosso non c’era già più e, almeno, si è risparmiato un bel po’ di amarezza. C’erano però un migliaio dei suoi libri nella mia biblioteca, e quella notte un po’ di stupore tra i presenti lo suscitarono. Pensai spesso a lui e ai nostri incontri nei mesi a seguire, mentre la maestra De Leo e il professore Coloprisco riuscirono a farmi pervenire parole di grande affetto e vicinanza, che mi emozionarono. Non si tratta soltanto di gratitudine. In questi tempi veloci, che tutto travolgono, guardare al passato può essere utile per illuminare il presente.

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Una veste di cento anni fa

Avrei voluto osservarti da vicino, starti accanto, in quella foto del 1925 che sembra una premonizione. Ci sono tuo padre, sopravvissuto alla carneficina del Carso nel ’15-’18, tua madre, le tue due sorelle, tuo fratello e, dietro di te, tua zia con la destra appoggiata alla tua spalla. Come un’investitura per te che, con i tuoi undici anni e con quegli occhi neri arrivati fino a me, gli accidenti della vita non potevi nemmeno immaginarli. Lei morta di parto, tu madre dei suoi figli a diciannove anni, più tardi sposa di suo marito.
Uno scampolo di stoffa diviso per tre rendeva le bambine uguali, un po’ impaurite o forse soltanto stupite dal magnesio della macchina fotografica che scattò l’unica immagine che ritrae tutta la tua famiglia.
Avrei voluto essere con te tra i banchi della scuola elementare, che sei riuscita a completare in un’epoca di analfabetismo dilagante, che non contemplava l’istruzione dei figli tra le priorità dei genitori. Guardarti mentre leggevi le lettere che parenti e amici ricevevano dai congiunti emigrati, osservarti china sul foglio quando eri la penna che portava lontano i racconti delle vite di qua. O con in mano la siringa di vetro, fatta sterilizzare nell’acqua bollente del suo contenitore in acciaio, prima di una puntura a grandi e piccoli della “rruga”.
Con te, mentre raccoglievi le olive o quando davi una mano nelle terre a “Crasta”, quando attendevi il ritorno di tuo marito dall’Aspromonte, una volta che aveva finito di sorvegliare la carbonaia. Un legno ruvido che la guerra nel Nordafrica e le mani callose avevano portato al comunismo e all’utopia di un mondo più giusto, dignitoso per gli ultimi della terra. Sul comodino, i ritratti severi di Stalin e Togliatti, ai quali contrapponevi rosario e libro delle preghiere, in una sorta di esorcizzazione domestica. Con te, quando mensilmente facevi il pane nel forno della “capurala” e poi lo sistemavi nella “cascia”.
Quella stessa cassapanca contiene oggi il poco che abbiamo potuto conservare della tua casa, della tua vita. Che era concentrata in due stanze, il gabinetto, il cucinotto con il fornello a tre fuochi e un piccolo giardino sul retro, pochi metri quadrati con piante e fiori di ogni specie. E poi, due figli da allevare, arrivati ad un’età per quei tempi avanzata: la piccola di casa da coccolare con la tazza di latte e le fette di pane portate nel letto. Sotto le lenzuola, per riscaldarle i piedi, un mattone tirato fuori dal braciere e, in caso di mal di gola, un calzino riempito con cenere viva da tenere arrotolato al collo come fosse una sciarpa.
C’ero, però, quando hai trasferito sui tuoi nipoti premura e generosità. Le ricorrenze segnate su un quaderno, da onorare estraendo per loro dal porta zecchini nero le banconote arrotolate a sigaretta. L’uscio sempre spalancato per i bambini che dal cortile si fiondavano dentro accaldati e sporchi. La merenda con pane, sale e olio. L’orzata, dolcissima, nel bicchiere che portava stampate sul vetro macchinine d’epoca. I gelati dal “grugno” o dalla “rofalazza”, annotati sulla “libretta” per quando saresti passata tu a saldare i conti. Ero rapito dalla treccia lunghissima che tenevi arrotolata sulla testa, fissata con tanti ferretti. Una corona nascosta sotto il foulard che, dopo la morte del nonno, restò per sempre nero.
E c’ero quando ormai non c’eri più, nuovamente bambina nel letto dei tuoi ultimi anni. Quando parlavi con persone che soltanto tu riuscivi a vedere. Quando chiamavi mamma tua figlia. Quando strapazzavi il bordo della maglia, nel tentativo di srotolare una veste immaginaria. Chissà, forse proprio quella dei tuoi undici anni.

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