L’uomo non è il suo reato

Ripensavo a Vincenzo Pinneri proprio ieri, nel giorno del suo compleanno. Era infatti nato il 23 ottobre del 1924 ed è morto nel 2012, quasi novantenne. Un’età che forse nemmeno lui si sarebbe aspettato di raggiungere. Anzi, sono quasi certo che gli è dispiaciuto esserci arrivato.
Gli sono stato amico, come tanti in paese. Nonostante il suo caratteraccio, Pinneri era capace di gesti affettuosi, addirittura commoventi. Perché rispolvero il ricordo di un uomo che in gioventù commise crimini imperdonabili? La sua storia è nota, io stesso ne scrissi anni fa. Non mi interessava allora e non mi interessa adesso il mito che in qualche modo ne ha accompagnato la vita, trascorsa per 36 anni in prigione. Interessante può essere invece ribadire che l’uomo non è il suo reato.
La carriera criminale di Vincenzo Pinneri inizia nel 1942 con l’assassinio del fratello. Caino che uccide Abele. Sangue del proprio sangue. Si può commettere un delitto più grave? No, non si può. Nemmeno se il fratello maggiore era violento nei confronti del minore, sin da quando il ragazzino andava dietro ai muli e agli asini per raccogliere in un secchio gli escrementi da portare agli gnuri del paese, che li utilizzavano come concime per l’orto. Un contesto di degrado e di assoluta povertà, al quale fece da detonatore la fame portata in dote dalla seconda guerra mondiale.
La banda Pinneri, che nacque nello sbandamento economico, sociale e politico-istituzionale vissuto dopo l’8 settembre 1943, è finita sui libri di storia: della faida e delle altre poco sue edificanti gesta si sa tutto. Omicidi, assalto alla caserma dei carabinieri di Sant’Eufemia, attentato contro il questore di Reggio Calabria. Io stesso ho raccolto il suo punto di vista sulle vicende di quel lontano 1944, in una lunghissima intervista che non ho mai pubblicato e che doveva essere il canovaccio di un libro mai scritto.
Pinneri riacquistò la libertà nel 1978, dopo avere girato tutti gli istituti penitenziari di massima sicurezza: da Pianosa all’Asinara, da Porto Azzurro al carcere di Favignana, con le celle scavate nella roccia sotto il livello del mare: prive di finestre e talmente umide da infracidirgli i polmoni e costringerlo, nei suoi ultimi anni, a portarsi appresso la macchina per l’ossigenoterapia. Libero dopo avere conosciuto il morso delle cinghie dei letti di contenzione, i cui segni gli rimasero per sempre impressi sulla pelle.
In ricordo della lunghissima detenzione divenne per tutti “Ceo Galera”, ma del giovane sbandato e violento sopravviveva soltanto un residuo di irascibilità caratteriale. L’ho visto commuoversi per i giovani che non riuscivano a trovare lavoro ed erano costretti ad emigrare; l’ho visto piangere per la morte di una giovane ragazza, alla quale sinceramente avrebbe donato la propria vita, considerata ormai inutile. Ho ammirato la sua imbarazzante generosità. Mi sono emozionato per l’affetto che nutriva nei confronti dei bambini.
Non credo sia rilevante sapere se abbia cercato di riscattarsi rispetto a ciò che era stato nel primo mezzo secolo di vita, se abbia così consumato la sua personale espiazione.
La storia di Pinneri è invece paradigmatica della natura umana. Racconta che ognuno di noi è un mistero affascinante e terribile, capace di grandi nefandezze così come di sorprendenti atti d’amore. Spiega che non siamo una monade inscindibile e immutabile, bensì un caleidoscopio di sentimenti che, nell’arco di una vita, prevalgono o soccombono. Conferma infine che è sbagliato impiccare l’essere umano ad immagini e fatti cristallizzati.
Eraclito ci ha insegnato che se l’acqua del fiume non è mai la stessa, il fiume non è mai lo stesso. E così l’uomo.

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Ceu Galera

Ero amico di Vincenzo Pinneri (Ceu “Galera”), capo dell’omonima banda che tra il 1943 e il 1944 terrorizzò Sant’Eufemia e dintorni e si rese protagonista della faida con la banda Leonello di Sinopoli.
Il Pinneri uscito dal carcere alla fine degli anni Settanta non era il bandito, già fratricida, evaso dal carcere e latitante, che faceva il giro delle campagne per estorcere cibo, denaro e armi. Non era l’ergastolano condannato per una ventina di reati (un altro omicidio, diversi tentati omicidi, estorsioni, violenze), né il leader giovanissimo – ma lui ha sempre negato di essere stato capo di qualcuno: “erano gli altri che mi seguivano anche se non li volevo” – di una banda di sbandati, il cui arresto con tanto di passarella per le vie del paese, ammanettato alla sponda di un carro bestiame, da molti fu salutato come una liberazione.

Il Pinneri che ho conosciuto io era un affettuoso signore anziano che ha sempre vissuto da solo, adorava i bambini e ti metteva in imbarazzo se lo invitavi a pranzo, perché arrivava con due buste stracolme di salumi, formaggio, carne, frutta, biscotti.

Si commuoveva spesso: di fronte alla morte di un giovane; per quel ragazzo che non riusciva a trovare lavoro; per l’altro costretto ad emigrare, cui portava un pacco di roba da mangiare ogni volta che doveva ripartire.

Imbattibile al gioco della dama, si dilettava con le carte: poco a “scopa”, perché troppo forte e senza rivali: ricordava tutte le giocate e sapeva “contare il quarantotto”; di più a “scala quaranta”: ma non con tutti, solo con chi gli stava simpatico. Mai a soldi e sempre “a consumazione”: merendine, caramelle e bibite che puntualmente regalava a qualcuno. Prediligeva le boccette e, dalle bestemmie, anche chi si trovava nel parcheggio, fuori dalla sala biliardi, capiva se avesse vinto o perso.
Stravedeva per me e mi aveva eletto “biografo ufficiale” delle sue gesta. Probabilmente, un giorno lo diventerò, mettendo insieme la lunga e inedita intervista che abbiamo realizzato a più riprese, gli articoli che lo hanno riguardato e che mi ha affidato insieme alle pagine di un suo diario e ad altre autografe, scritte in diversi momenti (l’ultima, due mesi fa, dal letto dell’ospedale), le poche foto che lo ritraggono a Fossombrone, Saluzzo o Pianosa, le carte giudiziarie già fotocopiate e quelle che occorre recuperare.

Il Pinneri che ho conosciuto io era anche, però, l’uomo pronto a sparare e uccidere nuovamente, ai primi anni Ottanta, davanti al bar, se non ci fosse stato il tempestivo intervento di un avventore, che prima con coraggio gli bloccò la mano armata e poi riuscì a calmarlo e a farlo desistere dall’insano proposito. Era l’ultraottantenne vittima del furto della sua inseparabile “Ape 50”, il quale, costretto a presentare denuncia, all’esterrefatto maresciallo che gli chiedeva se nutrisse qualche sospetto rispose: “E secundu vui, se sapiva cu fu, veniva a caserma?”.

Qualche giorno fa mi è stato chiesto come mai non gli avessi ancora dedicato un articolo. Ecco, ho il sospetto che molti, soprattutto tra i giovani, siano affascinati dal Pinneri bandito e “giustiziere”, un po’ come avviene con quelle fiction televisive che trasformano in eroi certi personaggi negativi. Io ritengo che sia giusto ricordare con affetto il Pinneri che in tanti abbiamo conosciuto come persona a suo modo dolce, sensibile, premurosa e, se vogliamo, perseguitata da antichi fantasmi e da un “ruolo” sopravvissuto allo scorrere del tempo. Andrebbe invece consegnato alla dimensione storica e sociologica il mito del Pinneri impavido e violento, grilletto facile e bombe a mano sempre in tasca nel contesto sociale caotico del dopo 8 settembre, protagonista di un incredibile assalto alla caserma dei carabinieri e, nell’immaginario collettivo, ancora assiso dietro a un treppiedi all’ingresso del paese, pronto ad accogliere a sventagliate l’arrivo del questore di Reggio Calabria.

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