Il santo e la bandiera

Più volte ho scritto del rapporto speciale che lega la comunità eufemiese alla città di Milano sin dai giorni immediatamente successivi al terremoto del 1908. Nella sua “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, l’arciprete Luigi Bagnato sottolineò la straordinaria prova di solidarietà dei volontari giunti in paese e la grande quantità di aiuti ricevuti: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
In meno di tre mesi furono infatti costruite 759 baracche e realizzati l’acquedotto, le strade del nuovo quartiere, l’ospedale “Milano”, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa. Un piccolo luogo di culto nel quale ebbe origine la devozione degli eufemiesi per il patrono di Milano Sant’Ambrogio, la cui statua fu donata dal cardinale meneghino Andrea Carlo Ferrari. Per tale ragione la chiesa di Maria Santissima del Carmine è dedicata anche al santo che si festeggia il 7 dicembre. Ma la riconoscenza degli eufemiesi andò oltre, poiché il 9 marzo 1909 l’allora commissario prefettizio deliberò di adottare quale bandiera del comune la croce rossa su sfondo bianco del municipio di Milano.
Ho già avuto modo di osservare (La bandiera che non c’è) che sarebbe opportuno rimediare all’errore compiuto il 25 febbraio del 2000, giorno in cui fu approvato lo statuto comunale attualmente in vigore, che all’articolo 6 menziona lo stemma e il gonfalone, ma inspiegabilmente non fa cenno alla bandiera. Per cui, nel ribadire l’auspicio che venga sanata la ferita inferta alla memoria storica collettiva della nostra comunità, pubblico la deliberazione n. 5/1909 del commissario prefettizio Consalvo Cappelli, avente ad oggetto “Bandiera del Comune”:

«L’anno millenovecentonove, addì nove marzo in S. Eufemia, nella Casa Comunale
Il Commissario Prefettizio Consalvo Cappelli per la provvisoria amministrazione del Comune, assistito dal Segretario infradescritto
Ritenuto che la generosa Città di Milano con uno slancio impareggiabile di fraterna carità accorse e soccorse con ogni mezzo questo paese distrutto dal terremoto, elargendo ogni specie di soccorso, costruendo un bellissimo Ospedale a vantaggio degli infermi poveri, ed un vastissimo rione di baracche per dare ricovero a moltissime famiglie rimaste senza tetto;
Attesoché i cittadini di ogni classe di questo Comune in segno di viva, imperitura riconoscenza vogliono che il nome della Città di Milano, oltreché scolpita nei cuori di tutti sia additata ai posteri come augurio di sublime carità;
Ritenuto che, essendosi dato al nuovo rione costruito dai Milanesi il nome della città di Milano e che Milano fu pure il nome dato all’Ospedale quivi costruito, è giusto ed è reputarsi a grande onore che i colori della bandiera propria della illustre Città, Croce Rossa in campo bianco, sia adottato e costituisca l’emblema di S. Eufemia;
Ritenuto che, chiesta a quella rappresentanza comunale l’autorizzazione perché il Comune di S. Eufemia adotti quella bandiera e la faccia sua, quel degnissimo Sig. Sindaco, Senatore Ponti, mercé dispaccio telegrafico N. 579 in data di ieri, con parole lusinghiere e gentilissime comunicò la piena adesione di quella rappresentanza comunale al desiderio da me espressogli.
Interprete degli unanimi sentimenti della cittadinanza,
DELIBERA
che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, sia da oggi la bandiera del Comune di S. Eufemia.
Fatto, approvato e sottoscritto
Il Commissario prefettizio f.to C.[onsalvo] Cappelli
Il Segretario f.to [Francesco] Tropeano»

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Passeggiata storica/7

Nel cuore della “Pezzagrande” (o “Pezza Grande”), la costruzione della chiesa dedicata a Sant’Ambrogio rievoca la solidarietà dei milanesi nei confronti della popolazione eufemiese dopo il terremoto del 28 dicembre 1908.

PANNELLO 7: CHIESA DI SANT’AMBROGIO

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907 provocò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: l’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato riporta i nominativi di 530 vittime, mentre per la giunta comunale furono circa 700. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%.
Nei giorni successivi giunsero in paese alcuni reparti dell’esercito, la Croce Rossa Italiana, la Croce Verde e i volontari dei comitati di Livorno e di Milano. Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, dove furono realizzate le strade e 1.300 baracche. A marzo del 1909 fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori lombardi. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata l’8 maggio 1909 alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino Andrea Carlo Ferrari.
Alla fine dei lavori di ricostruzione, i milanesi consegnarono alla comunità eufemiese la bandiera del proprio comune (croce rossa su sfondo bianco), la quale, con deliberazione del 9 marzo 1909, fu adottata quale bandiera del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
La chiesa di Sant’Ambrogio, nel suo aspetto attuale, è stata ricostruita intorno al 1970.

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La bandiera che non c’è

Circa un mese fa scrissi un post sugli articoli dedicati dal Corriere della Sera a Sant’Eufemia d’Aspromonte in occasione del terremoto del 28 dicembre 1908 e, sulla base delle informazioni storiche inedite così recuperate, un altro sull’attività di soccorso della nobildonna Adele Alfieri di Sostegno. Molto interessante è quello datato 13 marzo 1909, che fa riferimento al consiglio comunale del 9 marzo, nel quale l’amministrazione di Sant’Eufemia, allora retta da un commissario, deliberò di adottare quale bandiera del comune quella del municipio di Milano (croce rossa su sfondo bianco), consegnata dai volontari milanesi alla comunità eufemiese alla fine dei due mesi trascorsi in terra aspromontana:
Il Comune di S. Eufemia d’Aspromonte, quale omaggio e manifestazione di gratitudine a Milano, ha deliberato di adottare per la sua bandiera i colori della nostra città. Ottenendone l’adesione dal sindaco sen. Ponti, il Commissario prefettizio Cappelli, ne dava notizia ai cittadini di S. Eufemia, con un nobile manifesto. «Quando voi vedrete – dice questo – sventolare la candida bandiera con la Croce rossa, ricordatevi che quei colori sfolgoravano al sole della vittoria sui campi di Legnano, là dove il valore italiano, e specialmente dei milanesi, seppe piegare e sconfiggere l’oltracotanza dello straniero. Da quel dì risorse a vita nuova la bella e cara città lombarda; da quel dì crebbe nella prosperità e nella potenza la nobilissima regina della valle padana, che nell’ora della sventura vi ha soccorso con regale generosità, ed ora vi conforta permettendovi di adottare nella bandiera i suoi colori». La manifestazione di S. Eufemia d’Aspromonte, alla cui resurrezione lavora il Comitato milanese di soccorso, non poteva essere più nobile e commovente.

La notizia non è nuova, io stesso l’ho riportata in diversi miei libri. Tuttavia, nel tempo la bandiera è scomparsa da un punto di vista “istituzionale”. Lo Statuto comunale attualmente in vigore, approvato nel 2000 e successivamente modificato un paio di volte, all’articolo 6 menziona soltanto lo stemma e il gonfalone, che sono “quelli descritti dal Decreto del Presidente della Repubblica del 16 gennaio 1995”. E cioè:
STEMMA: di rosso, alla Santa Eufemia, in maestà, leggermente volta a destra, con il viso, le mani, i piedi di carnagione, aureolata d’oro, capelluta dello stesso, vestita con la lunga tunica d’argento, le spalle coperte dal manto d’azzurro, ricadente sul fianco sinistro, la Santa impugnante con la mano destra la palma del martirio, di verde, posta in palo. Ornamenti esteriori da Comune.
GONFALONE: drappo partito di bianco e di azzurro riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dallo stemma sopra descritto con la iscrizione centrata in argento, recante la denominazione del Comune. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto dei colori del drappo, alternati, con bullette argentate poste a spirale, Nella freccia sarà rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento
.

Non conosco il motivo per cui, a differenza di tanti altri, lo Statuto comunale di Sant’Eufemia non conferisce nobiltà istituzionale alla propria bandiera. Ritengo però che spesso la forma è sostanza e che, pertanto, gli atti ufficiali possono contribuire al rafforzamento della memoria storica di una comunità. Si può rimediare e mi auguro che il sindaco Pietro Violi, al quale va il mio ringraziamento per avermi messo in contatto con Alberto Minissi (colui che mi ha fatto pervenire gli articoli del Corriere della Sera), si faccia promotore dell’iniziativa istituzionale necessaria.

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La marchesa filantropa tra i terremotati di Sant’Eufemia

Immagine tratta dal sito: www.centrostudibeppefenoglio.it

Come spesso succede in Italia dopo una tragedia, alla diffusione della notizia del terremoto che il 28 dicembre 1908 aveva raso al suolo Reggio e Messina, si mise immediatamente in moto la macchina degli aiuti. Ovunque sorsero comitati di soccorso per la raccolta di beni di prima necessità e, da tutta la Penisola, sui luoghi del disastro accorsero volontari che per giorni interi scavarono anche a mani nude per trarre in salvo chi era rimasto intrappolato sotto le macerie, per estrarre i cadaveri, per puntellare le abitazioni non completamente crollate. Nei comitati massiccia fu la presenza della nobiltà lombarda, piemontese e toscana. Già il 4 gennaio 1909, il “Corriere della Sera” informava che la signora Giulia Baglia-Bambergi, presidentessa dell’Assistenza pubblica milanese, la contessina Giulia Melzi d’Eril e la contessa Emilia Giulini Airoldi, avevano rivolto un appello alle dame milanesi, affinché cooperassero alla preparazione di biancheria e alla confezione di indumenti da recapitare nel centro di raccolta allestito presso l’Istituto pedagogico forense (il riformatorio) di via Bellini a Milano. La contessa Carla Visconti di Modrone (madre del futuro regista Luchino Visconti) aveva invece messo a disposizione villa Librera, nella Bovisa, per l’eventuale ricovero dei feriti.
Nelle zone terremotate la situazione era drammatica e la tensione sempre pronta ad esplodere, tanto che gli stessi soccorritori dovettero imporsi con le cattive per ottenere la collaborazione della popolazione, timorosa che la presenza di cadaveri sotto le rovine delle case potesse scatenare un’epidemia. Una corrispondenza da Sant’Eufemia ne dava notizia sul “Corriere della Sera”, il 6 gennaio 1909: «Sono ritornato stamane a Sant’Eufemia. Il disseppellimento dei cadaveri, che è assai faticoso, continua fra l’enorme cumulo di macerie su cui la squadra milanese fa continue disinfezioni. Purtroppo, però, i morti giacciono per ore e ore, perché nessuno vuole prestarsi a trasportarli al cimitero. Non bastano gli incitamenti del Comitato, non l’esempio: bisognerebbe ricorrere alla violenza. Oggi l’ing. Zanetti di Milano dovette puntare la rivoltella su un individuo che si rifiutava di aiutarlo nel trasporto di un cadavere. E l’atto energico ebbe benefici effetti. Ma si può fare sempre così? All’ospedale mancano i mezzi, le materasse e i cuscini, e i poveri feriti sono sul duro suolo. La volenterosa squadra milanese, malgrado i gravi disagi a cui va incontro, lavora indefessamente alle demolizioni, disinfezioni e dissotterramenti. Stanotte i bravi giovani, che sono semplicemente attendati senza paglia e senza coperte per le difficoltà del trasporto, non hanno potuto a lungo stare sul suolo, perché gelava e hanno dovuto passare la notte all’aperto, davanti ad un gran fuoco».
Nello stesso articolo, il giornalista evidenziava però anche la grandezza di una nobildonna accorsa in paese insieme ai nipoti, la marchesa Adele Alfieri di Sostegno: «Un’opera che conforta assai ed è da additare a tutte le dame italiane, è quella della marchesa Alfieri di Sostegno, la quale, dalle prime ore del giorno fino ad ora avanzata, è nella tenda di medicazione fra i medici a curare i feriti. Oggi la Regina Madre le ha telegrafato, elogiandola per l’opera sua altamente filantropica e comunicandole l’invio di due suore ai suoi ordini. La marchesa Alfieri ha, dal canto suo, rivolta preghiera alla Principessa Letizia [figlia di Giuseppe Carlo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, primogenita del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II] perché le mandi una automobile per poter spiegare più facilmente la sua attività».
Ma chi era Adele Alfieri di Sostegno? Figlia di Carlo Alfieri di Sostegno e Giuseppina Benso di Cavour, per parte materna era nipote di Gustavo, fratello dello statista Camillo Benso di Cavour; il padre era invece Cesare Alfieri di Sostegno, primo ministro, presidente del Senato del regno di Sardegna e, dopo l’unificazione, senatore del regno d’Italia; nonché cugino di Vittorio Alfieri. Potendo contare sull’eredità di un vasto patrimonio, Adele e la sorella Luisa, moglie del più volte ministro degli esteri marchese Emilio Visconti Venosta, furono molto attive nel campo della beneficienza. Adele istituì in Italia e all’estero scuole materne, scuole elementari, laboratori femminili di cucito e promosse la raccolta di fondi per gli emigrati all’estero. Coltivò inoltre con il grande meridionalista Pasquale Villari un rapporto “profondo e duraturo”, secondo quanto documentato dalla sua biografa Giustina Manica. Alla base del suo impegno in favore delle popolazioni del Mezzogiorno vi fu certamente l’interesse per la “questione meridionale”. In occasione del terremoto del 1905 aveva accolto nell’asilo di Santena (Torino) due orfanelle del catanzarese. Dopo quello del 1908 si recò in Calabria, accompagnata dai nipoti Enrico e Giovannino. Il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito, che secondo la testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè fu il primo ad arrivare a Sant’Eufemia («Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto»), in un telegramma alla sorella Luisa elogiò l’operato dei figli (“impareggiabili, lavorano con generoso ed esemplare slancio”) e sottolineò che Adele era “ammirata da tutti”. Encomio ribadito anche dal colonnello Rostagno, comandante del reggimento dei granatieri di Sardegna: «Ella fu superiore a qualsiasi elogio e parole nostre di riconoscenza non gioverebbero mai a sostituire quelli che mille infermi rivolgono alla Gentile Signora, per l’opera buona umana e generosa da essa prestata».
La ricerca storica ha un aspetto etico, che consiste nel fare giustizia dell’oblio immeritato riservato a personaggi eccezionali. L’azione umanitaria in favore della popolazione terremotata assegna alla marchesa Adele Alfieri di Sostegno un posto di rilievo nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Bibliografia:
*Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, Reggio Calabria 2021.
*Giustina Manica, Adele Alfieri di Sostegno: profilo di una nobildonna, in “Rassegna storica toscana”, numero speciale “Elementi di studio dell’identità femminile fra Ottocento e Novecento”, luglio-dicembre 2016 (anno LXII – n. 2), pp. 245-258. Le parole di elogio del vescovo Morabito e del colonnello Rostagno sono a pagina 254.
*Bruno Gioffré, Quarant’anni in condotta, Tipografia Ugo Quintily, Roma 1941.

Corriere della Sera, 6 gennaio 1909
Monsignor Morabito a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Benedizione dei defunti
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Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia nel reportage del Corriere della Sera

Il terremoto del 1908 fu il primo avvenimento “mediatico” nella storia italiana. In riva allo Stretto arrivarono gli inviati dei quotidiani più diffusi, con al seguito i fotografi. Le immagini pubblicate sui giornali consentirono alle popolazioni delle province più lontane di “vedere” la devastazione, i morti, i feriti e l’opera dei soccorritori, contribuendo così anche al consolidamento dello spirito nazionale.
Nel mio ultimo lavoro sulla storia di Sant’Eufemia ho riportato la relazione dell’ingegnere Antonio Pellegrini sull’attività del comitato lombardo di soccorso, insieme a quelle preparate dalla Croce Rossa Italiana e dalla Croce Verde (Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 60-66).
Il contributo della Croce Verde fu enorme, tanto che alla benemerita associazione il nostro comune aveva dedicato una via del paese, la cui denominazione fu imperdonabilmente cambiata dopo la seconda guerra mondiale. E prima o poi bisognerebbe intervenire sulla censurabile abitudine di cancellare, con un tratto di penna, fatti e personaggi rilevanti nella storia di una comunità: quando basterebbe una targhetta (“già via…”) per salvare la memoria storica del posto in cui si vive.
Quando scrissi il libro non possedevo alcuni articoli del “Corriere della Sera” (pubblicati tra il 30 dicembre 1908 e il 13 marzo 1909), nei quali si fa riferimento a Sant’Eufemia d’Aspromonte e all’opera dei soccorritori. Documenti straordinari, che ho potuto visionare grazie alla generosità di Alberto Minissi, volontario e cultore della storia della Croce Verde. Di particolare importanza è il reportage di A. Jannoni, pubblicato il 5 gennaio 1909 con il drammatico titolo “L’agonia dei sepolti vivi a Sant’Eufemia”. Lo riporto integralmente, per il suo alto valore storiografico e umano:

«Mentre nell’accampamento dei soldati del 20° fanteria regna grave il silenzio, un sibilo forte, e poi uno scuotimento come di un treno che passasse vicinissimo, ci sveglia di soprassalto. Tutti siamo in piedi, in preda al panico: la gente raccolta nelle vicine baracche grida terrorizzata. La scossa è stata fortissima: ma la stanchezza è tanta che torniamo a dormire.
Per tempo stamane ho ripreso il mio giro, inoltrandomi nella parte più alta del paese: le stesse rovine, le vie scomparse, macerie da per tutto. Solo in via Cremona due case resistono ancora, apparentemente in buono stato; ma all’interno tutto è precipitato: in una di esse abitavano due famiglie di dodici persone ciascuna, e tutti si salvarono da un balcone.
In piazza Cavallotti è ancora sulla via la carogna di un mulo, col basto, e un carico di barili di vino sfasciati. Ieri l’altro era stato estratto lì presso il padrone, un contadino sconosciuto. Costui si recava a un paese vicino per vendere del vino; ma giunto colà, sorpreso dal crollo di una casa, restò sepolto.
Nella stessa via mi si mostra una casa da cui ieri soltanto fu estratto il cadavere di un certo Tommaso Anastasio, che, sorpreso dal terremoto mentre scendeva le scale, restò con la mano afferrato alla ringhiera. Caduti il giorno dopo, per le successive scosse, un muro e le macerie che ricoprivano il cadavere, questo, irrigidito, restò nella stessa posizione per tre giorni; e tutti si recavano a vederlo.
Molti dei sepolti vivi sopravvissero per vari giorni; poi, per mancanza di soccorsi, morirono. Così Giuseppe Passalacqua, ebanista, che rimase sotto le macerie per quattro giorni, con la moglie e quattro figli già cadaveri, fino a venerdì, poté implorare aiuto; ma la sera di quello stesso giorno, per l’enorme cumulo di materiali, morì.
Vicino, era Francesco Tripodi con la moglie e sette figli; chiamò aiuto per tre giorni, ma quando s’iniziarono i lavori per il dissotterramento, era già cadavere. Furono salvati tre figli suoi, ma uno è in pericolo di morte. Dalla barella su cui giace, grida agitandosi: «Ecco il terremoto! Salvatevi!».
Dalle rovine dell’albergo “Aspromonte” furono estratti in due giorni consecutivi i cadaveri di Antonio Militano, proprietario dell’albergo e quelli del padre suo, della madre, di due zie e di tre figliuoli: mancavano ancora la moglie e un bambino lattante di 9 mesi. Ieri si continuò il lavoro, e si rinvenne alfine il cadavere della povera donna che faceva col suo corpo ponte al figlioletto. Questo era ancor vivo dopo cinque giorni: e fu da alcuni pietosi congiunti raccolto e trasportato a Sinopoli.
Dopo quattro giorni sono stati estratti ancora vivi dalle macerie anche certa Maria Cassone con il bambino incolume, che era avvinto al cadavere del padre. Appena estratto, il bimbo cominciò a scherzare.
Maria Ascrizzi abitava in via Telesio, in un punto dove si sviluppò l’incendio. Ella udiva le grida strazianti dei feriti e la puzza d’arso, e attendeva la morte rassegnata. Passarono così tre giorni, senza che le venisse dato alcun aiuto; poiché ormai disperava e le sue sofferenze erano enormi, pensò di abbreviarle appiccando il fuoco a poche schegge di legno raccolte con alcuni fiammiferi che aveva in tasca. Stava già per mettere in atto il suo disegno, quando intese dei colpi ripetuti ad un muro vicino. Sperò allora, e gridò: e l’indomani fu salvata. Sta bene relativamente e chiede da mangiare.
Due impiegati comunali perdettero la vita in circostanze orribili e quasi identiche.
Giuseppe Melardi, segretario-capo, abitava in via Roma. Precipitato nel baratro, gli rimase fuori un braccio, e con voce flebile chiedeva aiuto, mentre agitava nell’aria la mano di tanto in tanto, quasi a mostrare che era ancora vivo. Il fratello Antonio, professore di ginnasio a Monteleone, e che era qui in licenza, uscito sano dalle macerie, accorse subito per tentare il salvataggio; ma l’impresa era impossibile, ed allora egli si diede a confortare il sepolto, standogli vicino. Gli gridava a breve intervallo: «Coraggio! Coraggio!». Fino a che non vide rinserrarsi quella mano per non più riaprirsi. E il povero superstite, senza attendere altro, si allontanò dal paese.
Gaetano Zagari era vicesegretario e corrispondente del Giornale d’Italia. Abitava con la vecchia madre, di cui era il sostegno. Travolti tutti e due, la madre si salvò ed è ora impazzita. Il povero giovane restò con ambe le braccia di fuori, e agitò per un paio d’ore le mani per dar segno di vita. Molti tentarono il salvataggio assai difficile: ma quando videro che le mani non si agitarono più, si allontanarono. Allora la povera madre, che sino a quel momento aveva pianto, cessò dal versar lacrime, e accollatasi presso le braccia inerti, si mise a ricoprire di baci.
La fine di Rocco Occhiuto è stata anche più straziante. Rimosso il materiale che gli era intorno, uscì fuori con la testa intrisa di fango: e poiché egli era ancora vivo, furono intensificati dai parenti i lavori di dissotterramento. A poco a poco riuscì a metter fuori le spalle, il petto, le braccia: nella caduta egli era rimasto in piedi. Ma ogni sforzo per liberarlo dall’enorme massa di rottami che lo teneva fortemente stretto fu inutile: e il disgraziato, mentre urlava cercando di districarsi, dava intanto precise indicazioni sul posto ove doveva trovarsi un suo figliuolo. Difatti, a pochi metri di distanza, questi veniva salvato e il povero Occhiuto veniva abbandonato al suo destino, dopo aver avuto la cura – per sottrarlo alla furia della pioggia – di innalzare sul suo capo, su due listelle di legno, un riparo di tavole. Egli sopravvisse in simile difficile posizione per oltre due ore dopo lo scavo, ossia fin verso sera…
Per i soccorsi ai superstiti provvede qui il Comitato di Milano. Stamane sono qui tornati il maggiore Bassi e l’ing. Stucchi per rifornire l’attendamento».

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Il terremoto del 1908 nel racconto del sacerdote Luigi Bagnato

Il terremoto del 28 dicembre 1908, abbattendosi su abitazioni già colpite dagli eventi sismici del 1894, 1905 e 1907, fu per Sant’Eufemia una tragedia immane. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: per la giunta comunale guidata dal sindaco Pietro Pentimalli furono circa 700, mentre secondo altre fonti potrebbero essere state molte di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dall’evento catastrofico, riporta i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino ai 537 riportati da Vincenzo Tripodi nella sua Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%. Le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100, un centinaio quelle parzialmente distrutte. Si salvarono alcune baracche costruite dopo il terremoto del 1894 e qualche costruzione nei pressi della fontana Nucarabella, compreso il macello comunale, che era stato fabbricato nel 1905. Altre case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894, nell’area denominata “Piazzetta”. Nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate nella zona alta, attorno alla piazza dedicata a Vittorio Emanuele III, mentre le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie.
Nella storia di Sant’Eufemia il terremoto del 1908 rappresenta uno snodo cruciale. Il “prima” racconta di un paese raccolto nei due rioni Paese Vecchio e Petto; il “dopo” è caratterizzato invece dall’espansione edilizia nella vasta area della Pezza Grande, dove vengono trasferiti oltre 2000 cittadini. Il paese com’è oggi, sotto il profilo urbanistico è conseguenza diretta di quella catastrofe.
Tra le testimonianze drammatiche del tragico evento, un rilievo particolare va attribuito al racconto del sacerdote Luigi Bagnato, che si trovava nel seminario di Mileto e che immediatamente accorse in paese: «Narrerò i lutti, che grandissimi apportò quella spaventosissima notte, nella quale il grande terremoto riempì tutto di rovine. Io, ora arciprete, ero allora assente, dimorando a Melito quale padre spirituale dei seminaristi, giovani speranze della chiesa. Anche lì abbiamo sentito la terra fortemente scossa, in verità con nessuna perdita di persone, ma solo di edifici. Fuggii atterrito camminando per diverse ore, ahimè! per non vedere più la casa, il fratello, i nipoti, la sorella. Li avevano sepolti le rovine delle case. Ho trovato il padre, vecchio infelice, che piangeva i cari perduti. […] Il 27 dicembre 1908, Domenica, fu una giornata di foschia, cadde una pioggia assidua ed abbondante fino a vespro, cui successe una notte simile. Il cielo offuscato e l’aria pesante. Due ore circa prima dell’alba, e precisamente alle cinque e ventiquattro minuti, la terra prima tremò lievemente, e poi d’improvviso per un minuto intero con un moto veemente sovvertì con ingente fragore le mura ed i tetti delle case. Le grida e i clamori arrivarono alle stelle, mentre nella notte scura, agitata dal vento e dalla pioggia, ciascuno, con voce disperata e piangente, chiamava i suoi. O vera notte di calamità e di sventura, notte lacrimevole, che più presto di un detto così numerose anime, avulse dal corpo, riunì davanti al trono di Dio! Non appena fu giorno, quale miserevole spettacolo! Non più vie, non più case, alte rovine sotterravano ogni cosa, rovine dalle quali uscivano fuori trave rotte, tristi residui di case, con le suppellettili rotte delle stanze. Sant’Eufemia non esiste più, mutata com’è ora in un cimitero. Attraversando le rovine terrificanti per lo squallore, qua e là asperse di sangue, si aggiravano i miseri superstiti che si affrettavano a portare aiuto ai feriti, salvare coloro che si vedevano e le cui voci si sentivano, dissotterrare i sepolti dall’alta congerie per strapparli, se possibile, dalla morte e richiamarli in vita. Crudele spettacolo! Si sviluppò anche un incendio che, col favore del vento e alimentato dalla legna, dal vino, dall’olio, divorò e distrusse due rioni ad oriente dalla piazza, con le macerie e i corpi sepolti, dei quali alcuni ancora vivi. Per due giorni e due notti le alte fiamme, ma il fumo e il fuoco tra le rovine serpeggiò per più di un mese con il terribile puzzo di bruciato. Ciascuno conta i suoi morti: troppe poche famiglie incolumi, e alcune distrutte del tutto. Quanti morti? Le prime voci li portano a mille, a duemila. Circa seicento cadaveri strappati dalle rovine abbiamo trasportato senza alcuna onoranza. Un’ampia fossa fu scavata nel cimitero. Pochi ebbero privata sepoltura. Le chiese crollarono con i loro campanili. Già con ingenti spese, dopo il terremoto del 16 novembre 1894, le avevano restaurate decorosamente: due specialmente, la Chiesa Madre e quella del SS. Rosario; ma questa cadde quasi dalle fondamenta e quella fu tutta sconquassata. Rimase distrutta anche la chiesa delle anime del Purgatorio. Le statue dei Santi, esistenti in tutte le chiese, rimasero mirabilmente incolumi, scampate a qualsiasi danno. […] Per più giorni, anzi per più di un mese, siamo vissuti sotto le tettoie costruite negli orti e sulla pubblica via con legna e tavole estratte da sotto le macerie. Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
[Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città, “Libro dei defunti. 1877-1908”, in Archivio parrocchiale Maria SS. delle Grazie]

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5 luglio 1914, il giorno della pacificazione eufemiese

Quando si parla di “data storica” per una comunità, il rischio di scadere nella retorica è sempre in agguato. Non è il caso del 5 luglio 1914, che nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte segnò la fine delle aspre divisioni sulla ricostruzione del paese seguite al terremoto del 28 dicembre 1908. Il terribile sisma – che aveva provocato circa 700 vittime e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio – ripropose la questione, già vissuta dopo il “fracello” del 5 febbraio 1783, del trasferimento dell’abitato nell’area denominata Pezza Grande. Nel 1783 prevalsero i fautori della ricostruzione nelle aree allora edificate (Paese Vecchio e Petto). Dopo il 1908 le cose andarono diversamente, determinando l’odierno assetto urbanistico del paese con i suoi tre grandi rioni: Paese Vecchio, Petto e, appunto, Pezza Grande. Anche nella riedizione di quel drammatico scontro la polemica tra i sostenitori delle due contrapposte tesi fu violentissima. Da un lato si trovarono gli ex sindaci Francesco Capoferro, Antonino Condina-Occhiuto e il medico condotto nonché grande oratore Bruno Gioffré, che incendiava gli animi degli eufemiesi invitandoli alla resistenza. Nel campo opposto svettava la prestigiosa figura dell’anziano commendatore Michele Fimmanò, per oltre sessant’anni dominatore assoluto della scena politica eufemiese e regista delle elezioni comunali che a maggio 1910 incoronarono sindaco il notaio Pietro Pentimalli.
Il 14 ottobre 1911 la giunta guidata da Pentimalli inviò al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Ettore Sacchi un promemoria (“Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte”) a sostegno del trasferimento del paese nel nuovo sito, che andava a confutare le ragioni del fronte opposto, compendiate nel parere espresso due anni prima dal geografo Mario Baratta (“Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 28 dicembre 1908”). Il governo nazionale sposò la linea di Fimmanò e di Pentimalli, il quale aveva comunque accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore. Ma nonostante l’apertura del sindaco, la tensione tra gli schieramenti in campo raggiunse livelli di guardia così alti che più volte rischiò di scapparci addirittura il morto.
Il pericolo di una deriva drammatica convinse “i migliori elementi delle due parti” a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una sintesi, che fu concordata con il deputato reggino Giuseppe De Nava, garante ministeriale di un’operazione che teneva insieme tutto: rielezione di Pentimalli nelle elezioni comunali del 1914, edificazione del paese nella nuova area e abrogazione del divieto di ricostruzione nelle aree distrutte dal terremoto.
Probabilmente mai più gli eufemiesi sono riusciti a fornire una lezione così alta di unità di intenti. Gli individualismi furono messi al bando da una generazione responsabile che trovò nel sindaco Pentimalli una guida illuminata (il quale meriterebbe un approfondito e specifico studio biografico), capace di portare fuori dalle tenebre un popolo distrutto moralmente e materialmente. Esempio fulgido di come, di fronte alle avversità, occorre fare quadrato se si vuole dare prova di maturità e di una visione nobile, non condizionata da interessi e ambizioni personali.
Ecco perché la chiusura del discorso pronunciato da Pentimalli il 5 luglio 1914, giorno della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale, rappresenta un inno alla concordia e all’amore per il superiore bene comune che sempre dovrebbero animare chi ha l’onore di rappresentare la comunità nelle istituzioni: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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Il terremoto del 28 dicembre 1908 nella testimonianza del medico Bruno Gioffrè

Chiesa di Sant’Eufemia V.M.

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907, causò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza, poiché sono discordanti le testimonianze dirette e i dati riportati dagli storici. Furono circa 700 per la giunta comunale, che il 14 ottobre 1911 inviò al governo il documento “Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte”. Secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dalla tragedia, riporta invece i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino a quello di 537 fornito da Vincenzo Tripodi nella sua “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%: le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100; un centinaio quelle parzialmente distrutte.

Il medico condotto Bruno Gioffrè in una foto del 1906

Drammatica la testimonianza del medico condotto Bruno Gioffrè (1865-1931), riportata nel suo “Quarant’anni in condotta” (pp. 89-93): «Come trascorsi la nefasta giornata io non so dirlo. Quanti feriti soccorsi, e quali? E di quante sciagure fui spettatore? Non ne ho chiara memoria. Solo ricordo che vestito sommariamente, con camicia da notte, senza cappello, digiuno, vagai fino alla sera, tornando inebetito al lume di una lucerna all’antro ospitale che trovai pieno di rifugiati avviliti e taciturni. […] E si taceva tutti, mentre per l’aria gelida ed umida giungevano urli e sospiri e la terra era tutto un fremito per le scosse che si susseguivano senza tregua. Mi si apprestò un giaciglio con qualche straccio a terra, e nella quasi oscurità passarono non so quante ore. Ma più alte grida ci scossero. Uscimmo dalla baracca e vedemmo non lungi colonne di fiamme che rompevano la notte. Più case ardevano, sotto una delle quali era seppellita tutta una famiglia e sotto un’altra una vecchia signora inferma che avevo curato in quei giorni. Terrore e strazio! Così passò la spaventevole notte. E venne l’alba, funebre anch’essa, ed io ripresi il mio triste lavoro. […] Il più esasperato sconforto invase gli animi. Alcuni dei migliori cittadini si spinsero fino a Palmi, capoluogo del circondario, e informarono le poche autorità superstiti della immensa sciagura del paese […]. Ma nulla giunse nei quattro giorni finali dell’anno sciagurato: non un pane, non un farmaco. Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».

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Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia in tre scatti della Società fotografica italiana


Il terremoto del 28 dicembre 1908 fu il primo evento “mediatico” della storia italiana. In riva allo Stretto giunsero i giornalisti più famosi, tra i quali Luigi Barzini senior, il leggendario inviato del “Corriere della Sera”. Grazie al racconto dei quotidiani nazionali, l’Italia intera si sentì emotivamente coinvolta. Fiumi di inchiostro e, novità assoluta, numerose fotografie. I luoghi del disastro, morti e feriti, soccorritori, macerie e desolazione: anche le popolazioni delle province più lontane “videro” tutto. Le immagini diffuse avvicinarono gli italiani alla tragedia.
Nel 1889 era stata costituita a Firenze la Società fotografica italiana, sotto la presidenza dell’antropologo Paolo Mantegazza. Nel 1908 diversi fotografi giunsero a Reggio e a Messina per documentare fotograficamente gli effetti del terremoto e, neanche un anno dopo, i loro scatti trovarono sistemazione nel volume “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908” (Firenze, 1909). L’opera, che l’editore Barbaro di Delianuova ha meritoriamente ristampato nel 2002, contiene centinaia di immagini e gli interventi di autorevoli personalità del mondo culturale e scientifico: Gabriele D’Annunzio, Pasquale Villari, Corrado Ricci, Vittorio Spinazzola, Guido Alfani, Ugo Ojetti. Il contenuto della pubblicazione (scritti e didascalie delle fotografie), che fu dedicata dalla Società fotografica italiana all’«Opera nazionale di Patronato “Regina Elena” per gli orfani del terremoto», ha la caratteristica di essere riportato in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco.
La maggior parte delle fotografie furono realizzate a Reggio e a Messina, ma i reporter visitarono anche i paesi della provincia reggina. Sant’Eufemia è presente con tre scatti, realizzati da Luigi Lodi-Focardi e Silvio Bernicoli: la prima ritrae un’abitazione diroccata in uno scorcio di corso Umberto e piazza Plebiscito (odierna piazza don Minzoni); la seconda, una fontana con due donne e un uomo che fanno approvvigionamento d’acqua; la terza, la chiesa di Sant’Eufemia nel rione Petto, puntellata nei giorni successivi al terremoto.

*Fotografie tratte da: Società fotografica italiana, “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908”, ristampa a cura di Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 2002, pag. 303.

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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