Mi è stato chiesto di presentare una serata molto particolare, organizzata dal gruppo di Sant’Eufemia “Insieme per crescere” e dedicata agli insegnanti del nostro paese. La manifestazione, che si svolgerà domenica 17 dicembre presso la sala ricevimenti “Cagnolino”, a partire dalle ore 18.00, vuole essere un riconoscimento all’importanza del lavoro svolto dal “maestro”, al suo valore umano e professionale.
Ho frequentato la scuola elementare, la media e il liceo nel mio paese, sono orgoglioso di essere cresciuto tra quei banchi. Ho ricevuto molto, lì ho appreso molte delle lezioni che fanno di me l’uomo che sono oggi. Ed è accaduto perché in queste scuole ho avuto la fortuna di trovare insegnanti che avevano molto da dire non solo come docenti ma anche come cittadini ed esempi da imitare.
La signora Rina De Leo mi ha insegnato a leggere speditamente, a non sbagliare le “e” con l’accento e le “a” con l’acca, ma soprattutto mi ha insegnato cosa vuol dire “rispetto dei ruoli”. È una lezione che da allora non ho dimenticato. Si dirà che i tempi sono cambiati: ora gli alunni si rivolgono ai propri insegnanti dandogli del “tu”, una cosa impensabile quando frequentavo io la scuola elementare. I tempi sono cambiati, d’accordo. Ma a me pare che il riconoscimento di quell’autorevolezza non esista più e non è un bene, né per le istituzioni scolastiche, né per gli adulti di domani.
Nei piccoli paesi esistevano autorità riconosciute, oltre a quelle istituzionali del sindaco, del parroco e del brigadiere: l’insegnante, il farmacista, il medico. Non è più così: oggi tutti sono insegnanti anche se non hanno mai letto un libro di pedagogia, sanno cosa un docente deve insegnare e come si deve comportare con i ragazzi. Tutti si collegano a Internet e sanno da quale malattia sono afflitti, di quale terapia hanno bisogno, addirittura se i vaccini vanno fatti o meno.
Me la ripeto spesso quella lezione sul rispetto dei ruoli e cerco di applicarla nella vita di tutti i giorni, perché senza questa consapevolezza la società perde punti di riferimento fondamentali, si perde essa stessa nella confusione tra diritti, doveri e responsabilità. Non ho mai preso uno schiaffo dai miei insegnanti, ma me la facevo addosso solo al pensiero di un rimprovero, terrorizzato dall’eventualità che i miei genitori potessero essere convocati a scuola perché sapevo che, in quel caso, avrei fatto fare alla mia famiglia una cattiva figura.
Il professore Aldo Coloprisco mi ha insegnato che non basta sapere le date storiche più importanti o la biografia personale e professionale degli autori più famosi. Con il suo teatro mi ha insegnato ad essere un cittadino della comunità in cui vivo, perché ognuno di noi, con i propri talenti, ha il dovere di impegnarsi per rendere più bello il posto in cui vive. Il teatro del professore Coloprisco serviva a responsabilizzare i ragazzi, che assumevano un impegno che poi doveva essere portato a compimento. Serviva a farci capire che questo posto è nostro e che buon cittadino è colui che si spende per dare un contributo alla sua crescita facendo aggregazione, coinvolgendo nei processi di integrazione soprattutto coloro che in genere ne vengono esclusi. Anche questa è una lezione che custodisco nel profondo e che cerco di applicare alle cose che faccio nel mio piccolo, nelle associazioni o soltanto scrivendo della storia del paese.
Il professore Rosario Monterosso mi ha insegnato ad amare la storia. Devo a lui i libri che ho scritto. Era un hombre vertical, un uomo tutto d’un pezzo, dalle convinzioni solide e non barattabili. Un uomo che mi ha insegnato a guardare la vita e le persone con occhio da indagatore, che non deve mai fermarsi alle apparenze, che – di fronte a una “verità” – deve cercare sempre di comprendere le ragioni di chi quella verità cerca di confutare. Magari mantenendo le proprie idee, ma sempre rispettando quelle degli altri. Se si hanno delle idee e dei valori ai quali non si è disposti a rinunciare, si sarà sempre se stessi. Non esiste cosa più degna del non dovere mai fingere di essere altro dalla propria natura e dai propri convincimenti. Stare a posto con la propria coscienza, essere coerenti con i propri ideali e leali con il prossimo. Dare l’esempio della possibilità di una strada diversa, perché la vera sconfitta nella vita è rassegnarsi e subire passivamente ciò che accade intorno a noi.
Questi sono stati i miei maestri, in ordine rigorosamente cronologico. Come loro, molti altri hanno allevato generazioni di eufemiesi e a tutti loro dobbiamo essere grati.
La mia signora maestra
Non ho mai capito perché si faccia chiamare Rina. Il suo vero nome è Ermelinda ed è la mia maestra delle scuole elementari. “È”, non “era”: anche trent’anni dopo. Anzi, la mia “signora maestra”, come l’appellavamo noi alunni, al tempo in cui ancora non si usava dare del tu e chiamare per nome l’insegnante.
Il “voi”, allocutivo in uso nelle regioni meridionali al di là del retaggio fascista, marcava le distanze. Giustamente. Non è la nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma certo il ruolo sociale e l’autorevolezza dei docenti, a tutti i livelli, sono oramai parecchio scaduti. Un/a maestro/a di scuola elementare, in un paesino, contendeva al farmacista e al medico condotto il primato in termini di prestigio, influenza e rispetto tra i cittadini. Oggi, ahinoi, è spesso considerato un/a baby-sitter al servizio di genitori post-moderni che “sanno” tutto, come e meglio degli insegnanti dei propri figli. Si è passati dall’autorizzazione esplicita a non andare tanto per il sottile se il bambino era troppo vivace (“se faci u malu, minati”), al timore di alzare la voce anche quando si ha a che fare con teppistelli in erba.
La mia signora maestra, ad ogni modo, credo non abbia mai dato un ceffone. Una mosca bianca, diversi decenni fa. Aveva una bacchetta di legno (’a virga) che nessuna mano ha assaggiato: soltanto la cattedra ne conosceva il colpo, quando la classe eccedeva. Gliela procuravamo noi, con i mazzolini di fiori di campo per la statua della madonnina alla quale, ogni mattina, indirizzavamo l’Ave Maria.
Ai nostri occhi di bimbi, la signora maestra aveva un solo difetto: non ci portava mai a giocare nel cortile. Le rare uscite dall’aula avevano come destinazione un piccolo terrazzo della scuola. Chissà, forse lo shock per qualche incidente accaduto negli anni precedenti; o cautela per sfuggire al timore che potesse accadere qualcosa di spiacevole. Fatto sta che lo scorrazzare dei bambini dietro al pallone, in alto suscitava un’invidia da allora mai più provata.
La scuola elementare per me è il vocio della ricreazione; il blu dei grembiulini che tutti indossavamo (lo sfoggio dell’abbigliamento firmato era ancora di là da venire); le prelibatezze di “Vicenzina”, prima che l’affidamento esterno del servizio mensa provocasse una mezza rivoluzione; il profumo di primavera che entrava dal rettangolo di finestra che si affacciava sulla pineta comunale; la delicatezza della mano della signora maestra, quando una carezza sfiorava le nostre guance. Allora e oggi.
Come già in passato, le ho regalato il mio ultimo libro: un modo per ringraziare colei che mi ha insegnato a scrivere. Mi ha sorpreso con un inaspettato pensierino, prima di farmi rivivere in un attimo la mia infanzia, con una di quelle carezze che io so.
* Nella foto, la classe III C della Scuola elementare “Don Bosco” (anno scolastico 1981-1982)