Una voce per il Papa: Antonello Bille

Ormai dovremmo essere abituati a vederlo in televisione, in occasione delle importanti funzioni che si svolgono nel Vaticano, tenore tra le voci che compongono la “Cappella musicale pontificia sistina”. Ne fa parte da venticinque anni. Eppure ogni volta è un’emozione che si rinnova, per quel sentimento di orgoglio e di ammirazione che gli eufemiesi provano vedendo che un figlio di questa terra è stato capace di raggiungere vette professionali di assoluto rilievo.
Antonello Bille, cinquantenne cresciuto nel “Chjanu du Pettu”, a due passi dalla chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, che ha inciso profondamente sul ragazzo che era e sull’uomo che è diventato, ne ha fatta di strada. Anche se non ha mai reciso il legame con il paese di origine, dove torna appena ne ha la possibilità, quasi sempre ogni 16 settembre per la festa patronale, che coincide anche con la data del suo compleanno. Di questo affetto si nutre, lo custodisce nel cuore come un dono prezioso: «Chi come me va via, ha sempre il timore di venire dimenticato. Provo molto piacere quando apprendo che i miei compaesani sono orgogliosi di me e della mia attività».
È stato toccante ascoltarlo in occasione della recente Via Crucis, particolarmente intensa a causa della presenza/assenza del Pontefice, che non c’era ma il cui spirito e le cui parole hanno riecheggiato lungo il percorso dal Colosseo al Tempio di Venere sul Palatino. Poi la morte di Papa Francesco, il funerale, la consapevolezza dell’importanza del momento storico e l’emozione provata quando il feretro ha fatto il suo ingresso nella chiesa di Santa Maria Maggiore, accolta dai canti eseguiti dalla Cappella musicale: tra i cantori, Antonello Bille.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato nel corso di una conversazione sviluppata sul filo dei ricordi, un andare per poi ritornare al punto di partenza, al luogo dove tutto ha avuto inizio: Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Quando hai scoperto di avere questo dono e come hai iniziato?
Ho scoperto di avere questo dono un po’ tardi. Ho frequentato il liceo artistico “Mattia Preti” di Reggio Calabria e, in quegli anni, la musica e il canto erano lontani dai miei progetti di vita. In paese ho però iniziato a collaborare con il coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua”, allora diretto dal carissimo amico M° Raffaele Federico: ricordo quando ci svegliavamo alle 5:00 per la novena di Natale. Compresi che avevo delle qualità e il successivo ingresso nel conservatorio “Francesco Cilea” di Reggio confermò quella sensazione. Raffaele Federico è stato per me un grande supporto, con le sue parole di incoraggiamento. Altra figura importante è stata il M° Mons. Giorgio Costantino, docente del conservatorio in esercitazione corali e direttore del coro “Laudamus” di Reggio Calabria, nel quale entrai dopo circa un anno: mi ha sempre seguito con affetto ed è stato fondamentale per la mia formazione professionale. Al conservatorio “Cilea” ho avuto maestri eccellenti, che non solo mi insegnavano la musica, ma mi sollecitavano a “crederci” perché il mondo del canto un giorno mi avrebbe dato il pane. Infine, il mio caro Maestro di canto Antonio Bevacqua, di Messina, il quale ha fatto un grande lavoro sotto il profilo tecnico. Non dimenticherò mai le traversate a bordo della “Caronte” per recarmi alle sue lezioni.

Quando sei entrato nel Coro vaticano?
Nell’aprile del 1999, mentre ero ancora allievo del conservatorio, il M° Mons. Giorgio Costantino mi informò che il Maestro della “Cappella musicale pontificia sistina”, all’epoca Mons. Giuseppe Liberto, cercava nuovi tenori. Mi presentai e sostenni l’audizione davanti a lui, al “Magister Puerorum” don Marcos Pavan (oggi Maestro direttore della Cappella), al segretario e al decano dei cantori pontifici. Nel frattempo conseguivo il Diploma in canto con lode e menzione d’onore. Il 14 settembre fui convocato ufficialmente da Mons. Giuseppe Liberto ed entrai così nel coro più antico del mondo e coro personale del Papa.

Da quanti cantori è composto il Coro, quali sono le sue attività e come si svolge la tua giornata?
Attualmente il Coro, che in genere svolge il suo servizio liturgico nella Basilica di San Pietro, è composto da 24 Cantori adulti suddivisi in tenori I e II, baritoni e bassi, e da circa 30 Cantori fanciulli (i “Pueri Cantores”, le voci bianche che secondo un’antica tradizione sostituiscono le voci femminili, suddivise in contralti e soprani). Normalmente siamo impegnati con le prove per le celebrazioni papali e i concerti, dalle tre alle quattro ore al giorno. La Cappella musicale pontificia interviene solo in presenza del Papa, anche per funzioni private nella cappella del Santo Padre oppure in altre cappelle che sono all’interno del palazzo apostolico, con il segretario di Stato. Al di fuori dal contesto delle cerimonie liturgiche svolge inoltre l’attività concertistica, sia in Italia che all’estero.

Ci sono avvenimenti che ricordi con particolare emozione?
Tantissimi, in particolare quelli legati agli anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Su tutti, l’apertura della Porta Santa nel Grande Giubileo del 2000 e la morte di Karol Wojtyla. Nel primo caso, ero arrivato a Roma da appena tre mesi: per me era tutto nuovo, immenso, vibrante. Mi sentivo parte della Storia mentre si stava svolgendo. Dopo il Santo Padre, toccò alla Cappella musicale attraversare la Porta Santa. Ho provato un’emozione indescrivibile, amplificata dalla voce tremante di Giovanni Paolo II: un fuoco dentro il cuore che non va mai via. La sua morte diede la sensazione che il mondo si fosse fermato, che la terra avesse smesso di girare. Dalle cose più importanti fino a quelle più banali, come fare la spesa. Il silenzio che si percepiva a Roma era impressionante, solenne, intimo. E poi il funerale, con quel vento che giocava con le casule dei cardinali e, sulla bara, sfogliava le pagine del Vangelo. Ma ho provato emozione anche nei passaggi più significativi di questi ultimi 25 anni: l’elezione di Benedetto XVI e l’11 febbraio 2013, quando nella Sala Clementina pronunciò la formula della rinuncia al soglio pontificio; infine l’elezione di Papa Francesco, che per la verità nessuno nel Vaticano si aspettava.

Come hai vissuto la morte di Papa Francesco? Cosa hai provato quando la bara con il Santo Padre ha fatto ingresso nella chiesa e come ti sei sentito nel momento in cui cantavi per lui?
Sono stato presente alla constatazione di morte, poiché il protocollo del cerimoniale prevede che siano presenti, oltre al medico personale del Papa che legge le cause del decesso, tutta la famiglia pontificia, della quale fa parte anche la Cappella musicale. Poi, mercoledì 23 aprile, nella Basilica di San Pietro per la traslazione. Arrivava il momento di far vedere al mondo per l’ultima volta le sue spoglie mortali. Il cerimoniale prevede che i “sediari” portino il Santo Padre nella bara scoperta. Il momento è solenne e scandito dal camminare lento e ordinato della processione. Una situazione che io avevo già vissuto con i due precedenti Papi. Ma è come se fosse sempre la prima volta. Sono sensazioni indescrivibili, dal fortissimo impatto emotivo. Anche perché ti rendi conto che fai parte di tutto quello che sta accadendo, non sei soltanto uno spettatore. Le mani tremano e si ha paura di poter sbagliare mentre si canta. È difficile gestire l’equilibrio interiore, perché l’emozione è fortissima. Non rimane altro da fare che pregare, nel mio caso cantando. Abbiamo eseguito alcuni salmi in gregoriano, in latino a una voce, e le antifone per i defunti: “Requiem aeternam”, “Sitivit anima mea” e altre.

Hai qualche ricordo personale di Papa Francesco?
In particolare due. Nel corso di una messa celebrata nella cappella privata per i suoi cinquant’anni di sacerdozio, ebbi un incontro molto breve: il tempo di stringergli la mano, poiché nella sua grande umiltà non voleva che gli fosse baciata, di chiedergli come stesse e di ringraziarlo per la sua presenza. In occasione dei suoi ottant’anni, ebbi invece modo di soffermarmi di più con lui. Gli chiesi una preghiera per una persona a me cara: mi domandò il nome di questa persona, quindi mi strinse forte la mano e mi disse di stare tranquillo. La sua preghiera fu esaudita.

Quanto è forte il tuo legame con Sant’Eufemia?
Tantissimo, nonostante gli anni trascorsi fuori per gli studi e per il lavoro. Sono cresciuto nel rione “Petto”, a pochi metri dall’ingresso laterale della chiesa di Sant’Eufemia, dove c’erano i locali dell’Azione Cattolica”: un punto di ritrovo per me e per tanti altri ragazzi con i quali ho condiviso momenti di pace, serenità, spensieratezza e tante risate. Una sorta di porta magica che ci teneva uniti. Sant’Eufemia sta sulla prima riga del mio curriculum artistico, ne vado fiero. Con le sue strade, il pane di “Tita”, le fontane della “Pirina” e della “Nucarabella”, i posti dove da ragazzini andavamo a raccogliere l’origano, sotto il ponte della ferrovia: un luogo che ho sempre immaginato come ideale per girarci un film western. Le interminabili partite a pallone davanti alla chiesa parrocchiale, le sfide con i ragazzi degli altri quartieri, le giocate a carte sui gradini della chiesa. Sono legato intimamente alle nostre tradizioni religiose: la pietà popolare è il ponte indispensabile affinché ogni essere umano si avvicini alla casa del Signore. E poi la nostra amata Sant’Eufemia, che ancora oggi ci parla e ci protegge. Il mio rapporto con “Lei” è iniziato il giorno della mia nascita: mio padre ancora oggi si commuove raccontando che mentre “Lei” usciva dal portone della chiesa per la processione, io venivo al mondo uscendo dal grembo di mia madre. Il giorno della festa cerco sempre di essere presente, anche se ogni tanto non mi riesce. La cerco ovunque, specialmente da quando mi sono trasferito a Roma. Mi affido sempre a Lei. Quando mi distraggo, succede qualcosa che mi fa capire che “Lei” è vicino a me. Non mi sono mai sentito abbandonato, né ho perso la strada che mi conduce a “Lei”. Ricordo con commozione le feste, le “entrate” con i magnifici fuochi d’artificio, le processioni sontuose e partecipate da tutti. So che qualsiasi cosa dovesse accadere, quei momenti li porterò sempre dentro di me. Ormai, da venticinque anni, la mia vita è a Roma: ma, anche se un giorno non dovessi più tornare, per il mio paese pregherò e spererò sempre il meglio.

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Noi detenuti meno soli e disperati durante la pandemia grazie a Francesco

Costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole sul Covid pronunciate dal Papa in una piazza San Pietro deserta

Nella sezione c’era un silenzio irreale. L’orologio in mezzo al corridoio segnava le 14:50. Come sempre. Chissà da quanti anni. Il tempo in carcere non esiste, che le lancette stiano ferme o si spostino sul quadrante non fa differenza. È un tempo sospeso tra una battitura e l’altra. Dai camerotti e dai cubicoli arrivava in stereofonia la telecronaca di ciò che stava succedendo in piazza San Pietro. I nostri occhi erano tutti incollati in alto, sopra il cancello serrato, fissi sul teleschermo.
Un uomo vestito di bianco attraversava la piazza deserta, sotto la pioggia, prima di fermarsi sotto un crocifisso: «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda». Parlava del Covid, ma costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole. Dalla rete a maglia fittissima delle finestre, nelle ore diurne, anche la luce faticava ad entrare. Ci sentivamo soli, maledettamente soli.
Dal mondo di fuori arrivavano notizie frammentarie, che stentavamo a comprendere. I camion militari con le bare, l’aggiornamento quotidiano delle vittime della pandemia dai telegiornali che divoravamo. Non ci fidavamo di ciò che ci dicevano da casa. I colloqui erano stati sospesi: restavano le lettere, le telefonate e poi, finalmente, l’introduzione delle videochiamate. L’unico lascito positivo di quella terribile catastrofe sanitaria.
Giungevano notizie sui distanziamenti, sulle autorizzazioni per uscire di casa per la spesa, sul controllo poliziesco fino a davanti l’uscio delle porte, sugli inseguimenti, le multe, le denunce. Non capivamo. Paradossalmente, tutte queste precauzioni ci erano state risparmiate. Carcere e distanziamento sono due sostantivi che non possono stare nella stessa frase. Nelle celle, nel cortile: impossibile. Mascherine, neanche a parlarne. Almeno all’inizio. Ma neanche dopo, tranne quando si doveva accedere all’infermeria o alla matricola.
Gli ultimi possono anche morire, non fanno rumore. Se così non fosse, i nostri governanti dovrebbero impazzire per i suicidi che si registrano dietro le sbarre. E agli ultimi pensava Papa Francesco. Nel disorientamento generale, lo sentivamo vicino. Avvertivamo la potenza della preghiera, che non chiede il miracolo, bensì la concessione della forza necessaria per affrontare la burrasca. Ognuno la propria. Ci nutrivamo delle sue parole di speranza e della sua compagnia ogni mattina alle sette, quando appariva sui teleschermi dalla cappella di Santa Marta. Molti di noi appresero allora che visitare i carcerati era una delle sette opere di misericordia corporale.
Papa Francesco veniva a farci visita tutti i giorni. Nel carcere di Palmi suppliva l’assenza forzata di don Silvio, che fino ad allora era stata la nostra ancora di salvezza. Con le sue parole di conforto, lo sguardo di comprensione, l’indignazione per le troppe ingiustizie che da cappellano avvertiva come conficcate nelle sue carni.
In uno degli ultimi incontri prima della cancellazione definitiva di ogni visita, gli avevo proposto di organizzare una via crucis nel cortile. In carcere non mancano i poveri cristi e, fortunatamente, neanche i cirenei compassionevoli, compagni che aiutano l’altro a sorreggere la croce con un gesto di umanità o con una parola di incoraggiamento.
Ovviamente, non se ne fece niente. Riuscì però a fare una sortita il giorno di Pasqua, ad affacciarsi dalla porta sul cortile per un saluto, a fare avere a ciascun detenuto un bocconcino con la crema. Ci restava però Papa Francesco. Il rappresentante di una Chiesa che ciclicamente e inutilmente chiede un gesto di clemenza, denuncia la barbarie del carcere, invita alla compassione e alla carità.
La mia, la nostra, tutte le solitudini del mondo si condensavano in una macchia bianca raccolta in preghiera sotto la croce. Ci sentivamo un po’ meno soli.

IL DUBBIO, 23 aprile 2025

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Sperare contro ogni speranza

Di carcere non si interessa nessuno, a parte i radicali e la chiesa. Due realtà lontanissime che si ritrovano dalla stessa parte nella denuncia del carcere come discarica sociale, mattatoio dei diritti e della dignità umana. La parola d’ordine di Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale che ha come mission l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena, è “spes contra spem”: speranza contro ogni ragionevole speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. E pure biblica è la suggestione evocata dal nome: «Il Signore pose su Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».
Ieri mattina si è svolta presso la concattedrale di Palmi la terza tappa della “Peregrinatio Crucis”, una cerimonia liturgica analoga a quelle celebrate nei due giorni precedenti dai detenuti dell’alta e della media sicurezza del penitenziario di via Trodio. La Croce della Misericordia, benedetta da Papa Francesco il 14 settembre del 2019, è stata dipinta da una volontaria e dai detenuti del carcere di Paliano (FR). Le immagini rappresentano la liberazione di Pietro e di Paolo dalla prigione, le donne che vivono nelle carceri con i loro bambini, i volontari che incontrano i detenuti. Ai piedi del Cristo, il popolo orante: detenuti, polizia penitenziaria e volontari; in alto, San Basilide (patrono della polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei carcerati e dei condannati a morte). Una seconda croce, invece, è stata realizzata dai detenuti del carcere di Palmi.
Ho partecipato alla liturgia e mi ha onorato il gesto di don Silvio Mesiti, che ha voluto che fossi io a leggere la preghiera finale. Bisogna sempre sforzarsi di trovare il bello anche laddove tutto sembra brutto: è stato questo, tre anni fa, il senso del mio incontro con don Silvio e quello con la grande umanità (inspiegabile per chi non ha “visto”) di gente confinata nel limbo spazio-temporale di un luogo di pena e di sofferenza.
Appena rientrato a casa ho ricevuto la visita del postino, il quale mi ha consegnato la tessera di Nessuno Tocchi Caino per l’anno 2023, accompagnata da una lettera: «Nei 365 giorni di un anno, almeno la metà li viviamo nelle carceri. “Guai a distrarsi un attimo dalla attenzione sul carcere”, ripeteva spesso Marco Pannella. Perché è diventato un luogo non solo di privazione della libertà, ma spesso anche della salute e della vita. Una istituzione anacronistica, uno spazio e un tempo fuori dal mondo e fuori dal tempo, dove si infliggono pene corporali e quei trattamenti inumani e degradanti che nella storia dell’umanità abbiamo abolito. Schiavitù, tortura, pena di morte, manicomi, lazzaretti, li abbiamo superati a uno a uno e li abbiamo concentrati in un luogo solo: il carcere».
La singolare coincidenza accaduta ieri mi ha fatto pensare proprio a questa insolita alleanza tra due mondi distanti, ma uniti nel contrapporre alla barbarie il diritto, alla disumanità la compassione, alla vendetta la misericordia, alla morte la vita.

La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Paliano e benedetta da Papa Francesco
La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Palmi
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Giornata mondiale dei poveri

“Non serve per vivere chi non vive per servire”: utilizzando le parole di don Tonino Bello, Papa Francesco ha ribadito il valore del messaggio evangelico “tendi la tua mano al povero”, tema centrale dell’odierna Giornata mondiale dei poveri. Ma cos’è la povertà? Ovvio, esiste una spaventosa povertà materiale, sulla quale noi fortunati abitanti della parte sviluppata del pianeta tendiamo a chiudere gli occhi, fino a quando non ci presenta il conto degli sbarchi dei disperati che scappano da guerre, eccidi, carestie. Occhi che sgraniamo quando i sei mesi di Joseph finiti in fondo al mare gridano vendetta, per poi dimenticare. Perché “il dolore degli altri è un dolore a metà”: ce l’ha insegnato Fabrizio De Andrè, con gli emarginati e i diseredati ai quali ha dato voce e dignità letteraria, riconoscendo loro il diritto di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. E poi esiste una povertà dello spirito, che ci porta ad inseguire bisogni sempre più crescenti, sempre più effimeri, sempre più egoisti. Scrooge, l’avido protagonista di “Canto di Natale”, è poverissimo.

Contagiati come siamo dal virus dell’indifferenza, il male che il prete degli ultimi don Andrea Gallo definì “l’ottavo vizio capitale”, neanche ci accorgiamo di coloro che hanno realmente bisogno: si tratti di un piatto di pasta o di una carezza. Quante volte ci giriamo dall’altra parte, per non vedere e per sentirci così a posto con la nostra coscienza vigliacca? Ciò che non si vede non esiste, a maggior ragione in una società fondata sulle immagini. Ritoccate e spacciate per vere, tra l’altro.
L’imperante cultura dello scarto nasconde sotto il tappeto tutto ciò che sporca un’immagine fasulla di arcadia. Eppure bisognerebbe imparare a “sedersi dove la gente si siede”, come padre Alex Zanotelli a Korogocho, baraccopoli di Nairobi. Perché tutti gli esseri umani dovrebbero avere il diritto a vivere con dignità. Ovunque si trovino, quale che sia la loro condizione: liberi e oppressi.

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Giornata mondiale del malato

Dal 1992, quando fu istituita da Papa Giovanni Paolo II, l’11 febbraio ricorre la Giornata mondiale del malato. Il tema di questa XXVIII edizione è tutto nelle parole del Vangelo di Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Papa Francesco ha invocato occhi che vedano l’umanità ferita perché capaci di guardare in profondità, occhi che “non corrono indifferenti, ma si fermano e accolgono tutto l’uomo, ogni uomo nella sua condizione di salute, senza scartare nessuno, invitando ciascuno ad entrare nella sua vita per fare esperienza di tenerezza”. Spesso sappiamo tutto di quello che succede nel mondo, ma non ci accorgiamo della sofferenza del nostro vicino di casa. E di sofferenza ce n’è tanta: basta entrare nelle case, soffermarsi, non passare oltre; lottare contro uno dei mali più gravi di questi nostri tempi: l’indifferenza.
La Giornata del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra ogni anno, articolandola in tre momenti. Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliari agli ammalati e la consegna di una statuetta della Madonna di Lourdes. Il pomeriggio è stato invece dedicato alla preghiera, sotto la guida del parroco don Marco Larosa. Presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” (alla quale l’Associazione ha donato un rosario), don Marco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’unzione degli infermi, alla presenza della statua della Madonna di Lourdes, portata all’interno della RSA dai volontari dell’Agape. Infine, la celebrazione della Santa Messa nella chiesa di Sant’Eufemia, conclusa con la “Preghiera per la XXVIII Giornata Mondiale del Malato”, nel corso della quale il presidente dell’Agape Iole Luppino ha ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi: «Signore, noi volontari Ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia e di condivisione. Ti chiediamo che dal tuo Paradiso essi possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani il desiderio di scoprire la bellezza del donarsi».

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Il Papa dei poveri

A pochi giorni dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro, la sensazione è da tramonto di un’epoca. Ciò non implica un giudizio negativo sul pontificato di Benedetto XVI. Anzi. Quando i fatti sedimenteranno e consentiranno agli storici una valutazione obiettiva, la statura morale, intellettuale e “politica” di Joseph Ratzinger avrà un giusto riconoscimento.

Ho ripensato spesso, in queste ultime settimane, alle parole rivolte da un minaccioso Napoleone Bonaparte al cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII – “Io distruggerò la vostra Chiesa” – e alla risposta del plenipotenziario pontificio: “Maestà, sono venti secoli che noi stessi cerchiamo di farlo, ma non ci siamo mai riusciti”.
C’è dell’inspiegabile – per chi crede, riconducibile ai piani insondabili di Dio – nella capacità della Chiesa di toccare il fondo per poi rialzarsi.

Dopo gli scandali del recente passato e la rinuncia di Benedetto XVI, urgeva un cambio di marcia. Ancora è troppo presto per azzardare se il volo ci sarà, ma la rincorsa è già visibile.
I primi passi di Francesco appaiono confortanti per tutti quei fedeli che vivono con ansia e smarrimento l’attuale situazione. L’attesa era grande ed è stato sufficiente poco (o molto: dipende dai punti di vista) per fare scoccare la scintilla: la rinuncia al crocifisso d’oro e alla mozzetta rossa; la richiesta di saldare il conto alla reception della Casa del Clero; il viaggio sulla navetta vaticana – preferita alla Mercedes nera targata SCV1 – e la scoperta che da cardinale Bergoglio era solito spostarsi in metropolitana, in autobus o addirittura in bicicletta. Nei suoi gesti, sobrietà, umiltà e calore: quanto basta per suscitare un istintivo moto di simpatia, che i continui strappi al protocollo (già diventati un tratto distintivo del suo pontificato) favoriscono ulteriormente: la ricerca del contatto fisico con i fedeli, i discorsi a braccio, le battute ironiche e le confidenze personali, come la rivelazione dell’invito rivoltogli del cardinale brasiliano Claudio Hummes nel corso dello scrutinio (“non dimenticarti dei poveri”), che ha determinato la scelta del nome: “l’uomo della povertà (“come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”), l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”; o il ricorso alle parole di un’anziana signora incontrata in Argentina per spiegare il vero significato della parola misericordia, tema centrale del suo primo Angelus. E poi quell’invocazione (“pregate per me”), ripetuta sin dal giorno dell’elezione, insieme alla raccomandazione di “parlarsi gli uni con gli altri”. Ascoltare e parlare. Una soluzione nuova e antica. Come la Chiesa che ha in mente Francesco.

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