Bisogna vedere

L’odore del carcere rimane nelle narici, persiste alle docce e al tempo che scorre. Un tanfo di chiuso, una miscela di umidità, cibi cucinati, fumo di sigarette, afrore di corpi costretti in spazi angusti. La casa circondariale di Vibo Valentia non fa eccezione. Anzi. Le infiltrazioni d’acqua si accertano a vista d’occhio, i muri scrostati e le ampie chiazze di muffa ricordano che ci troviamo in un luogo di pena. Ma un luogo, per essere di pena, deve presentare condizioni di vivibilità disumane, da bestie? Non è già la privazione della libertà una pena sufficiente? Ulteriori e gratuite afflizioni non aggiungono niente, semmai tolgono. La dignità.
Il lungo tour di Nessuno Tocchi Caino nelle carceri calabresi ha fatto proprio ieri tappa a Vibo. Una delegazione di iscritti guidata da Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, insieme al garante regionale dei diritti delle persone detenute Luca Muglia e a rappresentanti delle camere penali vi ha trascorso oltre quattro ore, nel corso delle quali ha incontrato la direttrice dell’istituto, il comandante della polizia penitenziaria, il dirigente sanitario e visitato infine alcune sezioni.
Per me si trattava di mantenere la promessa silenziosa di tre anni fa: «In carcere ci tornerò da cittadino libero». Così è stato e non posso che ringraziare NTC per avermi dato questa opportunità, che è soprattutto desiderio di non dimenticare, di separare con il cribro dell’umanità il bello dal brutto, di provare a trasformare una vicenda personale dolorosa in qualcosa di utile.
Su “La Stampa” di oggi, Mattia Feltri scrive che “il nostro Stato è indecente con i suoi cittadini privati della libertà”. A volte ciò accade per la disumanità dell’uomo, altre per criticità strutturali come quelle riscontrate a Vibo, che vanificano il lodevole impegno della sua direttrice: un edificio fatiscente a soli ventisei anni dalla sua inaugurazione, la cronica carenza di agenti e un’area sanitaria al collasso, nonostante l’eroismo dell’esiguo personale sanitario.
Vibo non è un carcere, è un lazzaretto abitato per quasi la metà della sua popolazione da detenuti psichiatrici, tossicodipendenti e soggetti affetti da patologie con le quali già fuori si ha difficoltà a convivere. Figuriamoci in un posto governato da “domandine” alle quali non si sa mai se e quando qualcuno risponderà. Un universo di detenuti e “detenenti” (copyright di Marco Pannella) dolente e ai più sconosciuto.
Il tempo in carcere non esiste, forse per questo gli orologi con il datario nei corridori sono fermi ad ore e date diverse da sezione a sezione. È un tempo morto, ucciso dall’inedia e dalla successione di giorni sempre uguali, consumati nell’attesa di qualcosa: la telefonata a casa, l’arrivo del pacco, la visita familiare o dell’avvocato. Un lento stillicidio di minuti che è tutto nell’andatura dei detenuti nel cortile per il passeggio: una vasca di cemento che uomini in tuta e scarpe da tennis percorrono con passo regolare avanti e indietro o in senso circolare, come nella celebre “ronda dei carcerati” di Van Gogh.
Visitiamo l’isolamento, la media e l’alta sicurezza. L’isolamento è un girone infernale umido e ammuffito, squallida la saletta della socialità completamente spoglia, senza neanche una sedia. Come ovunque, molti detenuti riconoscono Rita, la chiamano per nome e le sottopongono problematiche varie. Lei prende appunti, pone domande, spiega cosa si può fare, lascia il suo recapito e chiede di essere contattata. Molti carcerati non sono consapevoli di avere dei diritti che possono e devono rivendicare. Il giovane sconfortato al pensiero della vita sfuggitagli di mano, ma fiero per avere ricevuto due encomi in altrettanti concorsi di poesia, quando ci allontaniamo accenna un sorriso.
I detenuti hanno fame di parole, da pronunciare e da ascoltare. Ogni volta che riescono ad incontrare qualcuno proveniente dal mondo di fuori, è una ventata d’aria fresca che li fa sentire vivi.
Nell’alta sicurezza l’accoglienza è calorosa. Il camerotto a sei posti è troppo piccolo, ma ci stiamo lo stesso, seduti sugli sgabelli e in piedi. La cella è un po’ buia perché la luce entra a fatica dalla finestra coperta da teli e indumenti stesi ad asciugare. La terza branda di un letto a castello è una mensola del supermercato, da lì un detenuto prende i pacchi di patatine che apre per noi, mentre un altro prepara il caffè sul fornellino da campeggio. Dividiamo i panini distribuiti dall’amministrazione carceraria, come in un rito sacro: «Dai, mangiate, così non andate via».
Nella media sicurezza incontriamo un signore di 87 anni. Che ci fa in carcere un vecchio quasi novantenne? Qualsiasi reato abbia commesso, dovrebbe esserci un modo per fargli scontare la pena altrove. C’è il detenuto che ha salvato dal suicidio il compagno di cella, afferrandolo in tempo prima che il nodo al collo lo strangolasse. Fuori non si ha idea dell’umanità possibile in un posto che l’immaginario collettivo considera abitato da diavoli. L’istantanea finale ha il volto desolato del detenuto che non riesce ad ottenere un permesso di avvicinamento in un carcere vicino a casa, per potere così fare il colloquio con i familiari e riabbracciare il figlio, dopo quattro anni e mezzo.
Il 27 ottobre saranno trascorsi settantacinque anni dal monito rivolto da Piero Calamandrei ai colleghi deputati: «In Italia il pubblico non sa abbastanza che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna essere stati, per rendersene conto». Bisogna vedere, sì. E bisogna raccontare.

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Sperare contro ogni speranza

Di carcere non si interessa nessuno, a parte i radicali e la chiesa. Due realtà lontanissime che si ritrovano dalla stessa parte nella denuncia del carcere come discarica sociale, mattatoio dei diritti e della dignità umana. La parola d’ordine di Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale che ha come mission l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena, è “spes contra spem”: speranza contro ogni ragionevole speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. E pure biblica è la suggestione evocata dal nome: «Il Signore pose su Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».
Ieri mattina si è svolta presso la concattedrale di Palmi la terza tappa della “Peregrinatio Crucis”, una cerimonia liturgica analoga a quelle celebrate nei due giorni precedenti dai detenuti dell’alta e della media sicurezza del penitenziario di via Trodio. La Croce della Misericordia, benedetta da Papa Francesco il 14 settembre del 2019, è stata dipinta da una volontaria e dai detenuti del carcere di Paliano (FR). Le immagini rappresentano la liberazione di Pietro e di Paolo dalla prigione, le donne che vivono nelle carceri con i loro bambini, i volontari che incontrano i detenuti. Ai piedi del Cristo, il popolo orante: detenuti, polizia penitenziaria e volontari; in alto, San Basilide (patrono della polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei carcerati e dei condannati a morte). Una seconda croce, invece, è stata realizzata dai detenuti del carcere di Palmi.
Ho partecipato alla liturgia e mi ha onorato il gesto di don Silvio Mesiti, che ha voluto che fossi io a leggere la preghiera finale. Bisogna sempre sforzarsi di trovare il bello anche laddove tutto sembra brutto: è stato questo, tre anni fa, il senso del mio incontro con don Silvio e quello con la grande umanità (inspiegabile per chi non ha “visto”) di gente confinata nel limbo spazio-temporale di un luogo di pena e di sofferenza.
Appena rientrato a casa ho ricevuto la visita del postino, il quale mi ha consegnato la tessera di Nessuno Tocchi Caino per l’anno 2023, accompagnata da una lettera: «Nei 365 giorni di un anno, almeno la metà li viviamo nelle carceri. “Guai a distrarsi un attimo dalla attenzione sul carcere”, ripeteva spesso Marco Pannella. Perché è diventato un luogo non solo di privazione della libertà, ma spesso anche della salute e della vita. Una istituzione anacronistica, uno spazio e un tempo fuori dal mondo e fuori dal tempo, dove si infliggono pene corporali e quei trattamenti inumani e degradanti che nella storia dell’umanità abbiamo abolito. Schiavitù, tortura, pena di morte, manicomi, lazzaretti, li abbiamo superati a uno a uno e li abbiamo concentrati in un luogo solo: il carcere».
La singolare coincidenza accaduta ieri mi ha fatto pensare proprio a questa insolita alleanza tra due mondi distanti, ma uniti nel contrapporre alla barbarie il diritto, alla disumanità la compassione, alla vendetta la misericordia, alla morte la vita.

La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Paliano e benedetta da Papa Francesco
La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Palmi
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Dalla parte dei relitti

Mi sono iscritto a “Nessuno tocchi Caino – Spes contra Spem”, l’associazione fondata nel 1993 dal Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito che ha come obiettivo principale “l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena” e che “realizza progetti nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, particolarmente inteso come sviluppo di istituzioni e regole democratiche, affermazione e promozione dei diritti umani”.
“Nessuno tocchi Caino” non vuol dire stare dalla parte dei delinquenti, bensì dalla parte della giustizia e dell’umanità, in un’epoca di imbarbarimento sociale, di chiavi della galera che si vorrebbero buttare, di detenuti per i quali l’unica prospettiva auspicabile, secondo la vulgata giustizialista e populista, dovrebbe essere quella di marcire in galera. Per questo NTC propugna l’abolizione dell’ergastolo, definito da Papa Francesco come una pena di morte “nascosta”.
“Spes contra spem”: sperare contro ogni speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Sperare nella possibilità di un cambiamento e di una riconversione, attraverso la costituzione di laboratori nelle carceri, per realizzare il dettato costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Nei giorni scorsi ho letto un saggio di Stefano Natoli, giornalista, volontario nelle carceri milanesi e membro di NTC: “Dei relitti e delle pene. Giustizia, Giustizialismo, Giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione” (Rubbettino 2020; con prefazione di Giuliano Pisapia).
Un libro illuminante sulla questione carceraria, della quale l’opinione pubblica sa poco, a meno che qualche rivolta non attiri l’attenzione dei media. Non conosce niente del sovraffollamento, dei suicidi e dei tentativi di suicidio, dell’umiliante disumanità della detenzione, dei diritti negati. Non sa che sono chimere principi quali rieducazione, reinserimento, trattamento umano. Né sa che la Corte europea dei diritti dell’uomo in più occasioni ha condannato l’Italia per trattamenti “disumani e degradanti”.
I penitenziari (“il cimitero dei vivi”, secondo la definizione di Filippo Turati) sono discariche sociali frutto di una visione carcero-centrica che considera “giuste” la sofferenza e l’eliminazione dei diritti della persona umana. Anche per chi in carcere non dovrebbe starci (detenuti sottoposti a carcerazione preventiva, condannati ingiustamente): «Dal 1992 al 2019 – ricorda Natoli citando Annalisa Cuzzocrea – si sono registrati oltre 27.000 casi di persone che finiscono in galera da innocenti» (con un costo per lo Stato, in risarcimenti, di oltre 700 milioni di euro, circa 29 milioni di euro all’anno).
Il carcere non dovrebbe essere soltanto un luogo di espiazione e una giustizia vendicativa non è giustizia. Difendere Caino non per “fare il tifo” per l’assassino, ma per superare una concezione tribale della giustizia attraverso la difesa del valore dell’essere umano e della sua dignità, sempre.

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