Pablito

“I nostri miti morti ormai”, come in una celebre canzone di Guccini. Ho iniziato a canticchiare “Incontro” subito dopo avere saputo che anche Pablito ci ha lasciati, in questo terrificante 2020. Un riflesso pavloviano: «Siamo qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno». I simboli di un bambino di nove anni cresciuto a pane con l’olio e Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Tuttosport, Intrepido sportivo e Guerin sportivo. Il Bar Mario era una sorta di emeroteca olimpionica. Il bambino di nove anni amava il calcio visceralmente, volava sulle ali della sua bellezza poetica, che cercava di imitare ovunque si potesse correre dietro ad a un pallone: piazze, strade, angoli abbandonati che venivano convertiti in campo da calcio. La bellezza non ha colori, per questo collezionava i poster dei suoi supereroi preferiti. Accanto ai nerazzurri, quelli bianconeri di Zoff, Scirea, Tardelli, Rossi e della colonia straniera sbarcata nel campionato più bello del mondo: Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Maradona, Passarella, Junior, Socrates, Cerezo.
Nell’immaginario collettivo Paolo Rossi rimarrà per sempre Pablito, il ragazzo timido e di poche parole capace di trasformare in gol il più sbilenco dei cross, un rimpallo o un pallone vagante dentro l’area. Nell’era moderna, soltanto Pippo Inzaghi gli si è avvicinato come natura e stile di gioco.
Paolo Rossi, per tutti “Pablito” dopo il “Mundial ’82”. Di questi tempi non lo sarebbe diventato. Due anni di squalifica per calcio scommesse e la convocazione poco prima del mondiale, dopo una lunghissima inattività. Nell’Italia di oggi, assetata di sangue, sarebbe stato crocifisso in piazza. Ma quella era un’epoca di uomini veri e un “hombre vertical” come il commissario tecnico Enzo Bearzot non era certo tipo da farsi intimidire da chi, eufemisticamente, storceva il naso. Neanche quando, nelle prime tre partite, Paolorossi (sì, tutto attaccato) era stato un fantasma. Credeva nei suoi “il vecio”. Credeva in Paolorossi, sempre titolare a dispetto di tifosi, giornalisti e sedicenti padreterni del calcio. Bearzot sapeva che in Italia basta poco per passare dal disprezzo all’idolatria: a Rossi bastarono tre partite per diventare Pablito e per fare scoppiare di gente il carro del vincitore. Tre gol al Brasile, nella partita di calcio più celebrata insieme al 4-3 alla Germania nel 1970, due alla Polonia in semifinale e uno alla Germania in finale, sotto la pipa felice e sorniona di Sandro Pertini.
Pablito aveva avuto la sua seconda possibilità e, con sé stesso, aveva riscattato l’Italia intera: aveva affermato il principio che la polvere non è per sempre, così come l’altare. Che si può rinascere ogni giorno. Una lezione che molti oggi sembrano avere dimenticato, seguaci invasati della furia iconoclasta di uno Stato che si vorrebbe etico.
Ad ogni partita il Bar Mario registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. In quell’indimenticabile 11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Gli occhi fissi sul Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa. E il cuore che andava a mille, fino al grido di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Gli azzurri che si rincorrono nel Bernabeu, la magia e la malinconia di un tempo lontano, il sorriso e le braccia al cielo di Pablito: “le cose sognate e ora viste”, proprio come nella canzone.

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Il mio 11 luglio 1982

Pochi giorni dopo quell’11 luglio avrei compiuto nove anni. Per un bambino di nove anni i calciatori non sono uomini, ma supereroi. Come Superman o Batman, di quella genia insomma.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto il capitano Zoff e l’allenatore Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni.
Come spesso accade all’Italia quando si affaccia sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi).
Il mio idolo nerazzurro in quel mondiale era Oriali, i cui polmoni e la “vita da mediano” sarebbero stati in seguito celebrati da Ligabue. Ma quando venivano chiamati in causa davano il proprio contributo Marini, Altobelli e il diciottenne Bergomi, lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri e che disputò da veterano la finale. Ma c’erano anche i mostri sacri bianconeri Zoff, Scirea e Gentile, Cabrini con la sua modernità, il genio di Conti, il fiuto di “Pablito” Rossi e su tutti, almeno per me, Tardelli, per il quale stravedevo nonostante la Juve.
Ad ogni partita il “Bar Mario” registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. Quell’11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore era un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa.
Non facemmo nemmeno in tempo a recriminare per il rigore fallito da Cabrini, che il solito Rossi ci portò in un sogno dal quale ci svegliammo dopo l’urlo di Tardelli e il sigillo di “spillo” Altobelli. Indimenticabile il labiale del presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso a Madrid per la finale, dopo il terzo gol: «Non ci prendono più» (e altrettanto indimenticabile la storica partita a scopone sull’aereo presidenziale: Pertini e Zoff contro Bearzot e Causio, con la coppa del mondo appoggiata sul tavolo).
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» con la voce emozionatissima di Nando Martellini al triplice fischio. Poi uno scatto velocissimo verso l’uscita e a piedi fino a piazza Municipio, con le bandiere al vento e il cuore che andava a mille.

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Grazie, vecio

Ci sono istantanee che fanno parte dell’album sentimentale di una nazione. Una di queste immortala – sull’aereo che, nel luglio del 1982, riportava in Italia gli eroi del Bernabeu – la partita a scopone tra il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il capitano Dino Zoff contro il commissario tecnico Enzo Bearzot e il “barone” Franco Causio. Sul tavolo, la coppa del mondo conquistata a Madrid. Ora che il vecio se n’è andato, è inevitabile farsi prendere dalla nostalgia per quello che eravamo 28 anni fa. Per un bambino di nove anni, Bearzot era un nonno burbero, di quelli severi nell’educazione dei nipotini, pronti al rimprovero quando sentono una parolaccia o notano la mancanza di quel rispetto dovuto alle persone anziane. Me lo immaginavo così, Bearzot: stretto in quella giacchetta bianca e con l’inseparabile pipa in bocca.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani, al solito feroci con chi è in disgrazia (sempre pronti, di contro, “a soccorrere il vincitore”, come infieriva Ennio Flaiano) sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto Zoff e Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni. Come spesso accade all’Italia quando è affacciata sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi); apoteosi finale con il 3-1 alla Germania (ancora Rossi, l’urlo di Tardelli, il sigillo finale di “spillo” Altobelli, che per l’unica volta nella sua carriera esultò alzando entrambe le braccia, abbandonando la consueta compostezza del solo indice puntato verso il cielo).
L’epopea poetica di quel gruppo di eroi passa attraverso la cantilena della formazione, in un’epoca in cui ancora era possibile mandarla giù a memoria, visto che giocavano sempre gli stessi per anni: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Ancora il binomio calciatore/velina non esisteva e gli atleti non somigliavano a modelli di Armani: non avevano acconciature strane (al massimo, il cespuglio di capelli di Collovati), non si facevano tatuaggi, non si tiravano le sopracciglia (indimenticabile il “sopracciglione Bergomi” di Teo Teocoli). Me li immaginavo come guerrieri omerici: il carisma del quarantenne Zoff, l’ardore di Gentile (chiedere a Maradona e Zico, in tempi in cui – va ammesso – gli arbitri estraevano i cartellini con parsimonia), l’eleganza di Collovati, la classe di Scirea, la modernità di Cabrini, l’universalità dell’insonne Tardelli, il genio di Conti (il più “brasiliano” degli azzurri), la cocciutaggine di Graziani, il fiuto di “Pablito” Rossi, le geometrie di Antognoni, i polmoni di Oriali (celebrati anche da Ligabue). E poi Marini, Causio, Altobelli, il diciottenne Bergomi, (lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri), che disputò anche la finale al posto dell’infortunato Antognoni. Quell’11 luglio eravamo una cinquantina “da Mario”, i più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore, un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza, non consentiva la visione degli attuali 52 pollici hd a schermo piatto, soprattutto ai più distanti. Ma l’emozione e l’entusiasmo sono incancellabili. Pertini che, al suo solito, accantona l’aplomb istituzionale e fa il tifoso in tribuna, i minuti finali concessi al fedelissimo Causio, la commozione di Nando Martellini al triplice fischio con quel “campioni del mondo” ripetuto tre volte. Poi tutti di corsa fuori dal bar, a piedi verso piazza Municipio, con le bandiere e il cuore che andava a mille.

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