Un’altra storia inizia qui

Giustizia riparativa: sono le due paroline risuonate, tra le altre, nell’intervento della ministra Marta Cartabia in Commissione giustizia alla camera dei deputati. Che sia giunto finalmente il momento di dare attuazione al principio costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”?
Nell’esposizione delle linee programmatiche della sua azione ministeriale, Cartabia ha trattato diverse questioni “spinose”, non più procrastinabili per uno Stato che ancora voglia considerarsi di diritto. In prima battuta, il tema dell’esecuzione penale, secondo una prospettiva che superi “l’idea del carcere come unica risposta al reato”. Certezza della pena non può e non deve essere sinonimo di certezza del carcere: «Per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali».
La ministra della giustizia ha anche riservato una stilettata al cortocircuito mediatico-giudiziario: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». In soldoni, sì alla presunzione di innocenza, no ai processi celebrati sui media. I processi si svolgono nelle aule dei tribunali, il luogo in cui, al termine del contraddittorio tra le parti, si forma la prova. Ovvietà per chi abbia letto la Costituzione. Un miraggio, nel clima ammorbato dalle pulsioni giustizialiste dei Saint-Just che si annidano tra procure e redazioni giornalistiche.
“La giustizia come ricomposizione” è il sottotitolo di “Un’altra storia inizia qui”, il volume pubblicato nel 2020 da Bompiani, che contiene le relazioni di Marta Cartabia e del criminologo Adolfo Ceretti esposte nella “Martini Lecture” del Centro “C. M. Martini”.
Il libro trae spunto dalle riflessioni del cardinale Martini sui temi della pena detentiva e della condizione di vita nelle carceri. Per rendersi conto della condizione delle prigioni è sempre valido il monito di Piero Calamandrei: “bisogna vederle, per constatare qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi”. Una raccomandazione raccolta dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato, ma anche da Marta Cartabia membro e presidente della Corte costituzionale. Dopo averle visitate, non si può che prendere atto di quel “mondo sottosopra” e porsi le stesse domande del cardinale: «È umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?».
La giustizia riparativa ha come fine il recupero della dignità umana. Non può pertanto fondarsi “semplicemente sulla ritorsione, sulla pena fine a sé stessa, sull’emarginazione”, né essere crudele. Un pensiero perfettamente in linea con il dettato costituzionale e suffragato dalle statistiche sulle recidive, in calo tra i detenuti che hanno accesso a misure alternative.
La pena, conclude Cartabia, per avere un senso deve ispirarsi alle parole di Papa Francesco (“mai privare del diritto di ricominciare”) e guardare al futuro perché “il tempo della pena è il tempo di un percorso: dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia, deve poter incominciare qualcosa di nuovo, un’altra possibilità, un’altra fase del cammino”.

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