Ci sputassi vossia

«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» dichiarò Leonardo Sciascia a proposito di Occhio di capra. Pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1984 e ristampato nel 1990 da Adelphi con l’aggiunta di alcune voci, il libro riprende l’almanacco di voci e modi di dire edito da Sellerio nel 1982 con il titolo Kermesse, a sua volta ispirato al dizionario di vocaboli e locuzioni dialettali che aveva impreziosito il volume fotografico I Siciliani, del grande fotografo bagherese Ferdinando Scianna (Einaudi, 1977).
Il titolo (in dialetto: “uocchiu di crapa”) fa riferimento ad una antica credenza popolare: se, al tramonto, il sole appare tagliato obliquamente da strisce di nuvole, assumendo così le sembianze della pupilla strabica delle capre, il giorno successivo pioverà: «Occhio di capra: domani piove».
Il saggio è un omaggio a Racalmuto, che Sciascia sentiva di conoscere “anche nei suoi silenzi”. Per il proprio paese natio valgono le parole dedicate da Jorge Luis Borges a Buenos Aires, messe in esergo dallo scrittore siciliano: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato».
Per spiegare l’etimologia e il significato di termini e frasi tratti dalla tradizione orale, Sciascia fa ricorso ad aneddoti utili per preservare, oltre alla memoria delle parole, anche quella di storie minime, ma singolari e paradigmatiche di epoche e luoghi.
Tra i lemmi, uno riporta un episodio risalente al Ventennio, quando il regime fascista organizzò due plebisciti-farsa (nel 1929 e nel 1934) in luogo dell’elezione della Camera dei deputati (il Senato era di nomina regia), l’ultima tenuta nel 1924 con la famigerata legge “Acerbo”. Con i plebisciti, successivi allo scioglimento di tutti i partiti politici ad eccezione del partito nazionale fascista (1926), l’elettore aveva la possibilità di approvare o respingere il “listone” del Pnf. Facoltà che, ovviamente, era puramente teorica. Nel 1939 sarebbe caduto anche l’ultimo simulacro di democrazia, con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni – composta non da membri letti, ma tali di diritto – in sostituzione della Camera dei deputati.
Il brano è il seguente:
CI SPUTASSI VOSSIA. Ci sputi lei. Espressione ormai proverbiale, per dire di un’azione che si è costretti a fare anche se teoricamente, formalmente, si ha la libertà di non farla. Fu pronunziata da un certo Salvatore Provenzano, ex guardia regia (corpo di polizia, quello delle regie guardie, istituito da Nitti e sciolto da Mussolini), davanti al seggio in cui si votava il consenso o il dissenso al regime fascista. I componenti del seggio consegnavano al votante la scheda su cui, teoricamente, il votante era libero di scrivere «sì» oppure «no»: ma di fatto le schede venivano consegnate con il «sì» già scritto, per cui al votante altro non restava che leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e imbucarla nell’urna. Accorgendosi dunque Provenzano che già era stato scritto un «sì» dove lui aveva intenzione di scrivere un «no», si rifiutò di toccare la scheda: che la leccasse, chiudesse e imbucasse il presidente del seggio. Naturalmente, fu arrestato: ché sarebbe già stato offensivo dire al presidente di leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e metterla nell’urna; ma dirgli «ci sputi» era dimostrazione di assoluto disprezzo per il regime fascista. (Provenzano è morto una decina d’anni addietro. Era un uomo alto, asciutto, la faccia cotta dal sole. Vestiva sempre con giacca di velluto a coste, pantaloni da cavallante, gambali di cuoio. Viveva del reddito di una sua piccola campagna. Caduto il fascismo, non rivendicò mai il merito di essere stato antifascista).

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La palma va a nord

Inseguivo questo libro da diversi anni, sperando in un colpo di fortuna che mi consentisse di acquistarlo ad un prezzo non troppo oneroso. Tutto sommato, ritengo che mi sia andata bene. La palma va a nord, unico libro di Leonardo Sciascia mai ristampato dopo il 1981 (Edizioni Quaderni Radicali) e il 1982 (Gammalibri) è un’antologia curata da Valter Vecellio che comprende “26 articoli, 23 interviste, 7 lunghe dichiarazioni, due comunicazioni e convegni, i testi di tre interventi parlamentari”, pubblicati tra il 1977 e il 1980.
Un libro corrosivo, potente, per certi versi scandaloso. Con La Sicilia come metafora rappresenta il punto più alto della produzione non narrativa del “maestro di Racalmuto”, dello Sciascia intellettuale, polemista, illuminista.
Il titolo riprende l’immagine di una celebre pagina del romanzo Il giorno della civetta: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno. La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma». La linea degli scandali, del malaffare, della corruzione, della partitocrazia parassitaria, del degrado morale delle istituzioni, temi scandagliati da Sciascia nei suoi romanzi. Oggetto de La palma va a nord sono i temi caldi degli anni a cavallo dell’assassinio di Aldo Moro. L’affaire Moro è d’altronde del 1978: molti articoli e interventi di Sciascia sono dedicati proprio alla difesa del libro attaccato dal fronte della fermezza, contrario alla trattativa con i brigatisti, che poteva contare sull’influenza dei giornali e degli intellettuali di riferimento della democrazia cristiana e del partito comunista. Altrettanti alla polemica sulla sua candidatura con il partito radicale e l’abbandono del partito comunista che, tra l’altro, provocò la rottura dell’amicizia con il pittore Renato Guttuso.
Ho annotato alcune riflessioni di Sciascia che mi hanno particolarmente colpito per la loro attualità a quarant’anni di distanza, constatazione che a miei occhi rende inspiegabile la mancata ristampa di un libro che parla anche al nostro presente.
Sulla questione meridionale, oggetto delle attenzioni teoriche di tutti i governi succedutisi dall’Unità d’Italia in poi, Sciascia scriveva: «Del Sud ormai si parla soltanto nelle crisi di governo, come di un punto programmatico. Da lasciare, si capisce, sulla carta».
A proposito di scuola e meritocrazia: «La scuola di massa, secondo me, dovrebbe dare a tutti in partenza le stesse condizioni favorevoli, e poi vadano avanti coloro che possono andare avanti… Io sono ancora di quelli che credono nella meritocrazia. Non sono un reazionario, ma credo che non si possa accedere alle professioni senza conoscenza».
Sulla lotta alla mafia, che in nome dello Stato di diritto andrebbe condotta senza il ricorso ad una legislazione emergenziale che contrae fino ad annullare gli stessi principi costituzionali: «Lo scrissi nel 1960 nel Giorno della civetta. Continuo a pensare che il modo migliore per combattere la mafia è quello di mettere le mani sui conti bancari. Non capisco come fra l’incostituzionalità del confino e l’incostituzionalità del controllo dei conti bancari i governi abbiano scelto sempre la prima. Anzi, lo capisco benissimo: perché al confino si mandano sempre i soliti stracci, mentre per i conti bancari si sarebbe costretti ad andare più in alto».
Al quesito “Cos’è la libertà per lei?”, ribadiva: «A questo punto, una regola di buona educazione. Tutto sommato significa questo: non esiste più. Ormai abbiamo delle libertà corporative. Ognuno si prende la libertà senza badare a quella degli altri, mentre la libertà è il badare alla libertà degli altri».
Di straordinaria attualità la risposta alla domanda “Questa sembra essere l’età del malessere. Siamo sempre più infelici, viviamo sempre peggio. Perché?”: «Perché abbiamo finito col votarci a un edonismo senza gioia. Si “deve” essere felici, tristemente felici, a tutti i costi, nel modo più disperato. E crediamo di poterlo essere tutti con la stessa formula, secondo moduli di felicità da riempire proprio come i moduli a stampa. La felicità, invece, va inventata giorno per giorno, ora per ora. Ma ho l’impressione che sia perduta perfino la nozione della felicità: forse perché, avendo perduto la nozione della morte, il pensiero della morte, si è perduto insieme il senso della vita».
Così, infine, controbatteva all’osservazione di essere diventato, da sconosciuto insegnante siciliano, “il più grande scrittore del dopoguerra”: «Io ho sempre voluto essere “qualcuno”. Il posto dove vivo meglio è il mio paese nativo, dove infatti sono “qualcuno”, dove sono come sarei stato anche se non avessi mai scritto i miei libri».

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A futura memoria

Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia: scrittore ed intellettuale eretico, illuminista e cultore dell’arte del dubbio, protagonista di battaglie civili ancora attuali. Un oracolo inascoltato, che spesso dovette scontare la solitudine: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Sciascia professò la religione della ricerca della verità, della difesa del diritto, delle regole, della Costituzione. Gesualdo Bufalino, del quale il 15 novembre è ricorso il centenario della nascita, definì l’opera di Sciascia“ un unico grande libro sulla giustizia” e appare oggi come un testamento la citazione dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, posta da Sciascia in epigrafe al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia».

Nei mesi scorsi ho avuto modo di rileggere molte opere di Sciascia, in particolare i saggi e gli articoli dedicati ai temi del garantismo e del diritto, alcuni dei quali confluirono nel libro “A futura memoria”. Titolo che mi colpì quando lo lessi per la prima volta e che non a caso presi in prestito per chiudere il mio primo “messaggio nella bottiglia” (24 marzo 2010), in una sorta di omaggio nascosto tra le righe.
Per ricordare il “maestro di Racalmuto” riporto un brano dell’articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 7 agosto 1983, nel quale, prendendo spunto dal “caso Tortora”, Sciascia affrontava provocatoriamente i temi del garantismo e delle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia:
«… resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici, abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino che soltanto legge o ascolta le notizie. E qui entriamo nel vivo. Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità […] sa che di ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo a misura della gravità e del danno che […] ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera […]. E credo che sia, questo, un ordinamento solo e assolutamente italiano. Inutile dire che dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza. E altro che sfiorare l’utopia: ci siamo in pieno dentro. E come uscirne, dunque? Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa. Un rimedio più semplice sarebbe quello di caricare di responsabilità i magistrati senza preventivamente togliere loro l’indipendenza: e cioè di dare ad ogni cittadino ingiustamente imputato, una volta che viene prosciolto per più o meno mancanza di indizi, la possibilità di rivalersi su coloro che lo hanno di fatto sequestrato e diffamato».
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Sciascia l’eretico

Arrivai a Sciascia perché indirizzato dal mio professore di storia e filosofia, Rosario Monterosso, al quale devo questo e tanti altri utili suggerimenti di lettura. Il “maestro di Regalpetra” (felice titolo della biografia scritta da Matteo Collura) era morto da poco: proprio oggi ricorre il trentennale, salutato in libreria dall’uscita di “Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo”, scritto dal giornalista del “Corriere della Sera” Felice Cavallaro. Un ritratto dell’uomo e dello scrittore ricco di fatti e di ricordi personali, iniziati grazie all’amicizia che legava lo scrittore di Racalmuto al padre dell’autore del libro, vicini di casa in contrada Noce.
Sciascia fu per me una rivelazione. Un intellettuale scomodo che coltivava l’arte del dubbio; un illuminista (ah, il suo adorato Voltaire!) che nella scelta tra verità e ragione di partito non ha dubbi da quale parte stare. Così come non ce ne dovrebbero essere nella scelta tra uno Scalfari engagé e uno Sciascia che professa una sola religione: la ricerca della verità e la difesa del diritto, delle regole, della Costituzione (Gesualdo Bufalino ha definito l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia”). Anche a costo di mettere in discussione e troncare solidissimi rapporti di amicizia, come accadde con il pittore Renato Guttuso. D’altronde, tacere la verità non può mai essere un merito: tema affrontato in “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” e ne “La scomparsa di Maiorana”, che scopre anche il nervo del rapporto tra scienza, potere e morale.
Sciascia fu intellettuale tanto disorganico e controcorrente, quanto profetico. Per questo non poteva che finire male la sua esperienza nel Partito comunista ingessato degli anni Sessanta e Settanta, con l’appiattimento e la confusione tra governo e opposizione sublimate in quel compromesso storico che Sciascia denunciò prima ancora che fosse realizzato, ne “Il contesto” e in “Todo modo”.
Le sue “profezie” si sarebbero purtroppo realizzate, anche se il suo pessimismo lo faceva andare oltre la pur magra consolazione di avere avuto ragione: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Perché Sciascia ha spesso indicato ciò che non si voleva vedere, a cominciare dalla “linea della palma” ogni anno sempre più a nord, dalla mafia che si sviluppa dentro lo Stato, dalla corruzione in anni in cui non se ne poteva parlare o lo si faceva quasi di nascosto. E poi le sue tre grandi “ossessioni”: il caso Moro, con la furibonda polemica sorta attorno ad una frase estrapolata da una sua dichiarazione (“né con lo Stato, né con le Brigate rosse); il caso Tortora, con il pubblico ludibrio e la gogna che sollevano anche il tema della responsabilità civile dei magistrati; la questione dei “professionisti dell’antimafia”, il pericolo di un’antimafia opportunista e di facciata che diventa essa stessa strumento di potere.
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” è la frase sibillina del commediografo e scrittore francese Auguste de Villiers de L’Isle-Adam che Sciascia volle come epitaffio sulla sua tomba di ateo sempre in cerca della verità.

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