19 maggio: una data, una donna di nome Silvia Baraldini

Associo la data del 19 maggio a Silvia Baraldini, l’attivista condannata nel 1983, negli Stati Uniti d’America, a 43 anni di carcere senza avere mai partecipato a fatti di sangue. Una pena sproporzionata per il reato di “sovversione”, ottenuta sommando diverse condanne, dal concorso in evasione, alla progettazione di due rapine (mai effettuate), all’ingiuria contro la corte.

Silvia Baraldini si era formata nel movimento sessantottino fiorito nei campus universitari americani ed era stata protagonista delle marce per i diritti dei neri statunitensi, contro la guerra del Vietnam e per i diritti delle donne.

Divenne poi leader dell’organizzazione comunista “movimento 19 maggio” (“May 19th”), che rievocava la data di nascita di Malcom X e di Ho Chi Minh, un gruppo appartenente alla galassia della sinistra radicale, fiancheggiatore del “Black Panther Parthy”.

Un vasto movimento di sostegno per il rimpatrio in Italia si sviluppò dopo l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, dovuto a un doppio intervento per l’asportazione di un tumore cui Silvia Baraldini dovette sottoporsi mentre era in carcere. Risale a questo periodo la bellissima Canzone per Silvia, di Francesco Guccini (1993).

La richiesta di applicazione della Convenzione di Strasburgo per il trasferimento in Italia della condannata non ebbe seguito fino al 1999, quando l’allora Guardasigilli Oliverio Diliberto riuscì ad ottenere l’estradizione, in cambio della garanzia che la condannata avrebbe scontato per intero (fino al 2008) la pena. In realtà, dopo la concessione degli arresti domiciliari per motivi di salute, nel 2001, Silvia Baraldini beneficiò dell’indulto del 2006 e, da allora, vive a Roma da cittadina libera.

Il mio ricordo personale non è legato tanto all’adesione alla campagna di sostegno per la sua liberazione (conservo ancora la t-shirt acquistata alla Festa di Liberazione a Reggio Calabria, con la scritta “I run for Silvia”), quanto a un prezioso (almeno per me) biglietto che mi inviò da Rebibbia non appena ricevette il libro che le avevo spedito (“Il ’68 a Messina”: in pratica, la pubblicazione della mia tesi di laurea):

Roma, 27 febbraio 2000

Caro Domenico,
ti ringrazio per il libro che ho sfogliato ma non ancora letto. L’impatto delle lotte di quegli anni ha cambiato tantissime persone, me inclusa. È importante continuare a sottolineare la vasta partecipazione e le motivazioni anti-imperialistiche che l’hanno alimentata.

Silvia Baraldini

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Giù le mani da Guccini

Roma è stata imbrattata con manifesti dedicati “Ai ragazzi di Salò” che riportano le parole della canzone con la quale Francesco Guccini, da quarant’anni, chiude ogni suo concerto, La locomotiva (album: Radici, 1972): “gli eroi son tutti giovani e belli”.
Il cantautore di Pavana, giustamente, non l’ha presa bene: “non solo la mia canzone La locomotiva non è stata compresa, direi che è stata davvero maltrattata”. La storia, ormai celebre, è quella di un anarchico bolognese vissuto alla fine dell’Ottocento.
Associare quella vicenda alla Repubblica di Salò è una bestemmia storica e un’operazione culturalmente disonesta. Non bisogna mai stancarsi di alcune puntualizzazioni, che diventano doverose per non correre il rischio che il trascorrere degli anni appanni una verità che va custodita e tramandata intatta, in tutta la sua grandezza.

Va bene la pietas per i morti, per tutti coloro che hanno perso la vita nel corso della guerra civile. Ma bisogna ribadire con forza che tra il 1943 e il 1945 c’erano italiani che lottavano per la libertà e italiani che difendevano il nazifascismo.
La vittoria del fronte della Resistenza ha portato la democrazia. Quella dei repubblichini avrebbe trasformato l’Italia in un immenso campo di concentramento.
L’equazione partigiani = repubblichini, brillante trovata di Luciano Violante ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa, è soltanto un’inaccettabile mistificazione storica.

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Il burattinaio di parole

Francesco Guccini è entrato a casa mia e nella mia vita ai tempi del liceo, saltando fuori dallo zaino di mio fratello – lui al terzo anno, io al secondo – “copiato” (preistoria, a ripensarci) in tre musicassette: Radici; L’isola non trovata; Quasi come Dumas.
Il 14 giugno l’eterno studente e burattinaio di parole (come si è autodefinito, rispettivamente in Addio e in Samantha) ha compiuto settanta anni e, come si conviene per un artista che ha segnato la storia della musica italiana, le rievocazioni da giorni occupano le pagine dei giornali.
Guccini è un cantautore coltissimo, paragonato da Umberto Eco a Walt Whitman, capace di rime e assonanze ricercatissime, di citazioni dotte e riferimenti letterari eruditi (dal profeta Isaia a Borges), ma anche di temi “bassi”, di sberleffo puro, come sa chiunque abbia ascoltato l’album Opera buffa o la canzone I fichi nel disco non a caso intitolato D’amore, di morte e di altre sciocchezze. Un anarchico “perso dietro le nuvole e la poesia”, attaccato alle proprie radici, ad un mondo in via di estinzione riproposto sotto forma di mito (l’infanzia, la saggezza dei montanari dell’Appennino). E poi i temi del tempo che passa e l’intimismo di certe situazioni raccontate come con una cinepresa, della rivolta e della lotta contro le ingiustizie, dei miti della sua gioventù (l’America, Hemingway, Bob Dylan, la Beat generation), dei vinti e dei “piccoli eroi delle occasioni perse”, del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato (per dirlo con le parole di Gozzano, cui Guccini spesso rimanda).
Per me Guccini è un caldo giugno di tanti anni fa. È il profumo di una ragazza, due corpi sudati sotto un sole cocente alle tre del pomeriggio. Sono tanti viaggi, i finestrini della macchina abbassati e l’aria che entra scompigliando i capelli, Eskimo cantata a squarciagola, quando ancora il futuro era una mela acerba e non c’era tempo per farla maturare. È un concerto al Palapentimele, tutti seduti a terra, un rito inderogabile nei concerti di Guccini: una via di mezzo tra un’assemblea del sessantotto o i collettivi degli anni Settanta e una scampagnata fuori porta, con il più bravo della compagnia che tira fuori la chitarra e suona e canta per tutti. Sono di nuovo due corpi stretti stretti, mentre la scaletta delle canzoni scorre via, iniziando (Canzone per un’amica) e finendo (La locomotiva) con le stesse due canzoni da sempre.
E poi quel dialogare con il pubblico, la sua “r” che si arrota, l’esclamazione “non sono mica un juke-box” rivolta ad un gruppo di ragazzi che chiede insistentemente Incontro, i rimproveri a quelli che ogni tanto provano ad alzarsi da terra. Non si può. Bisogna attendere le ultime tre canzoni: quando attacca Dio è morto scattiamo tutti in piedi e non smettiamo di saltare e di urlare fino ai saluti finali. Dopo è soltanto nostalgia struggente e Farewell che ronza nella testa.

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