Pieno di pensieri spezzati

Circa sei mesi fa avevo appuntato sopra un foglio un elenco di “cose da fare”. Senza fretta. Ogni azione da compiere mi avrebbe “chiamato” quando sarebbe arrivato il momento. Al primo punto avevo annotato “aspettare il tramonto sulla spiaggia di Favazzina”.
Ed eccomi qua. Eccoci qua. Come tante altre volte. Noi due da soli. Tu con il tuo sussurrare di onde ed io con i miei silenzi: “pieno di pensieri spezzati”, mi ha suggerito Johnny Cash cantandomi “Hurt” proprio mentre parcheggiavo l’auto.
Il tramonto sembra quello di molte sere dilatate nella speranza, lo stesso atteso in un lontano settembre insieme agli immaginari “pellesquadre” di D’Arrigo, mentre il sole rosseggiava sulla cicatrice che salda cielo e acqua “dentro, più dentro dove il mare è mare”: dove ’Ndria Cambrìa trova la morte.
Favazzina, il mio posto delle fragole, oggi è una spiaggia ferita. Il mio angolo non c’è più, distrutto dalle mareggiate dell’inverno scorso. Forse aveva ragione Enzo Biagi quando ricordava che non bisognerebbe tornare nei posti dove si è stati felici.
Le onde hanno portato via tutto, anche i ricordi e gli spruzzi d’acqua e le pallonate. La caccia alle patelle, i ragazzi sulle spalle di altri ragazzi, il bimbo scivolato da uno scoglio e salvato da suo padre.
Come un acrobata in bilico sul filo della malinconia, i pensieri seguono lenti il sole che si intasca nell’orizzonte, con un tuffo muto.

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Salviamo Favazzina

Dopo le mareggiate del 23-24 dicembre, Favazzina è uno strazio. Il mare ha travolto le sue caratteristiche e graziose spiaggette, portando via tutto. Quel che è rimasto somiglia tanto a un campo di battaglia subito dopo un bombardamento. Terra arata, rivoltata, franata. Spaccature lungo il poco di spiaggia rimasta, profonde come ferite dell’anima.
Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. A Favazzina mio padre mi ha insegnato a nuotare, quarant’anni fa. Favazzina è stata teatro delle gare di resistenza in apnea tra bambini. A Favazzina mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli sull’acqua limpida. Gli stessi scogli che, adolescente, ho esplorato a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata sulle piccole onde.
Tutte le estati degli anni 80 le ho trascorse a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle, spruzzi e tuffi, gol e parate. Favazzina sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro frutta, panini e bibite. Favazzina è la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday e Adriano Celentano per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h.
Alla fine degli anni 90, Favazzina fu per me una piacevole riscoperta, fatta insieme a tanti altri amici e a tanti bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando a Favazzina bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da qualche anno Favazzina mi attende a settembre, il periodo in cui preferisco andarci per lasciarmi cullare dalle onde e dal silenzio. Nella solitudine della “mia” spiaggia ho letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo ed è stata una doppia emozione.
Ora è tutto molto doloroso. La strada d’accesso è crollata e della stessa spiaggia non è rimasto quasi niente: una lingua ristretta di massi sputati dal mare. La furia del mare si è abbattuta anche sui miei ricordi di bambino, di adolescente, di adulto. Come se abbia portato via anche una parte di me.
Favazzina deve continuare a vivere anche per noi, suoi innamorati. Sul sito charge.org Carmen Santagati ha promosso una petizione (“Ricostruiamo Favazzina di Scilla distrutta dal maremoto”), che ho sottoscritto e che chiedo di sottoscrivere ai tanti che come me amano quest’angolo di Paradiso.

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Com’è triste Favazzina

Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. Qua ho imparato a nuotare e a fare le gare di apnea, qua mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli. Gli stessi scogli che, adolescente, esploravo a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata con la stessa acqua del mare.

Favazzina per me sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro di tutto. È mio padre che mi salva quella volta che scivolai in acqua da uno scoglio mentre, dall’alto, seguivo la sua caccia a un piccolo polipo. Perché il panico, a sette-otto anni può giocare brutti scherzi anche se sai nuotare. È la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h: «Carmelò, doucement!».

Seguirono anni in cui smisi di andare a Favazzina. Ci tornai molti anni dopo e fu una piacevole scoperta ritrovarmi, insieme a tanti altri amici, nella stessa spiaggia che mi aveva visto bambino. Questa volta insieme ad altri bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da diversi anni la colonia estiva non la facciamo più a Favazzina, nonostante la comodità di un appoggio logistico in una casa a poche decine di metri dal mare e le sue particolari spiaggette “a misura di bambino”: non molto grandi, controllabili con un semplice colpo d’occhio.
In questa decisione ha pesato molto l’obiettivo stato penoso della “nostra” spiaggia, interessata tra l’altro da una progressiva erosione. Ci sono tornato ed è stato un tuffo al cuore. Niente è cambiato in tutti questi anni. Anzi, il degrado è, se possibile, aumentato.

E pensare che la spiaggia in questione è la prima che si incontra scendendo al mare dalla strada principale. In un’ottica turistica, un pessimo biglietto da visita: la strada d’ingresso dissestata e poi sassi su sassi, di dimensioni tali che piantare un ombrellone diventa un’impresa. Soltanto con l’intervento dei privati, quando decidono di pagare di tasca propria un ruspista, i disagi vengono alleviati grazie allo spianamento della strada e della spiaggia.

Vengono in mente i tanti bla-bla-bla sulle politiche per il turismo, quando sarebbe necessario – prima di tutto – che il turista in spiaggia riuscisse intanto a metterci piede. Dopo, che potesse anche piantarci un ombrellone e godere, finalmente, della bellezza del mare.

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