Passeggiata storica/3

Per giungere alla terza fermata occorre inerpicarsi lungo la ripida salita che collega il “Paese Vecchio” all’area denominata “Petto del Principe” (più comunemente: “Petto”). La sosta, a poche decine di metri dalla vetta, consente al viandante di prendere fiato prima dello strappo finale.

PANNELLO 3: IL CALVARIO

Il “Calvario” (via Roma) collega il “Vecchio Abitato” con il “Petto del Principe”, il pianoro che si estende verso la “Pezza Grande”. Lo sviluppo urbanistico successivo al terremoto del 5 febbraio 1783 interessò il “Petto” e la zona alta del paese, dove alcuni notabili costruirono la propria abitazione. In cima al “Calvario” dominava Palazzo Fimmanò, mentre a metà strada si trovava Palazzo Capoferro, i cui ruderi sono ancora oggi visibili. La denominazione popolare trae origine dal monumento che riproduce la scena delle Tre Croci. Realizzato nella metà del XIX secolo, dalla relazione redatta il 25 marzo 1846 dall’ingegnere Gaetano Oliverio (autore del progetto, su incarico del sindaco Paolo Capoferro), si apprende che un’opera simile, preesistente, era andata distrutta nel corso degli anni.
Luogo dalle mille suggestioni, al “Calvario” il poeta Domenico Cutrì (27 luglio 1902 – 13 dicembre 1983) ha dedicato due liriche:

Lu Carvariu

«Quantu voti passandu di sta via
m’indinucchiai vicinu a stu carvariu
sgranandu cu la menti nu rusariu
’nsuffraggiu di la morta mamma mia.
E mentri ch’iu pregava cu fervuri,
ogni divotu chi di ccà passava
cu fidi na candila ci ddumava
sutta li pedi di nostru Signuri.
St’artari misu ’mmenzu a ddù paisi
d’ogni fidili canusci li peni,
pari ca dici: «vulitivi beni
senz’odiu, senza chianti, ma surrisi».
O vecchiaredda cu la testa janca
chi ’nchiani pe la strata purvirusa,
avvicinati, o matri dulurusa,
dammi la manu si ti senti stanca…
… e quandu simu ni lu crucivia
ogn’unu pigghia pe lu so’ caminu,
s’abbrazza lu so’ pallidu Destinu,
lu bagagghiu pisanti e… Cusì sia!

[Cascami. Poesie dialettali, 1965]

Sulla strada del Calvario

Lasciatemi salire
arrancare ancora una volta
per questa pietraia.
Lasciatemi baciare ancora
la croce arrugginita
dell’icona.
Sarà l’ultima volta.

[L’eterno sentire. Liriche, 1974]

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Passeggiata storica/1

Inizio oggi la pubblicazione in nove puntate dei pannelli storici collocati in diversi punti del paese, in occasione della “passeggiata storica” del 9 agosto.

PANNELLO 1: NUCARABELLA

Il toponimo “Nucarabella” trae origine dall’omonimo torrente che lambisce la chiesa di S. Maria delle Grazie e scorre sotto piazza don Minzoni. Indica sia la fontana monumentale realizzata nel XIX secolo, sia l’intera area circostante. Prima dell’introduzione del servizio idrico nelle abitazioni, costituiva per la popolazione eufemiese un fondamentale punto di approvvigionamento d’acqua, che veniva raccolta e trasportata con “bombole” (orci) e “cortare” (lancelle). Le vasche collocate nello spazio retrostante alla fontana venivano invece utilizzate dalle donne per il lavaggio di biancheria, vestiti e panni. Come tutti i lavatoi pubblici, rappresentava anche un significativo luogo di socializzazione.
Secondo la tradizione popolare, la zona fu teatro della relazione tra la popolana Clementina e un nobile del posto, protagonisti di una storia d’amore capace di imporsi sulle severe convenzioni sociali del tempo. Qui infatti i due innamorati si incontravano, all’ombra di un grande albero di noci. Il toponimo nascerebbe quindi dall’espressione rivolta dal giovane all’amata: «Sta nucara è beddha comu a tia».
Alla fine del XIX secolo, accanto alla fontana l’amministrazione comunale edificò il mattatoio pubblico, che fu tra le poche costruzioni rimaste quasi intatte dopo il terribile sisma del 1908. Dal 2004 il fabbricato ospita il Piccolo museo della civiltà contadina, ideato e diretto da Caterina Iero.
Alla “Nucarabella” il poeta Domenico Cutrì (27 luglio 1902 – 13 dicembre 1983) ha dedicato i versi nostalgici della lirica “La tua voce”:

Dopo anni e anni di silenzio,
stamane ho udito la tua voce
confusa col murmure del fiume Nucarabella:
mi ha chiesto cose
che non saprei più dirti,
né darti.

[L’ultimo volo, 1985]

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Rosario Lalà

La storia di Sant’Eufemia è fatta da tantissimi personaggi anonimi, gente poverissima e affamata che a fatica, negli anni della grande miseria, riusciva a racimolare tutti i giorni un misero boccone. Tra le due guerre e nei primi anni del secondo dopoguerra non era inusuale che nelle numerosissime famiglie del tempo si saltasse più di un pasto, o che questo si riducesse a un po’ di pane accompagnato da qualche oliva. Molto triste era poi la condizione di chi viveva da solo e non svolgeva nessun mestiere. A questi poveracci non restava che affidarsi alla carità altrui. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è: in una condizione di indigenza generale, slanci di umanità alleviavano la fatica del vivere di questi sfortunati. Si divideva il poco che si aveva.
Lalà (al secolo, Rosario Sabino) era “un innocuo vagabondo”. Così lo definisce Nino Zucco nell’omonimo racconto (Fuoco a Diambra, Bonacci Editore, Roma 1956). Un randagio senza parenti e senza un tetto, che dormiva sopra un giaciglio di “mattoni e pietre con calcinacci” in una vecchia casa terremotata. Indossava vestiti laceri, spesso sacchi rattoppati, i baffi sporchi e la barba ispida. Era letteralmente “a brandelli” e aveva i piedi spaccati dal gelo: «Sembrava che nei talloni gli avessero dato dei colpi d’accetta».
Raccoglieva per terra i mozziconi di sigaretta per alimentare la sua pipa e “si nutriva con il piatto della carità umana”, oppure con la frutta che rubava negli orti. Quando poi la fame diventava troppa, non disdegnava le galline morte “con il morbo”, che arrostiva nella forgia di mastro Rocco il maniscalco.
Il suo era per lo più un parlare senza senso: «Non sapeva fare altro che ridere e dire parole sconnesse». Il massimo del suo divertimento era attendere alla fermata della corriera l’arrivo delle bagnarote “cariche di mercanzie, che vendevano o barattavano con olio e ortaggi”: le seguiva attendendo il momento propizio per sollevare le loro vesti esclamando: «Bella Madonna!», ma spesso finiva inseguito e picchiato dalle possenti donne del mare.
Le buscava spesso Lalà. Era infatti il bersaglio preferito dei ragazzi del paese, che lo prendevano a colpi di pietra per strada oppure si introducevano di notte nel suo nascondiglio, per svegliarlo di soprassalto. Quegli stessi ragazzi che però si presero cura di lui quando si beccò la polmonite: «Rantolava rincantucciato in un angolo umido e fetido», eppure «voleva vicino i suoi ragazzi, e ad essi chiedeva un po’ di cibo e un po’ di vino, soprattutto vino».
Quella volta si salvò, ma una seconda polmonite gli fu fatale. Finiva così la vita di Lalà, il cui corpo, benedetto dal parroco (“che ebbe sempre pietà di lui”), fu portato via dagli spazzini.

A Lalà, tipico “personaggio” di paese, dedicò un suo componimento il poeta eufemiese Domenico Cutrì:

Parivi scemu, ma scemu non eri,
armenu a modu toi, tu ragiunavi,
si ’ncunu ti parrava l’ascurtavi
’mpocu sedutu e ’mpocu standu ’mperi.
Cu eri? Chi facivi? Chi speravi?
La to testa paria senza penseri,
non avivi famigghia, né mugghieri,
ridivi sempri e sempri caminavi.
Tenivi stritta ’nmanu na cortara
di crita, vecchia, rutta e nigru e lordu
tu eri sempri di ’n testa a li peri.
Na cosa avivi bona, lu ricordu,
ca ringraziavi tantu volenteri
cu ti stindiva ndi la manu ’n sordu!

*La fotografia è tratta dal libro di Domenico Cutrì, Cascami. Poesie dialettali, Tipografia La Cartografica, Palermo 1965, p. 90 (a pagina 91, la poesia).

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Contrada Peras

A Domenico Cutrì, prolifico poeta eufemiese trapiantato ad Ala di Trento, l’amministrazione comunale guidata da Giovanni Fedele ha dedicato, circa dieci anni fa, la biblioteca comunale.
Tra i versi ispirati a Sant’Eufemia d’Aspromonte, la poesia Contrada Peras del mio paese natio a mio avviso è tra le più significative della sua produzione, non a caso contenuta anche nella “prima parte” (Poesie della memoria) della raccolta L’ultimo volo, pubblicata postuma a cura della figlia Franca, nel 1985:

In questa contrada

il gallo batteva le ore


ed i contadini del tempo

– zappa a spalla –

si recavano al lavoro.

La sera,
seduti scalzi sull’acciottolato


davanti alla porta di casa,

farfugliavano nel vuoto,

aspettando pensierosi il domani,

per chi riusciva a vederlo.

La semplicità e la circolarità della quotidianità campestre, scandita dal canto del gallo; la “fatica” della vita, fatta di lavoro, lavoro e poi… ancora lavoro; la precarietà di esistenze condannate alla solitudine della sera, prive di sogni perché il sognare presuppone la capacità di guardare oltre il traguardo più immediato e urgente, alzarsi l’indomani per continuare a lasciare nei campi, giorno dopo giorno, vigore, gioventù, anima.

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