Perché Sanremo “era” Sanremo

Scrivo ora qualche riga sul festival di Sanremo perché penso che la conclusione della manifestazione sia ininfluente ai fini della mia valutazione. D’altronde, su tre serate, avrò visto non più di mezzora di spettacolo, per cui il mio commento è, in realtà, una considerazione sull’evento. Da tempo, nella kermesse canora, la canzone ha smesso di essere protagonista. Tanto da risultare effimeri il successo e la notorietà dati dalla vittoria. Chi è in grado di ricordare nomi e volti di tantissimi tra i vincitori più recenti? Nel giro di un anno, fenomeni musicali lanciati dai talent show e catapultati sul palcoscenico dell’Ariston scompaiono con una regolarità ormai inquietante: Marco Carta, chi era costui?
Sanremo è attesa, gossip, polemica cercata e montata ad arte perché se ne parli. Perché per una settimana non si discuta d’altro. Sanremo è una zona franca, capace di ascolti alti perché la controprogrammazione, in quei giorni, non esiste. Sanremo è l’ipocrisia di chi invita Celentano, alle condizioni imposte dal Molleggiato, e poi innesca la polemica perché nel suo monologo ne ha avute per tutti. Come se non fosse quello il vero motivo della sua presenza. Non ho ascoltato il suo pippone, ma ho letto le reazioni. La migliore è stata la battuta di Rocco Papaleo: “Adriano è stato geniale ad ospitare Sanremo nel suo show”. Il punto è questo: può un ospite monopolizzare l’intera serata e ridurre gli ospiti a contorno del suo personalissimo show? No, non può. Non potrebbe. Ma è un gioco delle parti. Prima, il tormentone “Celentano sì/ Celentano no”, poi la carta bianca chiesta e ottenuta, infine le lacrime da coccodrillo e l’incazzatura dei vertici Rai. Asciugate con i bigliettoni degli introiti pubblicitari. Nel merito, non è il massimo dell’eleganza chiedere la chiusura di due giornali perché non se ne condivide la linea. Basta non comprarli. E anche se c’era molto da sottoscrivere (la parole su don Gallo, per esempio), il teatro Ariston non è il pulpito ideale per simili comizi.
Boccio in toto il turpiloquio dell’intervento iniziale di Luca e Paolo e, nella seconda serata, la volgarità di due comici a me sconosciuti (I soliti idioti), che ho ascoltato giusto un paio di minuti senza riuscire per niente a ridere. Sorvoliamo sulla farfalla di Belen e sulle mutande che c’erano-non c’erano-e se c’erano non si sono viste. Ma si può sacrificare tutto sull’altare degli ascolti e degli incassi? Domanda retorica, alla quale si può rispondere riproponendo la terza serata, dedicata finalmente alla musica, con ospiti di livello mondiale. Su tutti, Brian May e l’immensa Patti Smith. Ma è già tempo di tornare alla normalità distorta di Sanremo. E allora, che spettacolo (penoso) sia.

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Alzheimer Cafè

Chi ha o ha avuto casi di demenza senile in famiglia sa quanto male faccia non essere riconosciuto da un proprio congiunto, conosce l’esasperazione e il senso di impotenza suscitati dai sintomi della malattia. In Italia, gli anziani colpiti dal morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile, sono 800.000 e nell’80% dei casi sono le famiglie a sobbarcarsi il fardello – che non è soltanto economico – della loro assistenza.
Si comincia con il dimenticare le cose e con l’accusare difficoltà a compiere azioni quotidiane; si finisce con il perdere completamente la memoria e ogni tipo di funzione cognitiva. Le stesse domande ripetute in continuazione, la perdita della percezione del pericolo, la mancanza di orientamento spazio-temporale, la difficoltà a svolgere le attività più elementari: mangiare, badare alla propria igiene personale. Una tragedia familiare, che cessa soltanto con la morte del malato e che proprio per questo alimenta sensi di colpa.
Nel 1997 un medico olandese ideò un approccio alternativo alla malattia. La demenza senile è infatti una patologia irreversibile, progressiva e incurabile. Per cui non esistono farmaci in grado di bloccare il suo incedere inesorabile. Si può però fare molto per migliorare la qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari. La denominazione del progetto sperimentato per la prima volta a Leida (Olanda) è “Alzheimer Cafè”: “uno spazio informale dove vengono forniti insieme momenti di incontro, svago, formazione” che rappresentano “un approccio alternativo per affrontare, attraverso interventi riabilitativi, le problematiche psicologiche e comportamentali che caratterizzano questi pazienti, in un’atmosfera serena, armonica, davanti a una tazza di caffè o di the”.
A Sant’Eufemia d’Aspromonte, un primo incontro “a porte chiuse” si era tenuto il 21 settembre 2011 presso la Residenza sanitaria assistenziale “Monsignor Messina” (diretta dall’avvocato Rossana Panarello), in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer. Per il secondo appuntamento (13 febbraio), la Rsa è stata invece aperta al pubblico, che ha assistito con attenzione alla proiezione di un filmato di animazione e di un cortometraggio sulla malattia, sui comportamenti da tenere e su quelli da evitare. Pazientare, assecondare e distrarre possono considerarsi tre verbi chiave. La geriatra Maria Grazia Richichi, che guida l’equipe composta da tre educatrici professionali, una psicologa, un’assistente sociale e una fisioterapista, ha posto infine l’accento sull’importanza delle terapie non farmacologiche (terapia del sorriso, pet therapy, laboratorio manuale) per migliorare la qualità della vita dei pazienti, ricercando un minimo di socializzazione e affermando il valore universale della dignità umana.

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Il tweet è mio e me lo gestisco io

Da martedì sera, non si cinguetta (quasi) d’altro. Sulla copertina di Ballarò era da poco calato il sipario e già le tricoteuses avevano preso posto nella piazza più affollata del mondo per assistere all’esecuzione di Maurizio Crozza, reo di avere pescato dal social network più trendy del momento le battute per il suo monologo. Al grido di #crozzaeincolla e #copiaeincrozza, “il popolo della rete” è immediatamente partito all’attacco del popolare comico genovese, accusato dal deputato del Pd Andrea Sarubbi di avere “fatto spesa proletaria su twitter”. A ruota, l’indignazione è montata, raggiungendo vette inimmaginabili. Si è capita soltanto una cosa: il sogno recondito di gran parte degli utenti di twitter è quello di diventare autore. Altrimenti risulta difficile comprendere una reazione talmente sproporzionata. Uno soffia all’amico sui capelli, quello si gira e lo atterra con un diretto in pieno viso.
Delle battute “incriminate”, quella sulle Olimpiadi invernali a Roma e l’altra sulla neve nella capitale “ogni morte di Papa”, la seconda è più vecchia di Matusalemme. Il quesito sollevato dai pasdaran del web è: può un comico utilizzare una battuta twittata da altri, senza citare la casa originale? Dalla notte dei tempi, i comici hanno sempre tratto ispirazione e, evidentemente, anche altro dalle persone della strada. Poi è l’arte che fa sì che la stessa frase, detta da me o pronunciata dal grande Totò, sortisca effetti differenti. È facile capire come la vita del battutista sarebbe impossibile se dovesse citare le sue fonti. Non siamo di fronte a un giornalista o a uno storico. Forse non sarebbe male se tutti ci prendessimo meno sul serio. Il fatto di twittare qualsiasi cosa ci passi per la testa non fa di ciascuno di noi un maître à penser, un editorialista, un ghost writer o un autore.
Meglio quelli che sul social network l’hanno presa con filosofia, come Antonio De Leo (prevedibile): “Crozza copia per risparmiare, da buon genovese”; o come Mino Tarantino: “Sono davvero depresso. Crozza copia. E non da me”. Che nasconde dietro l’ironia un’amara verità, svelata dal caustico Fabrizio Carosella: “gente che si venderebbe mamma per un RT punta il dito contro Crozza. Ridicoli”.
Nella replica apparsa su Corriere.it, il comico l’ha messa sul ridere: “è tutto vero. Sono trent’anni che io lavoro copiando dalla rete. Anche quando la rete non esisteva, io la copiavo”; ma non ha risparmiato una velenosa frecciatina al parlamentare democratico: “mi ha sgamato. Io confesso. Anzi, trattandosi di Sarubbi: io con fesso”.
E torniamo alla questione centrale. Non c’è giorno in cui, spesso a ragione, non si metta in guardia dai tentativi di imbavagliare la rete attraverso restrizioni alla libertà della circolazione delle idee e del pensiero, anche se spesso il fine è quello di potere accedere gratuitamente a tutti i contenuti presenti sul web (libri, canzoni, film). E il problema sarebbe Crozza? È una polemica pretestuosa, puerile, lievemente rosicona. Una permalosità irritante, da gente con il ditino sempre alzato, inflessibile nel censurare il prossimo e indulgente verso se stessa. La pagliuzza e la trave.

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Morire di bici? No, grazie

Qui l’articolo originale

Questo blog aderisce all’iniziativa, partita da un gruppo di blogger italiani e rivolta ai principali quotidiani italiani per sensibilizzare l’opinione pubblica, i comuni, le amministrazioni locali sul tema della sicurezza in bicicletta. Chi pedala sa che sceglie, consciamente o non, di accettare una serie di rischi molto elevati per la propria incolumità. In città, sulle strade provinciali, sui tornanti dello Stelvio. La bicicletta è una sola.
Settimana scorsa, sulle strade di Londra, una giornalista del Times, mentre pedalava, è stata travolta da un camion. Ora è in coma. Bene, il Times ha deciso di promuovere una campagna massiccia sulle proprie pagine per chiedere una Londra a misura di ciclista. È ora di farlo anche in Italia.
Non è utopia, è aprire gli occhi e alzare, se occorre, la voce: la bicicletta è il futuro, che lo si voglia o meno. Ce ne saranno sempre di più. Pedalare sicuri è destinato a diventare un diritto sempre più imprescindibile.
Sotto, la lettera, condivisa, e diffusa dai blog. Prendetene e diffondetene tutti.

Gentili direttori del Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport, Il Messaggero, Il Resto del Carlino, il Sole 24 Ore, Tuttosport, La Nazione, Il Mattino, Il Gazzettino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Giornale, Il Secolo XIX, Il Fatto quotidiano, Il Tirreno, Il giornale di Sicilia, Libero, La Sicilia, Avvenire.

La scorsa settimana il Times di Londra ha lanciato una campagna a sostegno delle sicurezza dei ciclisti che sta riscuotendo un notevole successo (oltre 20.000 adesioni in soli 5 giorni).
In Gran Bretagna hanno deciso di correre ai ripari e di chiedere un impegno alla politica per far fronte agli oltre 1.275 ciclisti uccisi sulle strade britanniche negli ultimi 10 anni. In 10 anni in Italia sono state 2.556 le vittime su due ruote, più del doppio di quelle del Regno Unito. Questa è una cifra vergognosa per un paese che più di ogni altro ha storicamente dato allo sviluppo della bicicletta e del ciclismo ed è per questo motivo chiediamo che anche in Italia vengano adottati gli 8 punti del manifesto del Times:

1.Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.
2.I 500 incroci più pericolosi del paese devono essere individuati , ripensati e dotati di semafori preferenziali per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere eventuali ciclisti presenti sul lato.
3.Dovrà essere condotto un audit nazionale per determinare quante persone vanno in bicicletta in Italia e quanti ciclisti vengono uccisi o feriti.
4.Il 2% del budget dell’ANAS dovrà essere destinato alla creazione di piste ciclabili di nuova generazione.
5.La formazione di ciclisti e autisti deve essere migliorata e la sicurezza dei ciclisti deve diventare una parte fondamentale dei test di guida.
6.30 km/h deve essere il limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili.
7.I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato dalla Barclays
8.Ogni città deve nominare un commissario ala ciclabilità per promuovere le riforme.

Cari direttori, il manifesto del Times è stato dettato dal buon senso e da una forte dose di senso civico. È proprio perché queste tematiche non hanno colore politico che chiediamo un contributo da tutti voi affinché anche in Italia il senso civico e il buon senso prendano finalmente il sopravvento.
Vi chiediamo di essere promotori di quel cambiamento di cui il paese ha bisogno e di aiutarci a salvare molte vite umane.

Chiunque volesse contribuire al buon esito di questa campagna può condividere questa lettera attraverso Facebook, attraverso il proprio blog o sito, attraverso Twitter utilizzando l’hashtag #salvaiciclisti e, ovviamente, inviandola via mail ai principali quotidiani italiani.
Tutti gli aderenti all’iniziativa saranno visibili sulla pagina Facebook: salviamo i ciclisti

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Dai ricordi di un ex fumatore

“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.

Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.

Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.

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Per favore, risparmiateci la spocchia

Le ultime settimane sono state monopolizzate da due dichiarazioni infelici e dalle successive polemiche. Il tema dell’occupazione è un nervo scopertissimo. Forse sarebbe il caso che chi ricopre incarichi di governo maneggiasse con più cura una materia talmente esplosiva. Ha iniziato il viceministro del lavoro e delle politiche sociali, Michel Martone: “chi si laurea dopo i 28 anni è uno sfigato”. Anche chi si laurea in tempo e poi invecchia cercando un lavoro non scherza. Martone ha successivamente rettificato il senso della sua affermazione, ma l’irritazione non passa. E non va via perché pure Martone dovrebbe sapere che la questione, innanzitutto, è di “opportunità”. Che non sono uguali per tutti. Senza ricorrere alla vis polemica di Travaglio, se sei figlio di un magistrato della Cassazione (o comunque “figlio di”), hai possibilità che altri nemmeno si sognano. Fai esperienze, maturi un curriculum eccellente e vai avanti. Incarichi su incarichi, una pubblicazione dopo l’altra e può capitare di ritrovarsi professore ordinario a 30 anni e viceministro a 38.
Commentando la mia lettera al ministro Profumo, in poche battute Mario ha spiegato dove sta la vera differenza tra l’Inghilterra e l’Italia:

In Inghilterra c’è un’etica del lavoro cristallina. Non hai bisogno di conoscere nessuno e nei colloqui sei valutato “semplicemente” per i tuoi meriti. Non solo, anche se non hai le qualifiche richieste, se reputano tu abbia il potenziale, il training te lo danno loro, pagato, perché investono nella persona. È il valore della persona che conta, non chi conosci. Negli anni, con uno straccio di diploma di maturità scientifica (42/60) ho lavorato in una banca multinazionale (HSBC), per la polizia metropolitana londinese, ed ora per una compagnia aerea, che è anche un’altra multinazionale, in un percorso lavorativo di cui vado fiero. Dubito in Italia avrei avuto le stesse possibilità. In banca ci entri con le raccomandazioni, così come in Polizia o all’Alitalia.

Sei valutato per le tue qualità. Se ti giudicano idoneo, investono su di te. Una visione copernicana. Quanti corsi di formazione vengono tenuti in Calabria, senza che si riesca ad ottenere neanche un posto di lavoro? Gli unici a trarre un profitto sono coloro che li organizzano. Non i partecipanti, che collezionano l’ennesimo inutile pezzo di carta. A quanti curriculum inviati non segue alcun colloquio di lavoro e neppure l’educazione di una risposta?
Per entrare all’HSBC, una delle più grandi banche europee, Mario non ha fatto un concorso. Ha superato un colloquio di lavoro, durante i mesi di prova ha seguito un corso di formazione, infine è stato assunto. Lineare. In Italia una cosa del genere è impensabile. Fare per tutta la vita lo stesso lavoro non rientra nella sua filosofia di vita. Altrimenti sarebbe rimasto in banca. Ma lui ha la possibilità di smettere e fare altro con una relativa semplicità. Se invece il presidente del consiglio se ne esce con “il posto fisso è monotono”, in una realtà caratterizzata dal 30% di disoccupazione giovanile (senza contare inoccupati, cassintegrati, lavoratori a 5-600 euro al mese), è scontata la selva di fischi. Il problema è il lavoro, un lavoro qualsiasi. Altro che posto fisso. Le parole sono importanti, ma anche chi le pronuncia.

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Casta calabra

L’aveva detto in tempi non sospetti: “Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena dritta”. Era la chiusura dell’editoriale sofferto, ma orgoglioso, con il quale Paolo Pollichieni, il 20 luglio 2010, annunciava le dimissioni da direttore di CALABRIA ORA, il quotidiano che aveva guidato per più di tre anni. In tanti tirarono un sospiro di sollievo. “Chissà cosa uscirà stamattina” era diventato l’incubo ricorrente per gli amici degli amici, per i compari dei compari, per tutta quella gente dotata della dose di pelo sullo stomaco indispensabile per coltivare amicizie “pericolose” e per essere “qualcuno” in Calabria. I rapporti tra politica e ’ndrangheta sono stati spesso al centro delle inchieste portate avanti da Pollichieni e dai suoi collaboratori, una pattuglia giovane, agguerrita, coraggiosa, che non ha esitato a seguire l’esempio del direttore di fronte alle pressioni della proprietà del giornale.
Casta Calabra (sottotitolo: La politica? Sempre meglio che lavorare…), edito da Falco (Cosenza, dicembre 2011), è lo sbocco naturale di vicende personali e professionali vissute in prima linea. La sistemazione organica del discorso interrotto bruscamente quell’estate e ripreso un anno dopo, dalle colonne del CORRIERE DELLA CALABRIA, settimanale di inchieste e approfondimenti che ogni venerdì provoca parecchi bruciori di stomaco a Palazzo Campanella e a Palazzo Alemanni.
“C’è di tutto nel libro. Per cominciare, la denuncia del degrado culturale”, il giudizio del giornalista del CORRIERE DELLA SERA Gian Antonio Stella, al quale va il merito (da dividere con il collega Sergio Rizzo) di avere per primo scoperchiato il malcostume della classe politica italiana con La casta, exploit editoriale datato 2007, che ha aperto la strada ad un filone giornalistico di successo.
Pollichieni, Eugenio Furia, Giampaolo Latella, Pablo Petrasso e Antonio Ricchio accompagnano i lettori girone dopo girone, in un abisso popolato da politici e politicanti, faccendieri, mafia e antimafia, massondrangheta e borghesia mafiosa, quella “zona grigia” già definita dal direttore del CORRIERE DELLA CALABRIA “il vero capitale sociale della ’ndrangheta”. E che è diventata classe dirigente in una realtà dominata dal “familismo amorale”, modello di comportamento sociale fondato sul perseguimento dell’interesse “familiare” a scapito del bene della collettività. Nella notte della politica calabrese, le differenze tra gli schieramenti sono impercettibili. Anche perché la cronaca è un inciucio continuo, sublimato nella legge sul “concorsone” (2001), ma riscontrabile in un modus operandi che non distingue tra gli schieramenti politici. Leggi sul taglio dei costi della politica che si rivelano fonti di ulteriori sprechi. Consulenze inutili e incarichi esterni assegnati a politici trombati alle elezioni, tra gli sbadigli annoiati del personale interno. Carrozzoni come l’Afor e l’Arssa, aboliti per legge da cinque anni, che continuano ad assumere personale. Società partecipate perennemente in rosso: emblematico il caso della Sogas, la società che gestisce l’Aeroporto dello Stretto e che dalla data della sua costituzione (1986) non ha mai chiuso un bilancio in attivo. Nelle pagine di Casta calabra sfilano politici e burocrati, con il relativo codazzo di parenti attaccati alla mammella pubblica, tutti accomunati dal longanesiano “tengo famiglia”. Tutti sorridenti dietro al vip di turno portato a sfilare sul corso Garibaldi per promuovere l’immagine di Reggio, mentre nelle periferie manca l’acqua e le buche nelle strade sono voragini. Il tanto sbandierato “modello Reggio”, assurto prima a modello da esportare a livello regionale, quindi declassato a “modello peggio”: scandali, debiti, misteri, il suicidio di Orsola Fallara, la nomina prefettizia della commissione d’accesso antimafia. E nuvoloni neri all’orizzonte.

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Ho scritto al ministro Profumo. E mi ha risposto

Qualche giorno fa avevo scritto al ministro della Pubblica Istruzione. Ho abbastanza esperienza per sapere come vanno queste cose. Mi ero detto: “Qualche collaboratore del ministro Profumo leggerà (forse) e cestinerà”. Nella migliore delle ipotesi, lo stesso collaboratore invierà un paio di righe di risposta, le solite frasi di circostanza. Insomma, non mi aspettavo chissà cosa, tanto che non avevo neanche intenzione di rendere pubblica la mia lettera. E invece la risposta mi è arrivata, una email della segreteria del ministero:

“Gent.mo dr. Forgione, apprendo dalla sua lettera lo sconforto che sta vivendo. La invito però a non demotivarsi nonostante le difficoltà del momento e a continuare a credere nel suo impegno. Cordiali saluti”.

Mi è sembrata un’inaccettabile presa per i fondelli. Cioè, sono io che non devo demotivarmi?! Io non mi sono mai demotivato, altrimenti avrei gettato la spugna prima di oggi!
Ho quindi deciso di pubblicare la lettera e di cercare di diffonderla per quanto mi è possibile. Vi chiedo di fare lo stesso, con tutti i mezzi che avete a disposizione (email, facebook, twitter). Probabilmente, non cambierà nulla. Ma è giunto il momento di gridare, per dire almeno che non siamo più disposti a sopportare in silenzio.

27 gennaio 2012
Ch.mo prof. Profumo,
chi le scrive è un dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea che ormai non sa più quanti bocconi amari ha ingoiato da quando ha avuto la disgrazia – perché tale si è rivelata – di vincere il concorso all’Università di Messina, nell’ormai lontano 2001.
A conti fatti, è stata una vera sciagura, che mi ha precluso opportunità lavorative che non si ripresenteranno mai più. Altrove (si pensi al PhD anglosassone) il dottorato è un passe-partout che apre le porte all’eccellenza, ai posti di lavoro più prestigiosi, tanto da costituire un requisito quasi indispensabile per chi aspira a diventare classe dirigente. In Italia, il dottorato non solo non dà niente, se non una precarizzazione infinita, ma in un certo senso è penalizzante, perché se si è investito tutto su quello, al termine del corso ci si ritrova praticamente senza niente in mano. E così, esperienze lavorative all’estero, pubblicazioni, dieci anni di collaborazione con una cattedra universitaria inseguendo il miraggio “prima o poi arriverà il mio turno”, si sono rivelati un suicidio. Perché giunti alla soglia dei quarant’anni, un dottorato in una disciplina umanistica e una laurea in scienze politiche non hanno alcuna spendibilità nel mercato del lavoro.
Nell’Università, al di là di ciò che si strombazza ogni qual volta si approva una riforma, non cambia mai niente. Perché si possono fare centomila riforme, ma il sistema rimane sempre autoreferenziale: commissioni fatte da professori. Prima era tutto più semplice perché la “scelta” dei candidati vincitori veniva fatta a livello locale. Ora c’è solo un passaggio in più: commissari esterni fanno vincere il candidato “scelto” dalle facoltà, perché tanto i membri “girano”. Tu mi fai il favore qua, io te lo ricambierò nella tua facoltà, quando si presenterà l’occasione.
Può dirmi: “se hai le prove denuncia, altrimenti stai zitto”. Lo sappiamo tutti che è difficilissimo dimostrare l’imbroglio. Le commissioni giudicano secondo criteri “oggettivi”. Li conosco bene. Per gli insegnamenti a contratto, le esperienze di dottorati e assegni di ricerca hanno una valutazione che oscilla da un punteggio minimo ad uno massimo. Ovviamente, il candidato che “deve” vincere ottiene il massimo e le sue pubblicazioni sono “attinenti” con la materia messa a bando. Per gli altri non è mai così. Assegni di ricerca, post-dottorati, concorsi per ricercatore: dalla composizione della commissione di esame si sa già chi vincerà. Perché una sola pubblicazione di 100 pagine (per metà un’appendice con documenti copiati) può valere più di diversi libri, saggi e articoli, purché edita su una rivista specializzata. Magari, quella del preside della facoltà che ha indetto il concorso e che ha una candidata, quasi cinquantenne ed estranea al mondo universitario, da sistemare per ripagarla di servigi di altra natura.
Insomma, se il professore al quale si è legati non conta nulla, si rimarrà sempre fuori dal sistema.
E fuori c’è il nulla. Ci si ritrova, saltuariamente, a fare lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico. Come si può, in queste condizioni, pensare al futuro, a farsi una famiglia? Aspirazioni legittime, non la Luna.
Capisco che non possiede la bacchetta magica. Per cui so che non può risolvere, dall’oggi al domani, una situazione che si trascina da decenni. Lei però conosce benissimo il problema, cioè cosa spetta a tantissimi giovani all’indomani del conseguimento del pezzo di carta: disoccupazione, sottoccupazione, lavori dequalificanti che non hanno alcuna correlazione con il percorso di studi seguito. Infine, inoccupazione, quando la stanchezza prende il sopravvento. Per pochi “fortunati”, se così si possono definire coloro che hanno la possibilità di fare qualche lavoretto in nero, o qualche contratto a progetto per un paio di mesi, sfruttamento senza alcuna tutela e senza alcun diritto.
Siamo la prima generazione della storia d’Italia senza futuro. Siamo una generazione che non può farsi una famiglia perché non ne ha la possibilità. Siamo una generazione che tra trenta-quaranta anni farà esplodere una bomba sociale che neanche riusciamo ad immaginare. Perché non avremo niente, neanche uno straccio di pensione. Siamo una generazione senza sogni. E questa è la cosa che fa più male. Quando non si è più capaci di sognare, si sta cominciando a morire. È ciò che sta capitando a molti di noi. Perché anche i sogni (la carriera universitaria, nel mio caso) sono ormai una possibilità come tante altre. Come qualsiasi cosa che ci consenta di non dovere “chiedere”, di potere fare fronte alla vita con le nostre sole forze.
Servono riforme strutturali. Servono percorsi formativi che portino ad uno sbocco lavorativo. Servono corsi di formazione che non siano soltanto uno strumento clientelare di gestione del potere. Il solito escamotage per stabilizzare gente nominata per intuitu personae, quell’intuito che tutti conosciamo.
La mia storia è certo una sconfitta personale, ma è anche l’esito tristissimo di un modello di sviluppo e di politiche occupazionali fallimentari.

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Gli anni Ottanta di mio fratello Mario. E anche i miei

A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.

Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.

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La Giornata della Memoria

La memoria è un dovere e il modo migliore per commemorare l’Olocausto è affidarsi alle parole di chi c’era.
Perché non accada mai più.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

[Primo Levi, Se questo è un uomo, p. 23]

Di seguito, la testimonianza di Primo Levi raccolta da Enzo Biagi e riproposta ne Il Fatto, trasmissione di successo andata in onda sulla Rai dal 1995 al 2002, quando fu soppressa dall’“editto bulgaro”.

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