I voti alle primarie

Premessa: non ho votato alle primarie. L’ho fatto in passato e l’esperienza non è stata esaltante. Ho avuto però un attimo di esitazione ieri mattina. Confesso che se fossi riuscito a trovare il seggio ci sarei andato. C’era anche l’indirizzo sul sito “primarie bene comune”, ma stranamente, sul posto, neanche un’indicazione, un manifesto, niente di niente. Però stamattina abbiamo saputo di 200 voti a Bruno Tabacci (su 202 votanti). Un exploit rilevante per il candidato di Agazio Loiero in Calabria, a pochissimi voti dal risultato di Reggio Calabria, prima tra le città della provincia (215 voti, ma su 2.688 votanti). E questo mi basta per pensare che ho fatto bene a risparmiare quei due euro. Nichi Vendola ha preso un voto in meno, io ho evitato di rodermi nuovamente il fegato.

In Calabria le primarie hanno una credibilità prossima allo zero. Truppe cammellate e signori delle tessere gestiscono tutto. Per questo, può verificarsi (si è già verificato) che in certi paesi i voti alle elezioni politiche siano inferiori di quelli raccolti dal partito (o dai partiti) alle primarie. Per la stessa ragione, un voto “carbonaro” come quello di Sant’Eufemia, nel quale non c’è stata mobilitazione da parte di alcuno, nel quale nessun partito svolge attività politica da tempo immemorabile, può dare un esito così sorprendente. Chi doveva fare bella figura con Loiero l’ha fatta e Loiero, anche grazie a questo genere di consenso, avrà argomenti da esporre al tavolo delle candidature, perché su un 6% scarso a livello di coalizione nessuno è disposto a sputarci sopra.

Tralasciamo quindi il contesto regionale e spostiamoci su quello nazionale, basandoci sui dati ufficiosi. Hanno votato circa 3 milioni e 100 mila cittadini. Non tantissimi, ma neanche pochi, in tempi di generale disaffezione per la politica:

Bersani 8 – Ha fatto bene il suo compitino, che era quello di serrare le fila e respingere l’assalto dei rottamatori. La nomenclatura del partito si è schierata compatta in suo sostegno. Bisognerà vedere cosa, se la spunterà al ballottaggio, ciò comporterà in termini di mortificazione della richiesta di novità che sale prepotentemente dalla base e dai movimenti (44,9% in Italia; 54% in Calabria; 51,78% in provincia di Reggio Calabria).

Renzi 9 – È il vincitore morale delle primarie, capace di una mobilitazione che sfrutta al meglio le opportunità fornite dai social network. Personalmente, non mi sta molto simpatico, tranne che per l’affermazione “con noi, l’alleanza con Casini non si fa”. Sfonda in settori della società difficilmente raggiungibili dal Pd: la sua forza, ma anche il suo limite. L’interrogativo è: “cosa faranno i suoi elettori in caso di vittoria di Bersani?” (35,5% in Italia; 22,7% in Calabria; 24,19% in provincia di Reggio Calabria).

Vendola 6,5 – Bene al Sud, per fare bingo avrebbe dovuto superare il 20% e magari (il suo sogno segreto) arrivare al ballottaggio. Probabilmente è stato punito dal format del confronto televisivo: i tempi contingentati (domanda e risposta quasi secca) mal si addicono al suo stile oratorio. Era il candidato più a sinistra, ora dovrà cercare di capitalizzare il suo peso per dare, in sede di stesura del programma elettorale, risposte di sinistra alla crisi economica (15,6% in Italia; 16,5% in Calabria; 19,65% in provincia di Reggio Calabria).

Puppato 5 – Praticamente, era la “quota rosa” di queste primarie. Partiva svantaggiatissima: lei stessa ha ammesso di avere fatto solo 20 giorni di campagna elettorale e di non essere riuscita a toccare 6 regioni. Una candidatura quasi di testimonianza, che ha avuto un riscontro tutto sommato non fallimentare, se si pensa che poteva contare esclusivamente sull’endorsement dell’artista Marco Paolini (2,6% in Italia; 0,7% in Calabria; 0,85% in provincia di Reggio Calabria).

Tabacci 4 – Il più “vecchio” tra i candidati, aspirava a raccogliere preferenze tra la galassia ex e post democristiana del partito democratico e dei movimenti che a quella tradizione fanno riferimento. In Calabria, “Autonomia e diritti” dell’ex governatore Agazio Loiero. È stato un flop, appena appena mitigato dal discreto risultato ottenuto tra la Sila e l’Aspromonte (1,4% in Italia; 5,4% in Calabria; 3,74% in provincia di Reggio Calabria).

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Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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Ceu Galera

Ero amico di Vincenzo Pinneri (Ceu “Galera”), capo dell’omonima banda che tra il 1943 e il 1944 terrorizzò Sant’Eufemia e dintorni e si rese protagonista della faida con la banda Leonello di Sinopoli.
Il Pinneri uscito dal carcere alla fine degli anni Settanta non era il bandito, già fratricida, evaso dal carcere e latitante, che faceva il giro delle campagne per estorcere cibo, denaro e armi. Non era l’ergastolano condannato per una ventina di reati (un altro omicidio, diversi tentati omicidi, estorsioni, violenze), né il leader giovanissimo – ma lui ha sempre negato di essere stato capo di qualcuno: “erano gli altri che mi seguivano anche se non li volevo” – di una banda di sbandati, il cui arresto con tanto di passarella per le vie del paese, ammanettato alla sponda di un carro bestiame, da molti fu salutato come una liberazione.

Il Pinneri che ho conosciuto io era un affettuoso signore anziano che ha sempre vissuto da solo, adorava i bambini e ti metteva in imbarazzo se lo invitavi a pranzo, perché arrivava con due buste stracolme di salumi, formaggio, carne, frutta, biscotti.

Si commuoveva spesso: di fronte alla morte di un giovane; per quel ragazzo che non riusciva a trovare lavoro; per l’altro costretto ad emigrare, cui portava un pacco di roba da mangiare ogni volta che doveva ripartire.

Imbattibile al gioco della dama, si dilettava con le carte: poco a “scopa”, perché troppo forte e senza rivali: ricordava tutte le giocate e sapeva “contare il quarantotto”; di più a “scala quaranta”: ma non con tutti, solo con chi gli stava simpatico. Mai a soldi e sempre “a consumazione”: merendine, caramelle e bibite che puntualmente regalava a qualcuno. Prediligeva le boccette e, dalle bestemmie, anche chi si trovava nel parcheggio, fuori dalla sala biliardi, capiva se avesse vinto o perso.
Stravedeva per me e mi aveva eletto “biografo ufficiale” delle sue gesta. Probabilmente, un giorno lo diventerò, mettendo insieme la lunga e inedita intervista che abbiamo realizzato a più riprese, gli articoli che lo hanno riguardato e che mi ha affidato insieme alle pagine di un suo diario e ad altre autografe, scritte in diversi momenti (l’ultima, due mesi fa, dal letto dell’ospedale), le poche foto che lo ritraggono a Fossombrone, Saluzzo o Pianosa, le carte giudiziarie già fotocopiate e quelle che occorre recuperare.

Il Pinneri che ho conosciuto io era anche, però, l’uomo pronto a sparare e uccidere nuovamente, ai primi anni Ottanta, davanti al bar, se non ci fosse stato il tempestivo intervento di un avventore, che prima con coraggio gli bloccò la mano armata e poi riuscì a calmarlo e a farlo desistere dall’insano proposito. Era l’ultraottantenne vittima del furto della sua inseparabile “Ape 50”, il quale, costretto a presentare denuncia, all’esterrefatto maresciallo che gli chiedeva se nutrisse qualche sospetto rispose: “E secundu vui, se sapiva cu fu, veniva a caserma?”.

Qualche giorno fa mi è stato chiesto come mai non gli avessi ancora dedicato un articolo. Ecco, ho il sospetto che molti, soprattutto tra i giovani, siano affascinati dal Pinneri bandito e “giustiziere”, un po’ come avviene con quelle fiction televisive che trasformano in eroi certi personaggi negativi. Io ritengo che sia giusto ricordare con affetto il Pinneri che in tanti abbiamo conosciuto come persona a suo modo dolce, sensibile, premurosa e, se vogliamo, perseguitata da antichi fantasmi e da un “ruolo” sopravvissuto allo scorrere del tempo. Andrebbe invece consegnato alla dimensione storica e sociologica il mito del Pinneri impavido e violento, grilletto facile e bombe a mano sempre in tasca nel contesto sociale caotico del dopo 8 settembre, protagonista di un incredibile assalto alla caserma dei carabinieri e, nell’immaginario collettivo, ancora assiso dietro a un treppiedi all’ingresso del paese, pronto ad accogliere a sventagliate l’arrivo del questore di Reggio Calabria.

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L’ultima lezione

Ho sempre immaginato gli intellettuali come tanti Pollicino, le tasche piene di sassolini da seminare lungo il cammino, a beneficio di chi verrà dopo. Un’indicazione, un segnale che aiuti l’altro ad orientarsi o anche soltanto serva da conforto quando la solitudine del pensiero stringe il petto: “sì, sei sulla strada giusta”.

Il professore Rosario Monterosso è uno che di sassolini ne ha lasciati parecchi, ovunque e in ogni momento. Chi ha avuto il privilegio di essere suo alunno, suo amico, o entrambe le cose, ora non può che avvertire smarrimento. Ci ha lasciato in punta di piedi, con uno stile che abbiamo apprezzato anche quando ci è costata dolore la sua decisione di chiudere con il mondo, nel momento in cui tutto era diventato ineluttabile.
Sant’Eufemia era il suo secondo paese e il liceo scientifico “E. Fermi” la sua seconda casa. Stamattina, nella casella di posta elettronica, ho trovato una email: “Penso che il nostro liceo sia stato il luogo che lui ha maggiormente amato, insieme alla sua incredibile biblioteca e al suo orticello”. Dalla notizia della sua morte è un continuo telefonare, chiedere, esprimere tristezza tra noi ex alunni. Questa è la sua eredità: altri sassolini.
I ricordi si accavallano, come in un puzzle di sentimenti che vorrebbe tradurre lo stato d’animo in immagini e parole. Sono in difficoltà. Per me Rosario Monterosso è stato molto di più che il mio professore di storia e filosofia negli anni del liceo. La presentazione del mio libro su Sant’Eufemia mi diede l’occasione di riconoscere pubblicamente il debito che avevo (ed ho) nei suoi confronti. Per avermi fatto innamorare delle discipline storiche, per avere rappresentato, con il suo esempio di vita, di impegno civile e sociale un modello positivo. Anche in quella occasione fu generoso, con la sua presenza dietro al tavolo degli oratori e con le parole della sua relazione. Così com’è stato sempre presente, ogni volta che qualcuno a Sant’Eufemia ha organizzato un evento culturale e ha chiesto il suo autorevole contributo. Credo sia stato questo il tratto distintivo della sua personalità. Sul piano intellettuale, la brillantezza del pensiero, quel suo sapere tradurre la complessità del ragionamento in chiarezza espositiva. Dopo, tutto appariva più limpido, come se una luce avesse illuminato la stanza buia.

La sua biblioteca è stata la biblioteca dei suoi alunni. I primi prestiti, per me, furono “Dei doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini e “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. E poi i dissidenti russi: Solgenitsin, Sacharov, Salamov. Devo a lui l’amore per Leonardo Sciascia e per Italo Calvino. Devo a lui suggerimenti preziosi e molti testi utilizzati nelle mie ricerche e pubblicazioni.

Devo a lui l’insegnamento che non bisogna mai fermarsi all’apparenza delle cose, ma scavare con certosina pazienza nella realtà che ci circonda, nell’oggetto del nostro studio, nella nostra anima e in quella degli altri.

Di sinistra, ma di una sinistra che non può albergare in nessun partito quando l’etica viene mortificata dalla prosaica gestione del potere. Una vicenda che partiva da lontano, dal lamento di Ignazio Silone, “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.

Con il professore Monterosso spesso “scandagliavamo” l’attualità politica ed era per me consolante constatare che molte idee collimavano. “Il posto del partito socialista è a sinistra”, concordammo nel momento dell’ubriacatura forzista di tanti compagni, nonostante avessimo bene in mente che molti dei carnefici di quell’esperienza fossero a sinistra. In quella sinistra che era stata sconfitta dalla storia e che, appunto per questo, riconfermava la validità del concetto pertiniano di libertà e giustizia sociale: “libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà”.

Ho ammirato la sua decisione di candidarsi a sindaco di Bagnara, nonostante egli per primo fosse consapevole di essere l’agnello sacrificale di una sinistra votata alla sconfitta. La vita è fatta anche di esempi da dare al prossimo: “ci sono quelli che prendono il 70% dei voti, ma ci siamo anche noi che non ci omologheremo mai a un sistema di potere che condanniamo. Abbiamo il dovere morale di testimoniare la possibilità di un altro destino”. Questo il senso della sua scelta. Ancora sassolini, ancora un’altra lezione. Da mandare a memoria come l’ultima, di questi mesi, in realtà il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Una dichiarazione d’amore per moglie e figli, bellissima nella sua tragicità.
Da oggi, siamo tutti un po’ più soli.

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Grillo e il Titanic Italia

Alla fine la riforma elettorale non si farà. Nella migliore delle ipotesi, la montagna partorirà il solito topolino. Le posizioni da conciliare sono sostanzialmente due. Quella di Berlusconi convertitosi al proporzionale puro, che prevede l’abolizione del premio di maggioranza del “Porcellum” e il mantenimento delle liste bloccate; quella di Bersani, che invece il premio di maggioranza vorrebbe salvarlo.
Storicamente, le mediazioni migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) sono quelle democristiane. Un copyright eterno, tramandato dalla Dc a tutte le cellule di Balena bianca ancora presenti nel corpo della politica italiana. Pare che l’Udc stia per farsi avanti con l’uovo di Colombo, un premio di maggioranza da assegnare alla coalizione che superi il 40%. Un modo per perpetuare l’attuale situazione di sostanziale frammentazione, l’ideale per un Monti bis o chi per lui. In ogni caso, di preferenze non parla più nessuno.

Ciò significa anche che la proposta depositata in Parlamento dal Pd passa direttamente nel cassonetto della differenziata (carta): 70% dei seggi assegnati sulla base di collegi uninominali a doppio turno e 28% con metodo proporzionale su base regionale o pluriprovinciale, più un 2% (corrispondente a 12 seggi) riservato al cosiddetto “diritto di tribuna”. In quello dell’umido, le speranze di chi aveva creduto che i politici avrebbero finalmente avuto un sussulto di dignità e avrebbero restituito al popolo il diritto a scegliersi propri rappresentanti. Invece, non sono stati capaci di licenziare uno straccio di riforma elettorale, nonostante non si sia quasi parlato d’altro per l’intera legislatura.

La paura presa dopo le elezioni in Sicilia aumenterà l’istinto di autoconservazione di una classe politica inadeguata e inetta, che impegnerà le proprie energie per scovare l’espediente capace di sbarrare la strada a Beppe Grillo. Con percentuali di astensione record (Sicilia docet), il Movimento Cinque Stelle ha buone probabilità di fare saltare il banco.

Diffido dei populisti. Non voterei mai un politico che attraversa lo stretto di Messina a nuoto perché mi ricorda quello che lotta con le tigri o l’altro che traccia, alla guida del trattore, il solco che poi la spada dovrà difendere. Oltretutto, un comico a Palazzo Chigi l’abbiamo già avuto e, alla fine, raccontava sempre le stesse barzellette. Ma lor signori farebbero bene a porsi qualche domanda e a considerare che la demonizzazione rischia di essere il migliore alleato di Grillo. Perché chi demonizza non ha alcuna credibilità. Perché potrebbe sì trattarsi di un salto nel buio, ma in tanti pensano che la priorità sia saltare fuori dalla melma della Seconda Repubblica e poi quel che sarà, sarà. Il Titanic affonda, l’orchestra continua a suonare lo stesso spartito e sul ponte è il consueto spettacolo di ladri, privilegiati, nani e ballerine. Grillo ce lo meritiamo.

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Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.

Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.

Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).

La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.

Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

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Lettera a G.

Ti ho visto poco fa: eri su un manifesto, attaccato a un muro. Proprio ieri, a pranzo, si parlava di te, di quanto manca la tua allegria, quel modo unico di stare in compagnia, la conversazione “pirotecnica” (bravu pe’ ’na vita!), la gestualità che era essa stessa parola, il racconto di storie incredibili. O soltanto di una filastrocca in dialetto, una qualsiasi del tuo inesauribile e comicissimo repertorio. Ecco, se c’è una cosa che rimpiango, è di non averti mai detto di “passarmele”, di farmele scrivere e conservare.

Dicono che il modo migliore per ricordare chi non c’è più sia farlo con il sorriso sulle labbra. Magari quello che tu sempre riuscivi a strappare, a chiunque. Come quella volta che, chissà in quali pensieri assorto, dimenticai di servirti il cucchiaio accanto al bicchierino del caffè (ché nella tazza non ti piaceva). Aspettasti un po’, guardandomi in silenzio, dopo di che, senza scomporti minimamente, girasti il caffè con l’indice!

Il bar di mio padre è stato, per me, il dono irripetibile dell’affetto (da bambino) e dell’amicizia (da adulto) dei suoi amici. Privilegio tremendo, con il passare degli anni. Mimmareddu, ma anche Marieddu e Loigeddu: la conosco bene quella voce, per questo mi viene difficile sorridere, ora. Forse un anno è troppo poco. Forse davvero soltanto il tempo riuscirà a riempire un po’ di vuoto.

Potrei raccontare centinaia di aneddoti. Le storie sul periodo che trascorresti in Germania, da giovane emigrato: eins, zwei, drei, quando volevi insegnarmi i numeri in tedesco. L’episodio, inverosimile (ma con te era sempre difficile capire dove finisse il gioco e dove iniziasse la realtà), della foto della tua pancia esposta per due mesi in non so quale museo.

O di quando andavamo a caccia. In realtà, io ero un elemento scenografico, non avendo mai sparato un colpo di fucile né allora, né dopo. Però a dodici, tredici anni era una gara tra fratelli per stabilire a chi toccava alzarsi alle 4.00 l’indomani mattina. La lampadina accesa per fare capire che eravamo pronti, il caffè caldo e poi sulla macchina (la tua golf modello preistorico o la 127 di mio padre). Il freddo, l’attesa, il ritorno, le tipiche pose da cacciatore, il giro in paese per zittire tutti gli spraticuni che si spacciavano per cecchini infallibili.

Ricordi che si accavallano. Quella passata con l’organetto e la tua ospitalità. La sacralità della preparazione delle polpette e quel tuo tratto caratteristico di “imboccare” l’ospite, di dedicare a due come a trenta commensali un’attenzione particolare, una cura di parole e bocconi, il sollievo di ore e ore di spensieratezza. Perché il tempo, con te, di certo non era un’entità assoluta.

Il racconto sulla vita degli animali – “Piero Angela può venire a lezione da me” – e il religioso silenzio con cui seguivi i documentari alla televisione. La descrizione dell’accoppiamento delle api, racconto fantastico di una quarantina di minuti che ci fece ridere fino alle lacrime. L’adorno, che ti piaceva osservare con il cannocchiale “mentre teneva stretto nel becco un insetto”.

Mi è capitato di sognarti, ma mai il sogno o la fantasia possono avvicinarsi alla realtà di quella volta che mi portasti nel tuo orto per farmi raccogliere una busta di mandarini. “Li devi assaggiare”, mi avevi detto. Ci andammo subito dopo pranzo. Venne a recuperarmi mio padre a notte fonda, dopo non so quanti litri di vino, soppressate e formaggio consumati con il pan biscotto, io, tu e un amico passato per caso da lì e prontamente da te sequestrato. Che poi – si sa com’è quando si sta in compagnia – i mandarini non facemmo in tempo neanche a raccoglierli.

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Chi cerca, (non sempre) trova

Sono stato di recente alla biblioteca comunale di Polistena. Fornitissima, in possesso di volumi dei quali neanche la biblioteca nazionale di Firenze è dotata. Un’eccellenza? La classica mosca bianca nel panorama desolante dei servizi culturali offerti a queste latitudini? Avremmo voluto che fosse così. Le condizioni ci sarebbero. E però.
C’è sempre un però nelle vicende concernenti quel che di buono la nostra terra potrebbe offrire. Un “però” che ho scoperto un paio di settimane fa, al momento della richiesta per la consultazione di due testi che l’OPAC (On-line Public Access Catalogue) indica in possesso della sola biblioteca di Polistena.

L’impatto è surreale. Si entra nei locali della biblioteca e la prima sensazione è di smarrimento. “Staranno effettuando un trasloco”, la mia prima considerazione. Dappertutto, scatoloni pieni di libri e oggetti del museo civico di Polistena, provvisoriamente sistemato nelle stanze della biblioteca (statue, mobili, reperti vari). Sommersa, la postazione dell’impiegata comunale: gentilissima e garbata, visibilmente dispiaciuta per la condizione in cui si trova ad operare.

Abbiamo cercato, insieme, i libri. Invano. Come cercare un ago in un pagliaio. Scaffali sovraffollati, oltre ogni logica. Due, tre file di libri accatastati, dei quali diventa difficile leggere il titolo, se non dopo averli tirati tutti fuori dalla loro sede. Libri per terra, fuori e dentro scatoloni pieni zeppi, privi di un numero di inventario o di una qualsiasi collocazione. Ricerca vana, dunque.
Non mi è rimasto altro da fare che lasciare il mio recapito telefonico, per cui sarò avvisato se e quando i due volumi saranno rintracciati.

Da quel che ho capito, biblioteca e museo civico dovrebbero essere trasferiti nel Palazzo Sigillò, appena (quando?) termineranno i lavori di restauro e la struttura diventerà il “Palazzo della Cultura” di Polistena. Fatto sta che, nell’attuale condizione, la biblioteca non ha alcuna utilità poiché un patrimonio librario (circa 60.000 volumi, con un’eccellente sezione “Calabria”) ed emerotecario equiparabile, per certi versi, a quello della biblioteca “Pietro De Nava” di Reggio o alla “Domenico Topa” di Palmi, nel “buco” in cui si trova non è di fatto fruibile. Un vero peccato.

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L’alba di un nuovo giorno

“Vogliamo che Reggio Calabria possa trovare la serenità e possa riprendere il suo cammino. Saremo molto vicini alla città di Reggio Calabria: come governo abbiamo deciso di mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari e possibili per fare risorgere questa città, per dare a questa città delle risorse importanti, compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione. Questo è un atto di rispetto per Reggio Calabria”.

[Anna Maria Cancellieri – ministro dell’Interno]

Non c’è da gioire.
Lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria per “contiguità” con la ’ndrangheta è una ferita lacerante, che brucia nelle carni delle istituzioni e della società civile. Un primato non certo invidiabile (non era mai successo per un comune capoluogo di provincia), “addolcito” dalla presentazione come atto preventivo, non sanzionatorio, e dal riferimento alla brevissima esperienza di Arena, con esclusione dell’era Scopelliti. Dura da digerire, in ogni caso. Sul piano politico, appare arduo trovare punti di discontinuità in quel “modello Reggio” che ha scandito l’ultimo decennio a Palazzo San Giorgio.

Non c’è da disperarsi.
Il provvedimento governativo non è il frutto delle invenzioni giornalistiche dei “nemici di Reggio”. Il complotto non esiste. Esistono le 250 pagine di relazione della commissione d’accesso; esistono le 3.000 pagine di allegati. Lo scioglimento è stato deciso dopo una lettura attenta di questo corposo materiale, non sulla base di una presunta ostilità del governo centrale nei confronti di Reggio.
Un marchio indelebile, quindi, ma anche l’opportunità, per tutti, di ripartire con umiltà, serietà, trasparenza.

Né gioia, né disperazione.
Ma l’alba di un nuovo giorno. E diciotto mesi per fare chiarezza e stabilire, una volta per tutte, chi possa realmente essere considerato “nemico” e chi “amico”. Nei fatti, non con gli slogan.

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Gianluca e Camilla

Come si fa a non perdonare uno che chiede scusa davanti a tutta Roma?

Già sono tempi abbastanza tristi, per tirare su il morale serve qualche bel lieto fine, un “e tutti vissero felici e contenti”, come in quei film strappalacrime in cui tutto si risolve nell’ultima scena, con lui (o lei) che riappare quando ormai sono finiti anche i fazzolettini, la sala è tutto un singhiozzare e tutti pregano che non si riaccendano le luci per non fare vedere occhi arrossati oltre ogni umana possibilità.

Forza Gianluca.

Forza Camilla.

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