Nessuno è profeta in patria: Nino Zucco

Confesso che fino a un paio d’anni fa non sapevo chi fosse Nino Zucco (Sant’Eufemia, 1910 – Roma, 1987). Nessuno me ne aveva parlato e trovare i suoi libri è lavoro da segugi. Nella biblioteca comunale, aperta al pubblico da non più di dieci anni, credo se ne trovi uno solo: per gli altri, occorre rivolgersi altrove (Palmi, Polistena).

Trasferitosi a Genova a diciassette anni, Zucco lavorò come ebanista in una fabbrica di mobili e studiò da autodidatta. Dopo il servizio militare fece ritorno in Calabria, quindi ripartì alla volta di Roma, dove conseguì gli studi classici ed entrò in contatto con i massimi esponenti della cultura calabrese nella capitale: Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Raul Maria De Angelis. Frequentò lo studio dello scultore Alessandro Monteleone e quello dello scultore e filosofo Michele Guerrisi, che commemorò in uno scritto del 1977 (Michele Guerrisi. Scultore, pittore e filosofo). Incontri (1978) è invece il quadro nitido del fermento culturale al quale Zucco partecipò e contiene i “ritratti” di importanti personalità calabresi, italiane e straniere conosciute a Roma: Leonard Bernstein, Salvator Dalì, Francesco Perri, Antonio Piromalli, Leopoldo Trieste, John Steinbeck e Domenico Rea, giusto per fare qualche nome. L’incontro più importante della vita di Zucco fu però quello con Francesco Cilea, che ritrasse al pianoforte in un celebre dipinto e del cui volto realizzò il calco in cera sul letto di morte (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, l’affettuoso e devoto ricordo edito nel 1981).

Zucco fu artista e intellettuale eclettico: giornalista, scrittore, pittore, scultore. Docente in diversi licei artistici (tra i quali il “Mattia Preti” di Reggio Calabria), ricoprì anche la cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti reggina. Realizzò bassorilievi in bronzo per la chiesa di San Sperato a Reggio Calabria e per il cimitero di Francavilla Marittima. Fu corrispondente per la “Gazzetta di Messina” e collaboratore per “La Voce di Calabria”, “Il Progresso Italo-Americano”, “Giustizia”, “Tribuna del Mezzogiorno”, “Airone”, “Auditorium”, “Nosside”, “Nuova Calabria”. Partecipò a importanti mostre: la “VII Quadriennale nazionale romana d’arte”, “L’arte nel Mezzogiorno d’Italia”, il premio nazionale di pittura “Marzotto”, la “Mostra d’Oltremare” di Napoli, il premio nazionale di pittura “Villa San Giovanni” e tante altre rassegne nazionali e internazionali. Il critico Arrigo Benedetti definì il suo libro di racconti Fuoco a Diambra (1956) “un tipico e genuino esempio di narrativa moderna”, mentre Domenico Zappone, recensendo I racconti di Mistra (1977), considerò: “c’è materia per un affresco grandioso degno di un grandissimo artista”.

Il centenario della nascita di Zucco era stato ricordato dall’associazione culturale “Le Muse” di Reggio Calabria (presieduta dal professore e critico d’arte Giuseppe Livoti) con il convegno Nel centenario della nascita: Nino Zucco, una vita per l’arte. E proprio oggi (ore 17), presso la Sala del consiglio comunale di Palmi, il figlio Antonello Zucco consegnerà ufficialmente al sindaco Giovanni Barone 18 opere del padre (taccuini, oggetti personali, acquarelli, grafiche, sculture), nell’ambito delle iniziative culturali organizzate dalla stessa associazione reggina per il 2012-2013.

A Sant’Eufemia, invece, non è mai stato fatto nulla. Mette tristezza constatare che il paese d’origine di una personalità così significativa nel panorama culturale nazionale non abbia pensato di perpetuarne il ricordo, anche soltanto conservandone i libri nella biblioteca comunale e affiggendo (almeno) una targa commemorativa in via Mistra, presso la fontana di Diambra o al Muraglio (Il Muraglio. Cronaca di ieri è il titolo del romanzo pubblicato nel 1983), i luoghi della memoria che hanno ispirato la produzione artistica di Zucco.

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Arriva la consulta

L’istituzione della consulta comunale era uno dei punti qualificanti del programma della lista “Leali al Paese”, tanto che più volte nel corso della campagna elettorale l’attuale sindaco Domenico Creazzo l’aveva collocata tra le prime cose da fare, una volta vinte le elezioni. Un segnale di discontinuità – si disse allora – nel rapporto tra cittadini e politica, per dare all’amministrazione comunale un profilo più inclusivo e dinamico. Un tentativo di innovare facendo ricorso agli strumenti della democrazia partecipata per migliorare la qualità dell’interlocuzione e del confronto dialettico tra amministratori, singolo individuo e collettività. Ma anche un’esigenza “pratica”, utile per rimediare agli effetti negativi causati dal ridimensionamento degli enti locali sotto il profilo della rappresentatività, dopo le sforbiciate del governo centrale che di fatto hanno scaricato nel lavandino bambino (valore della rappresentanza) e acqua sporca (costi della politica), innescando legittime perplessità sulla bontà di un’operazione che, nel nostro comune, ha trasformato in un circolo esclusivo il consiglio comunale (da sedici a sette membri, più il sindaco).

La ratio dell’approvazione del regolamento che istituisce la consulta è tutta nell’esigenza politica e sociale di un coinvolgimento attivo della cittadinanza nella gestione della cosa pubblica. La consulta dovrebbe istituire un filo diretto tra la comunità e l’amministrazione e fungere da cinghia di trasmissione per fare pervenire le istanze e i bisogni dei cittadini dalla società al livello politico. Ascolto, sintesi e azione le tre fasi di un percorso improntato sul metodo del confronto dialettico e democratico.

In dieci punti vengono illustrati i settori di intervento (oggetto): giovani, cultura, pari opportunità e terza età; le finalità: raccordo tra cittadinanza e istituzione pubblica, promozione dello sviluppo culturale e del pluralismo; le competenze: partecipazione propositiva e consultiva (pareri e proposte sulle tematiche in oggetto); la composizione e il funzionamento: un minimo di quindici componenti, tra i quali si dovranno eleggere otto membri del direttivo (compresi il presidente, il vicepresidente e il segretario).

A questi buoni propositi aggiungerei l’auspicio che a presiedere la consulta sia una donna, vista l’assenza del genere femminile dal consiglio comunale. Senza dimenticare che, affinché il passaggio dalle intenzioni alla realizzazione pratica dia esito positivo, occorreranno due condizioni: la partecipazione dei cittadini e una buona propensione all’ascolto da parte dell’amministrazione comunale. Altrimenti sarà il deja vu di dieci anni fa, quando l’istituzione della consulta giovanile realizzata dalla lista “Colomba” si risolse in un paio di incontri inconcludenti. Un’occasione persa e niente più.

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Il pezzettino dell’Agape

Tempo fa mi è stata rivolta una domanda a bruciapelo: “è vero che l’Agape sta per morire?”. A me risultava che l’associazione stesse organizzando alcune iniziative per Natale, poi effettivamente realizzate. La domanda tocca però un nervo scoperto, quello delle difficoltà comuni a gran parte delle associazioni a Sant’Eufemia. Problemi di natura economica, con i costi per il mantenimento di una sede che sono ormai diventati insostenibili e che hanno costretto l’Agape a una scelta sofferta ma saggia: niente più sede “fissa”, almeno per il momento, e impiego delle entrate per lo svolgimento delle proprie attività. Ma anche la “crisi delle vocazioni” (all’Agape come al Terzo Millennio, alla Pro-Loco o a qualsiasi altra associazione) che obbliga sempre i soliti a tirare la carretta da anni o decenni perché il ricambio generazionale è pressoché inesistente, sostanzialmente fermo al “boom” registratosi all’inizio del nuovo millennio.
Un fenomeno molto frequente è infatti l’avvicinamento dei giovani all’associazionismo negli anni del liceo, mentre il passaggio all’università ne determina il distacco. Nuovi interessi, maggiori impegni, trasferimento nelle città delle sedi universitarie: a farne le spese è soprattutto il paese, sempre più povero di energie, intelligenze, freschezza e sempre più vecchio, abulico, prevedibile, immutabile. Ecco perché tutte le associazioni eufemiesi sono un patrimonio da salvaguardare. I segnali di vita della comunità provengono in massima parte da quegli ambienti.

Si fa quel che si può, con le forze che si hanno a disposizione. Nel 2012 l’Agape ha dovuto rinunciare alla tradizionale colonia estiva in favore dei disabili, ma tre matrimoni concentrati nel periodo in cui veniva solitamente svolta significano dodici braccia in meno e difficoltà organizzative insormontabili. All’attivo ci sono i progetti realizzati con l’amministrazione comunale per le aree “anziani”, “disabili” e “minori”, che saranno replicati anche nel 2013 per le aree “anziani” (assistenza domiciliare) e “disabili” (attività di affiancamento agli insegnanti di sostegno nelle scuole), e la collaborazione (confermata anche per l’anno scolastico in corso) con il liceo scientifico “Enrico Fermi” per la partecipazione al concorso “Scatti di valore”, ideato dal Centro servizi al volontariato dei Due Mari di Reggio Calabria per promuovere nelle scuole secondarie di secondo grado i valori del volontariato mediante una serie di attività (laboratori, esperienze di cittadinanza attiva, concorso fotografico “Scatti di valore. Sguardi sui valori del volontariato”). Accanto a queste attività e ai banchetti allestiti per la raccolta di fondi (l’azalea della ricerca per sostenere l’Airc nella lotta contro il cancro, in occasione della festa della mamma; i “kiwi for Kiwanis” per quella contro il tetano materno e del neonato), l’annuale pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, l’organizzazione della “giornata del malato” e le iniziative di solidarietà a Pasqua e a Natale: le visite domiciliari agli anziani, il veglione e la tombolata di solidarietà, la tombolata presso la Residenza sanitaria assistenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.

Ovviamente si potrebbe fare di più e si potrebbe fare di meglio. Su questo non ci sono dubbi. Ma l’importante è fare qualcosa. Teresa Sarti Strada, cofondatrice di Emergency, soleva ripetere che “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”. È questo il senso di tante vite, di tante belle storie.

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Mangino brioches

Ho letto il servizio del CORRIERE DELLA CALABRIA su quella porcata nauseabonda commessa da alcuni consiglieri regionali, l’approvazione del taglio del trattamento di fine mandato, strombazzato come il segnale inequivocabile di un nuovo modo di fare politica che non vuole privilegi, sta vicino alla gente che soffre e bla bla bla…
Non lo so se i nostri poco onorevoli rappresentanti, impegnati tra Natale e la Befana in simili toccanti esternazioni, siano poi corsi a nascondersi. Conoscendoli un po’, non credo. Dovrebbero però farlo, dopo l’articolo di Pablo Petrasso, il quale ha smascherato l’ennesimo colpo gobbo della casta, con tanto di corsa per ottenere la liquidazione dell’80% del tfm (poverelli, non era consentito richiedere tutto il “cucuzzaro”) prima che la nuova legge entrasse in vigore.

Una schifezza.

Ma questi dove vivono? Fino a quando pensano di potere continuare così senza che nessuno cominci ad andare a prenderli casa per casa? No alla violenza, per carità, ma nessuno può pensare che, stringi stringi, alla fine non si vada a finire là se non si cambia registro. Il disperato che non ha niente da perdere c’è sempre. Credo che i politici facciano male a sottovalutare la situazione. Soprattutto fanno male a continuare a prendere per i fondelli la gente con operazioni di facciata che non fanno altro che aumentare nella società la rabbia, l’indignazione e la nausea.

Forse davvero dal chiuso delle loro stanze dorate non hanno percezione dei drammi familiari che si verificano fuori per la mancanza di lavoro e per le tasche sempre più vuote. Sembrano tutti Maria Antonietta sorda alle lamentele di chi le faceva notare che il popolo moriva di fame: “Se non hanno il pane, che mangino brioches!”.

I nomi di questi galantuomini andrebbero scolpiti all’ingresso di ogni comune, perché oggi tutti sappiano e a futura memoria, se mai un giorno la politica si risolleverà, come esempio del fondo toccato in questo inizio di millennio dall’attuale classe dirigente.

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Buon 2013

Felice anno a vecchi e nuovi compagni di viaggio, a chi ho perso e a chi ho trovato, a chi ancora sogna, spera e lotta, a chi non si arrende, a chi ce la mette tutta, a chi non pensa che la vita sia una competizione in cui ci sono vincitori e sconfitti, a chi dà senza pretendere, a chi sa rispettare quel che sei e non quello che vorrebbe che tu fossi, a chi sa amare, a chi non ha capito e anche se ha capito preferisce morire d’orgoglio. Buon anno a tutti, nonostante tutto.

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Blocco 52

Il cadavere di Utopia riposa dietro una lapide del “blocco 52” del cimitero di Catanzaro, sipario della vicenda umana e politica del comunista Luigi Silipo che Lou Palanca ha recuperato negli anfratti della storia, soffiando sulla polvere accumulatasi in quasi cinquant’anni di oblio. Lo pseudonimo dell’autore collettivo (ispirato a Massimo “O Rey” Palanca, idolo giallorosso specialista del gol su calcio d’angolo negli anni Settanta-Ottanta) si rifà all’esperienza avviata negli anni Novanta in Italia da Luther Blissett e proseguita da Wu Ming, culminata con l’esperienza del New Italian Epic, genere di romanzo che mescola realtà storica e finzione letteraria.
Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta, edito da Rubbettino e scritto a dieci mani (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Danilo Colabraro), si snoda su più piani e offre diverse chiavi di lettura. Personaggi reali, chiamati per nome e cognome, che incastrano le proprie esistenze con la trama del romanzo (“un delitto che dalla Calabria degli anni Sessanta arriva fino a Praga”), fotografie in bianco e nero di vicende da narrare perché, “se non c’è nessuno che fa memoria, è come se le storie non fossero mai esistite”.
L’assassinio dell’eretico Luigi Silipo (1 aprile 1965), dirigente di primo piano del partito comunista in Calabria che vede progressivamente incrinarsi le certezze granitiche sulla bontà del centralismo democratico e sulla prassi del comunismo internazionale, da “omicidio impunito, dimenticato o da dimenticare” assurge a metafora del bilancio amaro di una stagione politica e di una generazione costretta a tapparsi le orecchie per non sentire “il rumore che fanno i sogni che abortiscono”.

Il passato ha l’odore dell’aria ammorbata dal fumo delle sigarette nelle sezioni di partito e nelle sale cinematografiche, il colore delle palline usate come tappo per le bottigliette della gazzosa, le inquadrature della cinepresa di Pasolini in “Comizi d’amore”, la lezione sempre attuale di don Milani, le canzoni di una generazione che avrebbe voluto scalare il cielo e sognava di portare la fantasia al potere. Blocco 52 è la Catanzaro dei “bassi” invivibili e della speculazione edilizia, delle carte di Piazza Fontana incredibilmente sepolte in uno scantinato; è la Reggio degli anni Settanta, la controcultura e le bombe, l’intreccio inquietante di fascismo, ’ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Ma è anche la crisi materiale e morale della società attuale, sulla quale si posa lo sguardo ora amaro, ora ironico, di Vincenzo Dattilo, alter ego del “pendolare fisso” Fabio Cuzzola, dal quale prende in prestito anche il blog Terra è libertà.

Storia grande e piccole storie si intrecciano e si tengono assieme, seguendo il filo conduttore di un omicidio i cui possibili moventi (politico, passionale, affaristico-criminale) conducono a una lapide spoglia, abbandonata e dimenticata da tutti. Sullo sfondo, una serie di “vinti” (Nina, che mantiene i contatti con i futuri protagonisti della Primavera di Praga; Maria Grazia, che perde la verginità sotto lo sguardo corrucciato di Marx, Engels e Lenin; Caterina, vittima rassegnata di una società patriarcale) e il più “vinto” di tutti: Gavino Piras, funzionario del partito comunista mandato da Roma per gestire, all’indomani della morte del “Migliore”, lo scontro tra amendoliani e ingraiani e che sull’altare dell’ideale politico sacrifica amore e felicità personale.

La rivoluzione soffoca in tasca, come i pugni del celebre film di Marco Bellocchio, ed è amara consolazione rifugiarsi nell’illusione “che il cielo sia così vicino che lo puoi toccare con un dito”, parallelismo irriverente tra l’utopia comunista e l’esistenza della prostituta Assunta. Impegno politico e ricerca della verità si rivelano una battaglia persa, “ma le battaglie perse – ci ricorda Dattilo – sono le uniche che vanno combattute. O, perlomeno, le uniche che meritano il bacio sulle labbra che le trasforma in un libro”.

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Un tuffo nel passato, uno sguardo sul futuro

Torno sempre con gioia al liceo scientifico “Enrico Fermi”, che a distanza di venti anni continuo a considerare un po’ casa mia. Un luogo dello spirito che racchiude ciò che ero e quel che sono diventato anche grazie ai cinque anni trascorsi tra quelle mura. E poco conta se, all’epoca, l’unico istituto superiore del nostro comune non fosse ospitato negli attuali locali. Non si è mai palpitato per un vestito. Per l’anima che vi sta dentro, sempre.

Non ho trovato i miei vecchi professori; “don” Rocco ci ha lasciati ormai da diversi anni, “don” Nino e la “signora” (mai conosciuto il suo vero nome) credo si siano pensionati. Eppure sento quell’aria e la riconosco. Odore di gioventù, di sogni e di speranze, di banchi incisi col coltellino, di scherzi terrificanti, di sicurezza ostentata per nascondere paure inconfessabili, di storie d’amore che sembravano eterne, di ansia per l’approssimarsi dell’interrogazione o del compito in classe, di entusiasmo e di noia, di frasi “storiche” riportate sul diario, di allegria per un niente e di pianti per lo stesso niente che agli occhi di un adolescente spesso diventa (ed è) tutto.
Inutile dire che ho apprezzato le parole usate nei miei confronti dal professore Pietro Violi e dalla professoressa Carmela Cutrì. E va da sé che mi ha fatto molto piacere parlare davanti a tanti giovani dei miei libri e di questo blog. Mi hanno emozionato gli interventi di Gresy e di Maria Grazia, la freschezza sui visi dei ragazzi e delle ragazze del mio paese. Sono i volti di chi ha il dovere di sognare e dare una nuova speranza ai sognatori che fummo, quand’era giusto sognare perché, come per il viaggio, non è tanto la meta ciò che realmente conta, ma il viaggio stesso, il tragitto che si compie per giungere (forse) a destinazione. La ricchezza dell’uomo è il suo eterno interrogare la realtà che lo circonda e se stesso, alla ricerca di qualcosa che talvolta non si riesce a definire e che invece, semplicemente, è vita.

Ho incontrato la Sant’Eufemia di domani e, per me, è stato il più bel regalo di Natale. Non tutto è nero, non tutto è perso.

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Titoli di coda

Se non è schizofrenia questa, non si capisce bene cosa mai possa essere. Un disperato tentativo di alzare la voce, ora che nessuno più l’ascolta (esclusi, ovviamente, amazzoni e beneficiati non privi del senso della riconoscenza)?

Eravamo da tempo abituati ai giornalisti che “travisano” il pensiero di Berlusconi: “ho detto esattamente il contrario”, difatti, il refrain più ripetuto dal leader pidiellino negli ultimi diciotto anni. Con conseguente profluvio di smentite, precisazioni, attacchi alla stampa infeudata al Cremlino. Ora però siamo al “fregolismo” spinto: la smentita pomeridiana di ciò che si era dichiarato la mattina, con la velocità dei cambi di costume del celebre trasformista romano. Solo nel teatro dell’assurdo accade che un leader di partito tolga la fiducia al governo, condannandone in toto l’operato, per poi offrire al capo di quello stesso governo la leadership del proprio schieramento politico.

Il pensiero corre, inevitabilmente, ai sostenitori dell’ex re Mida del centrodestra, costretti a rincorrere il capo e assecondarne l’umore ballerino. Ma anche alla frustrazione di “formattatori” e sostenitori delle primarie nel Pdl, passati dalle lusinghe all’irrilevanza. Se nessuna meraviglia può nascere dal riscontrare il rapidissimo allineamento dei cortigiani ai desiderata arcoriani, qualche perplessità sorge nel constatare la mancanza di spina dorsale in chi pure autonomia va cercando.

Forse che i tempi non siano già maturi per emanciparsi da un abbraccio che rischia di trascinare tutti a fondo? O è solo tatticismo, guadagnare tempo e “vedere le carte” di chi, al centro, ha ancora parecchi nodi da sciogliere? L’unico dato certo è che, ora come sempre a partire dal 1994, tutto ruota attorno a Berlusconi, che appunto per questo vorrebbe indire l’ennesimo referendum sulla propria persona. Perché, checché se ne dica, dalla sua discesa in campo non c’è stata consultazione elettorale che non sia stato un plebiscito pro o contro il cavaliere. È in questo avvitamento l’anomalia di un sistema politico incapace di fare dell’Italia un paese normale.

Berlusconi sa che se passa la mano è l’8 settembre. Un fuggi-fuggi generale che già s’intuisce dal fermento dei moderati “montiani” e degli ex aennini. D’altro canto, il cerchio attorno al bunker si stringe di giorno in giorno. La reazione europea di fronte alle ultime uscite è al limite dell’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, ma è anche il sipario che si chiude su di una vicenda politica ormai al tramonto.

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Sete di verità

C’è una bimba di neanche cinque anni che non rivedrà più la mamma. C’è un bimbo, nato appena due settimane fa, che quella mamma non la conoscerà mai. C’è un marito, ci sono genitori e ci sono fratelli accomunati da un unico, grande, inspiegabile dolore. C’è una comunità scossa, perché in un piccolo paese tutti conoscono tutti, direttamente o indirettamente.
C’era Patrizia Pillari, 29 anni soltanto e una vita davanti, due figli da accudire, un marito da amare. C’è invece una famiglia distrutta e le macerie di una felicità che purtroppo non è mai per sempre. E poi c’è la sensazione, terribile, che le cose non siano andate per il verso giusto e che la fatalità non sia argomento sufficiente a spiegare l’immane tragedia. Se così fosse, ci sarebbero responsabilità da accertare e sanzionare. Non perché sia possibile lenire un dolore talmente grande, ma perché non accada più che una ragazza, portata d’urgenza in ospedale dodici giorni dopo il parto, venga rispedita a casa nonostante i sintomi evidenti di problemi di circolazione, tra l’altro noti al personale medico che ne aveva seguito la gestazione.
La “Gazzetta del Sud” di oggi ha dato notizia della denuncia presentata ai carabinieri dal marito Vincenzo Oliveri e del trasporto della salma di Patrizia in ospedale, all’indomani del funerale, per lo svolgimento dell’esame autoptico.
Mai come in questo caso occorre essere cauti e attendere che la giustizia faccia il suo corso, mettendo da parte l’emotività e i tanti cattivi retropensieri. Sull’errore umano e sull’angoscia che assale noi cittadini di serie B anche quando andiamo in ospedale per un banale controllo di routine.

Senza volere anticipare alcunché, né aggiungere niente a quanto è ampiamente riscontrabile sullo stato della sanità in Calabria e in provincia di Reggio, non si possono nascondere la rabbia e lo sconcerto per il dramma di un settore che assorbe la maggior parte delle risorse finanziarie regionali e presenta standard qualitativi da terzo mondo. Non ci fidiamo dei nostri medici, né delle nostre strutture sanitarie. E non parlatemi del dramma degli ospedali costretti a chiudere. Dispiace, ovviamente, per chi ci lavora e ha una famiglia da mandare avanti. Ma sinceramente chi, avendone la possibilità, in presenza di una patologia seria si è mai fatto ricoverare in uno dei tanti ospedali della Piana e non ha invece preso il primo aereo o treno per il Nord, protagonista dei tristemente noti “viaggi della speranza”?

Sono troppi i casi di malasanità denunciati e ancor di più sono quelli non segnalati. E invece va denunciato tutto, non soltanto a tragedia compiuta. Basta con il malinteso senso di rispetto che fa apparire favore l’esercizio di un sacrosanto diritto.
Chi sbaglia deve pagare. Chi sbaglia, in ospedale non ci deve mai più mettere piede.

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Sullo svincolo autostradale

Non trovo superfluo ribadire che nessun eufemiese preoccupato per le sorti del paese non può che sostenere una battaglia giusta, negli obiettivi e nei metodi, chiunque se ne faccia promotore. Questo è il punto di partenza attorno al quale deve muovere ogni altro genere di discussione. Tutti vogliamo (vorremmo) lo svincolo, su questo non si discute. Anche se la sensazione che abbia ragione Mimmo Rositano e che i giochi siano stati fatti da diverso tempo è in realtà molto forte. Bisogna comunque tentare, per non rassegnarsi a un futuro di isolamento. Non è detto che ci si riesca, ma ciò non costituisce un motivo valido per rinunciare a priori alla rivendicazione di un principio sacrosanto: lo sviluppo delle infrastrutture deve essere funzionale alla crescita di un territorio, non alla condanna a morte delle sue attività produttive e alla marginalità sociale della comunità locale.

Nelle ultime settimane, il Comitato per il mantenimento dello svincolo e le amministrazioni comunali coinvolte hanno messo in campo diverse iniziative, a volte in sinergia, altre andando in ordine sparso. Non trovo scandaloso questo approccio. E non perché io sia particolarmente persuaso della bontà della strategia del generale prussiano von Moltke (“marciare divisi e colpire uniti”), uno che comunque di battaglie se ne intendeva. Non lo trovo scandaloso perché a volte ci sono scogli caratteriali difficili da superare. L’importante è che ci sia unità di intenti, che l’obiettivo finale sia per tutti identico. Fino a prova contraria, è bene fidarsi delle persone, soprattutto di quelle che con generosità si stanno spendendo per la causa.

È questa esigenza di remare tutti nella stessa direzione che a volte non emerge con chiarezza, specialmente sulle pagine dei giornali, tra le righe di resoconti che sembrano contraddire e smentire altri articoli.

Dispettucci, normale dialettica politica, legittime ambizioni personali, medaglie da appuntarsi. Qualsiasi definizione può andare bene. E ci sta che sia così. Però c’è una bella differenza tra la “soluzione alternativa”, che non contempla (evidentemente) il mantenimento del vecchio svincolo e il “ripristino delle condizioni originarie”, con il conseguente abbattimento delle gallerie artificiali fatte costruire nel nuovo tracciato. Comunque sia, al netto di qualche colpo basso, la priorità attuale è arrivare ad una soluzione che riduca al minimo i disagi alle popolazioni locali, con il rifacimento del vecchio svincolo o con la “valida” alternativa promessa entro il 15 dicembre.

A margine, una mia personalissima osservazione. Non conosco il personaggio, né è mia intenzione difenderne l’operato. Però mi sembra che il presidente dell’Anas Pietro Ciucci sia diventato una sorta di parafulmine, il bersaglio contro il quale scagliare ogni sorta di anatema, anche al di là delle sue effettive responsabilità. Che sono quelle di un tecnico che risponde alla politica. Per dirla in maniera cruda, più che prendere decisioni, Ciucci è uno che esegue ordini.

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