Farewell, Vinny

Da sinistra: Ninello Parisi, Enzo Fedele,
Luis Forgione e Enzo Condina

A metà degli anni Ottanta le ginocchia dei ragazzi più grandi di cinque-dieci anni sono state, per me e per i miei fratelli, un posto in prima fila. Da quella prospettiva abbiamo visto scorrere molta vita dentro al bar Mario. Gambe di giovani che poi hanno preso il volo, volti familiari trasformati dallo scorrere inesorabile delle stagioni. Alcuni mai più rivisti, se non nel ricordo di un tempo “mitico”.
Così è per Enzo Condina, divorato dal cancro in faccia all’Atlantico qualche giorno fa, a neanche 46 anni.

Flash-back improvvisi restituiscono la smania di crescere di Enzo “u mericanu” (o “Loredana”), figlio unico di genitori anziani. Un’educazione quasi spartana che prevedeva, tutti i giorni, un’ora di solfeggio con il flauto dalle 15 alle 16. Per la gioia dei suoi coetanei, “costretti” ad assistere alla performance seduti sul divano, se passavano da casa sua con l’intenzione di trascinarlo in qualche scorribanda.
Un’ansia repressa quando, all’inizio sotto stretta osservazione del padre, cominciò a dare i primi colpi di stecca. Trattenuta sempre più a fatica se Ninuzzu “u micuneddu” gli faceva notare che era ora di fare ritorno a casa, subito dopo avere consultato sul giornale la quotazione del dollaro. Addio “bazzica”, addio “italiana”. Certo, quando marinava il liceo insieme a qualche compagno poteva stare tranquillo: la sala biliardi diventava il paradiso terreno.

Crescere ed essere uguale agli altri ragazzi. La morte del padre fu un evento devastante, perché gli procurò una libertà mai avuta prima e la sensazione di essere finalmente padrone della propria vita. Via il “caschetto” da collegiale, sostituito da una più matura “mascagna”. Via anche un po’ di vecchi amici. E telefonate della madre a casa di Mario nel cuore della notte, per sapere che fine avesse fatto il figlio a saracinesca del bar abbassata.
Tornare in America, ecco cosa bisognava fare. E così fu. Altro giro, altra puntata per “Vinny”. Come nei tanti casinò di Atlantic City (New Jersey), dove entrò da orchestrale (si era diplomato al Conservatorio di Reggio Calabria e, oltre al flauto, suonava pure il pianoforte) e che continuò a frequentare da giocatore professionista di poker.

Enzo e Louisa nel giorno del matrimonio
(fotografia fornita da Marcello Ragonese)

Il matrimonio con Louisa Governali e notizie sempre più frammentarie da un quarto di secolo, fino a quella scioccante di qualche mese fa: “Enzo u mericanu ha un tumore: gli resta poco da vivere”.
Ogni volta che qualcuno ci lascia, è un pezzo di noi che va via. Anche se sono state meteore che hanno tracciato il nostro cielo per poco tempo.
Perché la vita è così. Ci si perde. Ognuno imbocca una strada e chissà dove porterà. Ci ricordiamo della vita, delle vite, quando irrompe la morte. È come fare l’appello a scuola, ma ogni nome è un volto in meno, l’aula sempre più vuota.

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Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

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Buon compleanno, vecchio cuore amaranto

Non sono mai stato un ultra. Per indole: non riuscirei mai a ripetere ciò che altri urlano dentro un megafono. E ho sempre pensato che dietro il cosiddetto “orgoglio ultra”, spesso, ci sia in realtà poco di cui essere orgogliosi.

Comprendo però perfettamente che il calcio è un formidabile generatore di entusiasmo, passioni, felicità. Anche quando i problemi della vita inducono allo sconforto, un gol della squadra del cuore può cambiare il colore di una giornata.

La Reggina oggi compie cento anni e con lei idealmente festeggiano tutti i suoi tifosi, nonostante, in questo delicato momento della sua storia, tristezza per il baratro che si intravede e nostalgia per i tempi che furono la fanno da padrone.

Ormai è diventato uno sport nazionale sparare sul presidente Lillo Foti. Che ha le sue responsabilità, certo. Ma la cui figura, con tanto di sigaro, si staglia altissima nei primi cento anni della storia della Reggina. Da un punto di vista sportivo, per il miracolo della serie A e per quelle nove stagioni che hanno tenuto i riflettori della stampa sportiva nazionale costantemente accesi sul “Granillo”. Sotto il profilo sociale, per avere contribuito a risollevare il morale di una città prostrata dai terribili anni della seconda guerra di ’ndrangheta, offrendole una possibilità di riscatto e un elemento di fiducia. Questo non bisognerebbe mai dimenticarlo.

Neanche oggi che si è passati dal sogno all’incubo.

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Emergency: venti anni in prima linea

Sono orgoglioso di essere socio, da diversi anni ormai, dell’associazione umanitaria fondata nel 1994 da Gino Strada e dalla moglie, la compianta Teresa Sarti. Di quest’ultima amo sempre ripetere una frase bellissima, una sorta di regola morale alla quale, nel mio piccolo, cerco di ispirarmi: “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.

Emergency è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà.
Emergency promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani.
L’impegno umanitario di Emergency è possibile grazie al contributo di migliaia di volontari e di sostenitori.
Dalla sua nascita a oggi, Emergency ha curato oltre 5 milioni e mezzo di persone in 16 Paesi
.
(dal sito: www.emergency.it)

Nella prefazione a Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (Feltrinelli, 1999), Moni Ovadia sostiene che “i tempi delle palingenesi rivoluzionarie assolute e totalizzanti sono finiti, ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati: uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada”.
Strada è un chirurgo di guerra che “arriva quando tutti scappano, e mette in piedi ospedali di fortuna, spesso senza l’attrezzatura e le medicine necessarie, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori, bambini e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi. I vecchi afgani li chiamano Pappagalli verdi” (dalla quarta di copertina).


Ogni tanto qualcuno mi domanda cosa sia quel piccolo pezzo di stoffa bianco annodato allo specchietto retrovisore della mia auto. Sta là dal 2002, da quando Emergency invitò i cittadini ad esprimere la contrarietà all’ingresso dell’Italia nella guerra contro l’Iraq attaccando un pezzo di stoffa bianco alla porta di casa, al balcone, al guinzaglio del cane, all’antenna della macchina o altrove.

D’altronde, l’articolo 11 della Costituzione non ammette equivoci: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Buon compleanno e lunga vita ad Emergency!

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Buon anno

Buon anno

a chi non ci sperava

a chi ne era convinto

a chi guarda il bicchiere mezzo pieno

lo svuota

e poi prova a riempirlo nuovamente

a chi canta sotto la doccia

a chi singhiozza nel buio del cinema

a chi ripensa al finale di un romanzo

a chi corre per strada

a chi passa la borraccia

a chi tenta la giocata di tacco

a chi beve in compagnia

a chi ama senza aggettivi

a chi fa sogni colorati

a chi non smette di cercare un motivo per sorridere

a chi resiste e vive, vive e resiste

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Le parole che non ho detto

Avrei voluto dire che è grande quella comunità che riesce ad essere solidale e generosa, che si stringe con affetto attorno a chi ha bisogno. Esprimere profonda gratitudine agli oltre duecento partecipanti alla piccola grande iniziativa dell’Agape, la tombolata di solidarietà per raccogliere fondi da utilizzare per consentire a una famiglia di Sant’Eufemia di accompagnare periodicamente al “Gaslini” di Genova un bimbo affetto da disabilità.

Avrei voluto dire che il sogno delle associazioni di volontariato è quello di scomparire, perché ciò significherebbe che lo Stato riesce a soddisfare i bisogni di tutti. Ma purtroppo non è così: ecco perché occorre incoraggiare e sostenere chi fa volontariato. Sono povere, molto povere, quelle società che non possono contare su questo straordinario patrimonio di umanità.

Avrei voluto dire, soprattutto ai giovani, di avvicinarsi a queste realtà, perché ne trarrebbero certamente un arricchimento e la convinzione di dare un senso profondo alle proprie vite.

Avrei voluto dire che, a volerlo, il tempo per fare del bene lo si può sempre trovare. Perché nessuno ha mai preteso un impegno totalizzante, che tra l’altro contrasterebbe con le ragioni stesse del volontariato. Per restare all’Agape, è sufficiente dare un contributo anche una volta all’anno, per una qualsiasi delle iniziative che l’associazione svolge. Può sembrare poco, ma è soltanto sommando i tanti “poco” che si ottiene il “molto”.

Avrei voluto dire che sulla disabilità c’è ancora molto da lavorare e che nessuno dovrebbe tirarsi indietro. Negli ultimi anni si comincia ad avvertire un approccio diverso, in positivo. Ma non dimentico la prima volta che Peppe Napoli mi portò in una abitazione e vi trovai un ragazzo seduto su una sedia, in un angolo buio.
Avrei voluto dire che a queste famiglie bisogna stare vicino, con gesti concreti e quotidiani: si tratti di lasciare libero il parcheggio riservato ai disabili o di costruire scivoli e pedane d’ingresso ovunque, affinché nessun posto sia inaccessibile per chi si muove su di una sedia a rotelle.

Avrei voluto dire che sogno un mondo senza barriere architettoniche. Un mondo in cui tutti riescano a rivolgersi a un soggetto diversamente abile senza assumere un tono pietoso. Un mondo in cui tutti abbiano pari dignità non perché lo impone la Costituzione, ma perché così è. Un mondo in cui a tutti sia consentito di correre per realizzare le proprie aspirazioni, anche quando le gambe non vanno.
Avrei voluto dire tutto questo, ma so che un conto è scrivere, altra cosa è parlare con la tempesta dentro.
E quindi ho preferito affidarmi alle parole di Giuseppe Pontiggia, tratte dall’autobiografico Nati due volte (2000), al quale nel 2004 Gianni Amelio si ispirò per girare il commovente Le chiavi di casa:

Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.

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Libertà è… offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.

Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.

Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.

Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.

L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.

E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

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Natale eufemiese 2013

Calendario delle manifestazioni:

22 dicembre: “A Natale puoi…”
Canti, balli, crespellata e… l’arrivo di Babbo Natale!

A cura dell’Associazione “Terzo Millennio”
– Piazza Municipio, ore 16.00

28 dicembre: “Pagine d’Avvento tra musiche e parole”

Concerto dell’Orchestra Giovanile di fiati “Paolo Ragone” di Laureana di Borrello – Lettura di poesie natalizie e di tradizione popolare

A cura dell’Amministrazione Comunale e della Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” – Sala del Consiglio Comunale, ore 18.00

29 dicembre: “Una donna per le donne e per la vita”

Sala del Consiglio Comunale, ore 17.30

30 dicembre: “Tombolata di solidarietà”

Raccolta fondi per sostenere le spese mediche di una famiglia in difficoltà

A cura dell’Associazione di Volontariato Cristiano “Agape”
– Ristorante “Le Macine”, ore 21.00

04 gennaio: “Cuntandu e Cantandu u Natali”

Concerto del Coro Polifonico Parrocchiale “Cosma Passalacqua”

Chiesa Parrocchiale di Sant’Eufemia V.M., ore 18.30

06 gennaio: “Befana in piazza”
Musica, giochi, divertimento e… l’arrivo della Befana!

A cura dell’Amministrazione Comunale

Piazza Municipio, ore 16.30

Queste le manifestazioni di cui si ha notizia “ufficiale”. Però è molto probabile che vi sia anche altro.

Ad esempio, è certo che sabato 21 dicembre alle 9.30 i volontari dell’Agape effettueranno le visite domiciliari agli anziani per fare gli auguri e consegnare un ricordino, mentre nel pomeriggio (ore 16.00) si recheranno presso la Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Il blog è a disposizione di tutti per eventuali integrazioni.

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Il Sud è niente

“Se di una cosa non ne parli, non esiste”. Non sempre è così, ci sono assenze ingombranti e silenzi assordanti. D’altronde, per il Poeta “assenza” è “più acuta presenza”: lo sa bene Fabio Mollo, regista reggino all’esordio con Il Sud è niente, romanzo di formazione dell’introversa Grazia, interpretata dalla bravissima Miriam Karlkvist alla sua prima apparizione sul grande schermo.

L’assenza è quella di Pietro (Giorgio Musumeci), che nella versione familiare e ufficiale muore in Germania, dove si trasferisce per lavoro quando la sorella ha 12 anni.
Grazia, che “incontra” il fratello sotto l’acqua del mare dello Stretto, si convince che Pietro è vivo. Di sicuro, sente che il padre – Cristiano, pescivendolo rassegnato cui presta il volto Vinicio Marchioni, noto al grande pubblico come “il freddo” della serie televisiva “Romanzo criminale” – non le ha raccontato la verità.
“Con la verità ti puoi pulire il culo”, a Reggio Calabria. Perché la verità spesso non la puoi raccontare. Neanche se ti hanno ammazzato un figlio. Neanche se ti prendono la casa e ti costringono a chiudere l’attività commerciale, facendo ricorso ai noti ed efficaci metodi del sabotaggio sistematico. Neanche se ti “suggeriscono” di andare via, scappare lontano, al Nord.

Grazia attraversa la città in rabbiosa e ricercata solitudine, appena violata dal mormorio di dialoghi smozzicati, essenziali come il cast stesso del film: oltre a Grazia e Cristiano, Carmelo (Andrea Bellisario), figlio di giostrai che nell’incontro/scontro con Grazia offre una via d’uscita all’incomprensione; la nonna (Alessandra Costanzo), che racchiude nell’espressione hiatu meu l’essenza millenaria delle famiglie del Sud; Bianca (Valentina Lodovini), presenza per la verità quasi impalpabile, sulla quale forse si poteva osare di più.

Un silenzio carico di sguardi, pause, gesti, pronto a esplodere nella ribellione di Grazia, che indica la via stretta e accidentata del riscatto nello squarcio del velo di una incomunicabilità che è anche generazionale. Se speranza c’è (e il finale uno spiraglio esilissimo lo offre), ha volto di donna e urla capaci di spezzare le catene dell’omertà.

Scena più bella: il ballo sfrenato e liberatorio di Carmelo e Grazia nella pista dell’autoscontro.

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