Forza Eufemiese

I campionati di calcio giovanili e le categorie dilettantistiche sono come il militare: periodi “mitici” che si finisce per ricordare negli anni, magari davanti a una bottiglia di vino o a una birra ghiacciata, tra vecchi eroi del tempo andato. Ancora oggi a quelli della mia generazione capita di ricordare la “lotta” tra ragazzini di 13-14 anni, in occasione delle trasferte, per salire su una Fiat 131 blu sulla quale una volta ci stringemmo in nove (più i borsoni). La nostra automobile preferita. Merito del simpatico autista che aveva sempre aneddoti curiosi da raccontare e che, puntualmente, all’altezza dell’uscita di Gioia Tauro, faceva scendere uno o due passeggeri: insomma, quelli che eravamo in soprannumero. Dall’autostrada ci arrampicavamo sul cavalcavia, lui superava in tranquillità l’eventuale posto di blocco della polizia, quindi ci riprendeva a bordo. Perfezione geometrica. La Fiat 126 bianca di Peppe Napoli, che chissà quanti chilometri ha macinato in giro per la provincia, e poi altri bolidi: la Fiat 127 rossa sulla quale al ritorno da Bagnara una volta consumammo un’intera cassetta di fragole; il “maggiolino” della Volkswagen con optional “vista sull’asfalto”, grazie a un buco nella carrozzeria coperto dal tappetino; la Citroen due cavalli, che in teoria non avrebbe mai dovuto cappottarsi: impresa realizzata dal suo proprietario, per fortuna non con noi a bordo.

Amicizie nate nello spogliatoio e intatte decenni dopo, grazie a una passione che andrebbe sempre trasformata in occasione di crescita sociale e umana, collettiva e individuale. Altrimenti non ha senso. Non so se provare tenerezza o sorridere per quelli che si creano chissà quali aspettative. Bisognerebbe invece capire che uno su trecentomila ce la fa e che la finalità di una squadra di calcio dilettantistica non è quella di creare campioni. Anche se qualcuno bravo ogni tanto salta fuori e riesce anche ad avere anche una discreta carriera. Anche se alla fine a nessuno piace perdere. No, il calcio a questi livelli e in queste realtà – come qualsiasi altra attività sportiva – è qualcosa di molto importante proprio perché va al di là della prestazione e del risultato. Vincere o perdere non è tanto questione di un gol in più o in meno. Vincere o perdere è riuscire ad essere fattore di aggregazione, trasmettere valori positivi a ragazzi che domani diventeranno adulti. Condivisione, rispetto, responsabilità e sacrificio: talenti che vanno oltre la pratica sportiva, elementi fondamentali del percorso di maturazione che ogni ragazzo vive.

Lo so che sono di parte, perché è mio amico e perché per molti anni su quella Fiat 126 bianca ci sono salito ogni settimana, per andare a volte in posti impossibili nei quali non sono mai più ritornato: Cataforio, ad esempio.

Dirigenza, allenatori e giocatori passano, ma lui c’è sempre: da almeno 35 anni dici Eufemiese (ora A.C. Sant’Eufemia) e inevitabilmente pensi a Peppe Napoli. Una passione che non ha mai flessioni, nonostante le difficoltà di un impegno gravoso anche sotto l’aspetto organizzativo. Domani inizia il campionato di Seconda categoria, che avrà tra le protagoniste l’Eufemiese (io la chiamerò sempre così): un grosso in bocca al lupo a Peppe Napoli, a mister Franco De Luca, ai collaboratori e ai ragazzi. Forza Eufemiese!

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Perché voto Oliverio

Al termine di una telenovela estenuante e a dire il vero anche stucchevole, finalmente domenica 5 ottobre si terranno le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza della giunta della Regione Calabria. Non era scontato che finisse così: chiunque segua con un minimo di attenzione le vicende politiche del partito democratico calabrese ha potuto verificare gli innumerevoli tentativi messi in campo più o meno strumentalmente per impedire il rispetto dello statuto del partito, che all’articolo 18 prevede lo svolgimento delle primarie per le cariche monocratiche istituzionali. Mesi a gettare sul tavolo il papa nero, quello bianco e l’altro arancione; chilometri su chilometri macinati tra via delle Nazioni a Lamezia e via del Nazareno a Roma, per trovare una quadra che semplicemente non c’era, come poi s’è visto. Non si è capito molto, purtroppo scontiamo un atavico deficit di chiarezza, ma tra quel poco c’è di sicuro l’ostilità pervicace di alcune frange del partito (segretario regionale in testa) nei confronti della legittima aspirazione del presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio, in campo già dalla primavera scorsa e con le carte abbondantemente in regola: ben 153, su 300, sono stati infatti i delegati regionali firmatari della sua candidatura.
Tra i candidati in lizza, considero Oliverio il più idoneo a guidare una regione complessa come la Calabria, principalmente perché dotato di un cursus honorum adeguato e del riconoscimento della bontà del suo impegno nelle istituzioni, come certifica l’apprezzamento unanime del lavoro svolto, da ultimo, a capo della Provincia di Cosenza. Esperienza che servirà molto più degli slogan, considerato che – finito il tempo della propaganda – poi bisognerà amministrare. Oliverio ha dimostrato di sapere governare: a questo si deve guardare quando si andrà a votare, non certo alla carta d’identità che di per sé può anche non significare niente. Il cambiamento vero va perseguito sul campo, nella guida di un ente che fa acqua da tutte le parti e che ha l’assoluta necessità di recuperare in credibilità. Altrimenti il cambiamento rischia di rivelarsi una bandiera sventolata in campagna elettorale e subito dopo riposta nel cassetto dei buoni propositi. La ragione per cui scelgo Oliverio, in definitiva, risiede nella sua affidabilità amministrativa.
Di Gianluca Callipo non mi convince la trita riproposizione dell’armamentario propagandistico renziano, lo scimmiottamento su scala locale del modus operandi del presidente del consiglio, il generico e ostentato richiamo al “cambiamento”. Indispensabile come l’aria, certo. Ma a partire dal rapporto con gli elettori, se non si vuole che rimanga parola vuota. Cambiamento significa, ad esempio, mettere chiarezza su “chi sta con chi” e porre fine ad atteggiamenti ambigui. Il trasversalismo della campagna per le primarie di Callipo, da questo punto di vista, è davvero imbarazzante. E prima o poi occorrerà aprire una discussione sull’opportunità di primarie condizionate dal voto di non iscritti ai partiti del centrosinistra. Personalmente, non mi rassegno all’idea che le “nostre” primarie possano essere inquinate dal voto di settori del centrodestra, oggi disorientati dal fallimento di quello schieramento e alla ricerca disperata di una nuova verginità politica. Transumanze dettate dall’opportunismo e che niente hanno a che fare con le ragioni ideali della politica. Votare Oliverio vuol dire anche sbarrare la strada al trasformismo dei gruppi di potere cresciuti a pane e inciuci.

* A Sant’Eufemia d’Aspromonte il seggio sarà allestito all’interno del Palazzo municipale, domenica 5 ottobre dalle 8:00 alle 21:00.

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Anime nere

“Che ci fanno queste anime/ davanti alla chiesa/ questa gente divisa/ questa storia sospesa”: “macchie di lutto” per Fabrizio De André e Ivano Fossati in Disamistade. “Anime nere”, nel libro di Gioacchino Criaco dal quale Francesco Munzi ha tratto un film potente, spiazzante per chi temeva la semplificazione del ricorso alle categorie del bene e del male. Come se la questione fosse solo identificare il male senza riuscire a raccontarlo. Non per tentare di spiegarlo, magari ricorrendo a giustificazioni storiche o sociologiche, con il rischio di offrire – anche soltanto involontariamente – un assist all’alimentazione del suo fascino perverso. Bensì per gridare: questo siamo, questo esiste. Nonostante noi, vittime e carnefici; nonostante voi, che ci impiegate un attimo a capire tutto rifugiandovi in comodissimi stereotipi. Con tutta l’umanità possibile, senza retorica e cercando di proteggere quel che resta dell’uomo risucchiato dal gorgo della violenza, condannato a un destino quasi ineluttabile. Fatto di sangue che chiama sangue. Ma forse ancora capace, se non di redimersi, di ribellarsi ai codici della morte pur provocando ancora morte, superbo e drammatico paradosso che rimanda ai temi universali della tragedia greca.
Anime nere è una fotografia, racconta uno spaccato della realtà calabrese per come essa è, senza la presunzione di insegnare nulla: “non è mio compito lanciare messaggi”, ha precisato Munzi nel dibattito seguito alla prima del “Lumiere” di Reggio Calabria. Come d’altronde aveva già fatto Criaco nelle pagine del romanzo, epopea criminale che innalza a tragedia universale il dramma familiare di una famiglia di pastori diventata nel giro di una generazione protagonista mondiale del traffico internazionale della droga e del riciclaggio di denaro sporco. Ascesa inarrestabile, comune a molte famiglie di ’ndrangheta, che non può che concludersi dietro le sbarre o sottoterra. Subito dopo i titolo di coda, la commozione di Criaco è diventata così l’emozione degli spettatori, un tutt’uno con il “collettivo urlo liberatorio” richiamato nel suo intervento dallo scrittore per definire l’esito della pellicola.
Lutto dopo lutto, le contraddizioni delle “anime nere” si sciolgono nel sangue di un finale sorprendente, che realizza sul piano della realtà il falò con cui Luciano (uno straordinario Fabrizio Ferracane) brucia metaforicamente il passato, il presente e il futuro della propria famiglia. Per i figli dei pastori diventati criminali non c’è salvezza. Non per Luciano, che era rimasto quando probabilmente avrebbe fatto meglio ad andare. Né per Luigi (Marco Leonardi), che passa indifferentemente dal night di mille euro a notte allo scuoiamento di un capretto gonfiato soffiando dentro una penna Bic. Tantomeno per Rocco (Peppino Mazzotta), che non sa resistere al richiamo del sangue e incarna l’immortalità di “regole” arcaiche tramandate nel dialetto africoto dei dialoghi sottotitolati in lingua italiana, respirate insieme alla stessa aria dei paesaggi dolorosamente stupendi dell’Aspromonte, trasformati da Munzi in set cinematografico.

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La promessa

Pizzico queste sei corde, il loro suono accompagna la nenia senza tempo che mi sussurravi da bambino per farmi addormentare. Anche i mostri che il lume a petrolio proiettava sulla parete trovavano finalmente riposo, una pace che negli anni non ho più vissuto. Una tregua che vorrei siglare ancora, irricevibile a quanto pare.

Non lo so se riesci ad ascoltarmi, ma io sono qua. Per quanto possa esserti di conforto, proprio davanti a te. Forse è più utile a me, ma non importa. Importa il silenzio rotto dal canto di questa storia che sa di muffa e cimici. Storia non memorabile, ma mia: ciò che ero; ciò che sono.

Ti osservo con la devozione di un fedele inginocchiato ai piedi della statua muta. Ti guardo e attendo parole che so non arriveranno mai. Che mai potranno arrivare. Mi accontento del soffio che a fatica esce dal tuo petto e che sorreggo fino a farlo adagiare sopra le lenzuola candide. Lentamente, quasi accompagnandolo dal palmo delle due mani ai fiorellini ricamati sul lino. Come in una deposizione già vista. Devo accontentarmi di questo perché altro di te non mi rimane. Né molto di me, che ho rinunciato a tutto pur di tenere fede al nostro patto:

– Anche se non tu dovessi più essere capace di badare a te stessa, non ti porterò in ospizio. Stai tranquilla, mamma: te lo prometto.

Ti avevo appena raccontato del pranzo di Natale con gli ospiti della casa di riposo. Mi aspettavo pochi anziani, immaginandone la gran parte al tepore delle famiglie, arbitri delle rumorose corse ingaggiate dai nipotini per presentare i regali della mezzanotte:
– Guarda cosa mi ha portato Babbo Natale!

Invece erano tutti presenti, gruppo marmoreo dell’aridità e di una salvezza che stentiamo a riconoscere. Solitudini rassegnate, aspre, ignare. Lontane dallo squillo di voce che nel pomeriggio anticipava l’indicazione dei numeri sul tabellone. Lontane dal nostro dovere di umanità. Altrove.

Un Natale che ricorderò per sempre. Come quello dei miei otto anni, una tavola spoglia e niente da mangiare, neanche un pezzo di pane. Avevo adocchiato un deposito di patate da semina: tra il pensiero e lo scasso fu un attimo, cosicché cominciai a scegliere le migliori per portarle a casa, quando i miei occhi si posarono a terra, su di uno strano foglio color mattone piegato in quattro. Lo aprì e in quell’istante imparai ad amare Dante Alighieri, il cui profilo austero occupava il centro della banconota da 10.000 lire. Allora fu carne, come non ne vedevamo da Carnevale. Se chiudo gli occhi riesco a sentire le tue lacrime scorrere calde sulle mie guance. Le stesse di quando scappai di casa per due giorni temendo una tua punizione per quell’uovo che avevo rubato in un pollaio e bevuto d’un fiato, che invece tu sapevi stantio, lasciato sotto il culo della gallina per la cova.

Devo al Sommo Poeta il più bel pranzo di Natale della mia vita.

Vorrei regalartene uno uguale, per riassaporare ora quella felicità. Per diventare ancora una volta il tuo piccolo eroe. Mi aggrappo al ricordo della morbidezza del tuo grembo quel giorno, cercando di non farmi trafiggere dalle raffiche di nostalgia. E mi ritrovo a cullare i tuoi 38 chili in questo finale scelto insieme, che non mi permette di entrare nei tuoi occhi per scoprire cosa guardano quando mi fissi senza sorridere. Ma che contiene tutto ciò che c’è da sapere.

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La colonia estiva dell’Agape

Ha ragione chi ha commentato lo scatto rubato al gioco di due bambini speciali – uno affetto da una grave patologia, l’altro extracomunitario – con la considerazione che loro sì avrebbero tutti i titoli per tenere un corso di studi o una conferenza sui temi dell’integrazione e della lotta a ogni tipo di discriminazione. E viene da riflettere sulle responsabilità della società degli adulti nell’opera quotidiana di corruzione di uno stato di natura che è fatto di tolleranza, non di violenza dell’uomo contro l’uomo.
Per questo e per tanti altri motivi non è retorico ribadire che chi fa volontariato il dono lo riceve, non lo dà. Perché i maestri migliori sono quelli che ignorano di esserlo eppure riescono a insegnare l’autenticità della vita con un sorriso, un abbraccio, una carezza. A ricordarci quanto sia penoso affannarsi in inutili complicazioni quando è tutto così semplice, quasi come fare una torta di sabbia e provare emozione per un “capolavoro” che le onde del mare presto porteranno via.
La colonia estiva dell’Agape di Sant’Eufemia viaggia verso i venti anni. Alcuni volontari non ne hanno saltata neanche una, altri si sono aggiunti estate dopo estate, in un ricambio generazionale sempre più sofferto che quest’anno ha però registrato il segno positivo, grazie alla partecipazione di due nuove ragazze che hanno fatto la differenza e sulle quali l’associazione spera di fare affidamento nelle prossime edizioni, insieme a chi all’ultimo minuto ha dovuto a malincuore rinunciare e ad altri che vorranno unirsi a un gruppo affiatato, composto anche da quelli che ormai si portano dietro i figli. Bravissimi.
Anche tra i “ragazzi” in ciambelle e braccioli (dieci, di età compresa tra 6 e 63 anni) ci sono state novità. Segno che occorre continuare a tendere l’orecchio e ad osservare la comunità con occhi attenti, sentinelle dell’emarginazione, della solitudine, dell’indifferenza.
Il desiderio del mondo del volontariato è scomparire, perché ciò significherebbe che le istituzioni riescono a garantire i diritti di tutti e a soddisfare i bisogni delle categorie sociali più deboli. Purtroppo così non è, proprio per questo l’azione di supplenza del welfare sviluppata dalle associazioni rappresenta un patrimonio – non solo di umanità – prezioso e provvidenziale.

Chi ha preso parte alla colonia avrà frammenti di felicità da custodire nel segreto della propria anima: canzoni e giochi di parole, una mano che ne sostiene un’altra per girare la stecca del calciobalilla, il coro “oh-issa” per le uscite dall’acqua più impegnative, la corsa di una ragazza ebbra di gioia per salutare il pulmino dopo il ritorno a casa. Gesti semplici perché l’amore è così: semplice. Ma anche quel magone finale, da spingere e tenere giù a forza, di fronte alle domande senza risposta sul dolore degli uomini, sulle ragioni insondabili della crudele lotteria che condanna o salva lo stesso innocente.

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Sulla vicenda dei Bronzi la penso così

Puntuale come il cd autunnale di Mina, l’estate 2014 ha portato in dono il sempreverde dibattito sulla trasferibilità dei Bronzi di Riace. Questa volta ci ha pensato l’ambasciatore per le Belle arti di Expo 2015 Vittorio Sgarbi a rispolverare la vexata quaestio, prima proponendo l’idea di un tour meneghino per i due guerrieri greci in occasione dell’esposizione universale e poi traducendo l’auspicio in una richiesta ufficiale – sottoscritta insieme al presidente della Lombardia Roberto Maroni – al ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha preannunciato la costituzione di una commissione di esperti per decidere sulla trasportabilità delle due statue. Neanche a dirlo, la polemica è divampata immediatamente. Molte le reazioni stizzite: “chi vuole vederli deve venire a Reggio, a Milano si porti il David di Michelangelo e vediamo cosa dirà Renzi in proposito”, il senso di quelle più concentrate sul campanile. Non sono mancati però i possibilisti: “sarebbe una bella pubblicità per la città e una buona occasione per guadagnarci qualcosa”. D’altronde, dai sei mesi di visite al Padiglione numero 1 che dovrebbe ospitare i Bronzi, Sgarbi ipotizza un incasso di 15 milioni di euro, un terzo dei quali – assicura – potrebbe essere destinato alla città di Reggio.
Inevitabili, poi, anche le remore sulla fattibilità di scarrozzare le due statue senza rischiare di danneggiarle. Questo sì problema sul quale non ci si può dividere e preliminare rispetto a qualsiasi altra considerazione.

Assodata quindi la priorità della loro salvaguardia e al netto delle guerre di religione tra chi è pronto a fare le barricate per non spostarli dal museo di Reggio Calabria e chi è disposto ad accettare di spedirli in giro per l’Italia o per il mondo, il dato da cui bisogna partire, senza pregiudizi, è che i Bronzi – ora come ora – non creano turismo culturale, né indotto economico.
Perché è un bel dire “i turisti devono venire qua”, quando la verità inconfutabile è che i turisti a Reggio non vengono. Chi ha competenze tecniche e responsabilità di governo su questo dovrebbe confrontarsi, in modo da elaborare una proposta seria e realizzabile entro un paio d’anni. Avvitarsi perennemente in un dibattito inconcludente non risolve il problema; semmai, diventa un alibi all’inefficienza di chi doveva fare e non ha fatto, per negligenza o per incapacità. E, quindi, sarebbe forse più utile concentrarsi su come agire per rimuovere i molti ostacoli strutturali e incoraggiare il flusso turistico a Reggio.
Si potrebbe ad esempio pensare all’istituzione di una commissione per il rilancio e la valorizzazione del museo della Magna Grecia, composta da soggetti istituzionali e esperti del settore, alla quale affidare l’incarico di elaborare un progetto organico di sviluppo culturale della città in grado di colmare il gap di ricettività del territorio e di fruibilità dell’arte che Reggio sconta nei confronti di altre realtà nazionali e internazionali. Magari facendo ricorso proprio ai fondi garantiti dalla tournée dei Bronzi a Expo 2015 o da altre, limitate nel tempo, da svolgersi nell’ambito di eventi di eccezionale partecipazione.

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Il libraio di Meladoro

Perché è importante leggere i libri? La riflessione di Francesco Petrarca sul suo rapporto con i libri, a distanza di quasi otto secoli, conserva un’intatta forza evocativa e può essere considerata una valida risposta al nostro quesito:

Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m’insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d’agricoltura, d’eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge.

Leggere fa bene allo spirito. Ed è anche un esercizio utile, perché tra le righe di ogni pagina si finisce con il ritrovare le vite che non si sono vissute; si ha il privilegio della compagnia di personaggi inavvicinabili; si assiste dalla “prima fila” allo scorrere della Storia.

Chi non legge – osserva Umberto Eco – a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

La lettura dei libri consente di gettare un ponte tra presente e passato, di instaurare un dialogo con gli spiriti migliori dei secoli andati, di ascoltare – a un prezzo irrisorio – lezioni uniche e fondamentali per lo sviluppo dell’umanità.
Giovanni Florio, il libraio di Meladoro protagonista dell’omonimo romanzo di Aldo Coloprisco (Laruffa Editore, 2014) tutto questo lo sa bene. Sa che in un paese come Meladoro/Sant’Eufemia d’Aspromonte, negli anni Sessanta del secolo scorso, sono in pochissimi a leggere e sa che la sua è una missione quasi impossibile. La strada che conduce al progresso culturale di una piccola comunità passa pertanto dalla testimonianza dell’amore verso i libri e la lettura, che va promossa a maggior ragione dopo avere letto sgomenti le attuali statistiche. I dati del “Libro verde sulla lettura in Calabria” pubblicati alla fine del 2012 sono preoccupanti e rilegano la Calabria nelle retrovie di un Paese che già guarda le altre nazioni europee dal basso in alto. La quota di lettori in Italia è infatti tra le più basse del Vecchio Continente: l’8% di lettori abituali e il 30% di lettori saltuari, a fronte del 63,7% nel Regno Unito, del 60,2% in Germania, del 48,3% in Francia, del 47,6% in Spagna. Una percentuale che in Calabria scende a livelli record, se si considera che i lettori di libri durante il tempo libero costituiscono il 30,5% della popolazione, mentre la media nazionale è pari al 43,8%.
Florio, che aveva “ereditato” la passione per i libri dal suo padrino di battesimo, osserva che a Meladoro pochissimi leggono e quei pochi, per lo più, si limitano ai libri di testo delle scuole. Spostiamo la scena al giorno d’oggi: quanti ragazzi, persino laureati, non leggono quasi niente se si fa esclusione dei libri necessari per superare gli esami universitari?

Giovanni invece era diverso: divorava i libri “nel silenzio della sua cameretta o in mezzo al chiasso indiavolato dei compagni delle medie e del liceo (…). Leggeva di tutto e s’immedesimava nelle storie che leggeva. Grazie a queste letture imparava a conoscere il mondo senza spostarsi dal paese”.

In Giovanni Florio c’è ovviamente molto dell’autore, per decenni professore di lettere presso la locale scuola media “Vittorio Visalli” e titolare di una libreria diventata negli anni uno strumento formidabile di aggregazione socio-culturale. Nel romanzo però Coloprisco presta la sua biografia anche a un altro personaggio, il professore Forlini, che mette in piedi a Meladoro una compagnia teatrale della quale uno degli attori di punta è proprio Giovanni Florio. Un’attività che non sempre i colleghi di Aldo Coloprisco hanno compreso, considerandola minore rispetto all’insegnamento ortodosso, fatto di lezioni frontali e interrogazioni. Cosa voleva quel professore bizzarro che, invece, faceva disporre i banchi a ferro di cavallo per lasciare nel mezzo lo spazio per le prove della rappresentazione teatrale che ogni anno veniva allestita? Che era capace di “bruciare” così tre ore? Che di sua spontanea iniziativa insegnava rudimenti di latino perché poteva “tornare utile” ai ragazzi intenzionati a iscriversi al liceo scientifico, al classico o al magistrale?
Quando rileva l’attività del padre don Cecè, Giovanni Florio dà un forte impulso alla libreria. Porta più libri di testo, fa arrivare in paese le edizioni economiche degli autori italiani e stranieri più famosi, organizza la “settimana del libro”, come nelle realtà più grandi e culturalmente più avanzate rispetto a Meladoro. La libreria diventa punto d’incontro nel quale parlare di scrittori e poeti, riflettere sul passato e sul presente, scambiare esperienze ed emozioni. La vetrina a muro posta sulla strada, all’esterno del negozio, si trasforma per tanti giovani nella finestra attraverso la quale guardare il mondo da una prospettiva inedita, quella del fermento culturale della società contemporanea. Al di là, ovviamente, di ogni considerazione sull’aspetto economico, davvero risibile in un comune piccolo come Meladoro: carmina non dant panem, dirà Giovanni Florio allo scagnozzo del boss che vorrebbe costringerlo a cedere l’attività.

Giovanni Florio è un idealista. Crede nella potenza salvifica della parola e non perde occasione per ribadire la strettissima relazione che intercorre tra sogni, libri e libertà: “i sogni sono libertà”. Si definisce “un venditore di sogni, non di morte” ed esorta i suoi concittadini a comprare libri ai figli, per farli sognare e renderli migliori. La sua contrapposizione allo spirito prevaricatore della ’ndrangheta è una lezione di vita che i giovani frequentatori della libreria e del teatro colgono in pieno.

Il libraio di Meladoro contiene pagine durissime, sorprendentemente violente. Tuttavia, si conclude con un messaggio di speranza. I ragazzi scendono per strada per manifestare il proprio dissenso rispetto alle dinamiche distorte della malavita e si schierano dalla parte di Florio. Dalla parte del bene e contro il male. Anche se il protagonista sa perfettamente che una rivoluzione non si improvvisa, ma è l’esito finale di un processo lento, che ha i suoi tempi e che richiede il coinvolgimento delle agenzie educative presenti sul territorio: chiesa, scuola, associazioni culturali, famiglie.
I giovani di Meladoro ricordano gli studenti che nella scena finale del film “L’attimo fuggente” salgono sui banchi in segno di ribellione e per dimostrare di avere recepito la lezione del professore John Keating. Quelli saltano sui banchi, questi danno vita a una manifestazione antimafia. Una reazione dirompente nella sua spontaneità e un messaggio di speranza da condividere e rivolgere alle giovani generazioni di oggi e di domani.

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Forza venite gente

Non è questione di fare classifiche, che sono sempre antipatiche, perché poi la finalità di ogni manifestazione è quella di creare momenti di aggregazione, spensieratezza e crescita per la nostra comunità. Per cui a tutti quelli che si impegnano per rendere migliore Sant’Eufemia va rivolto un applauso incondizionato, per la generosità e la gratuità di uno sforzo che spesso comporta più sacrifici che onori.

Va però dato atto all’associazione Terzo Millennio di essere da diversi anni protagonista imprescindibile dell’estate eufemiese (e non solo dell’estate). Un gruppo assortito e ben amalgamato di donne e uomini, giovani e meno giovani, che riesce a realizzare iniziative culturali di ottimo livello e che non potrebbe ottenere questi risultati se alla base non vi fosse un’organizzazione solida, rodata e coesa nella quale il caso e l’improvvisazione non giocano alcun ruolo. Di sicuro, un esempio da seguire nel campo dell’associazionismo per l’entusiasmo, il desiderio di mettersi costantemente in gioco, la voglia di divertire divertendosi.
Era difficile migliorare l’exploit della rappresentazione teatrale messa in scena nell’agosto scorso, eppure anche quest’anno è stato fatto un ulteriore passo in avanti. Verso dove non si sa, considerato che si tratta pur sempre di un cast di volontari alle prese con i problemi quotidiani di ogni comune mortale: famiglia, studio, lavoro. E quindi, accanto ai meritatissimi applausi, già fa capolino la curiosità per ciò che l’associazione sarà costretta a inventarsi la prossima estate, per continuare a stupire.
Un musical richiede un surplus di impegno rispetto alla “semplice” recita, tra il pubblico crea un’aspettativa maggiore, tra gli attori responsabilità, emozione e tensione nuove.
Tutto è andato come doveva e lo spettacolo Forza venite gente è stato la dimostrazione della potenza di una macchina oleata ad arte. Una serata indimenticabile per i protagonisti e per il pubblico assiepato in ogni angolo di piazza Municipio, filata liscia con la soavità della perfezione e giustamente culminata nella standing ovation finale che gli spettatori hanno voluto tributare agli attori e a tutti i soci dell’associazione.
Dalla scenografia ai costumi, alle coreografie dei balletti, alle parti cantate e a quelle recitate, ai tempi di scena: ogni cosa è sembrata di una naturalezza disarmante; ogni cosa – aspetto non certo secondario – è stata curata totalmente dall’associazione fin nei minimi particolari.
Non è un caso se già tra qualche giorno ci sarà un bis “in trasferta” (a Vibo Marina il 15 agosto), se altri comuni hanno manifestato la volontà di ospitare lo spettacolo, se a ottobre il musical approderà addirittura ad Assisi.
Complimenti al presidente Francesco Luppino e, con lui, a tutta l’associazione e lunga vita – anche per il bene di Sant’Eufemia – all’associazione Terzo Millennio.

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Robin Williams in quattro foto e un finale

Mi divertiva quella stretta di mano particolare, come una forbice che si incastrava con un’altra forbice. Ci siamo a lungo salutati così tra ragazzini, ripetendo il tormentone che rese famoso Robin Williams (“nano-nano”) nella fortunata serie televisiva Mork & Mindy. Williams interpretava Mork, un alieno giunto dal pianeta Ork sulla terra a bordo di un’astronave a forma di uovo (“mi chiamo Mork, su un uovo vengo da Ork”, l’attacco della sigla), in un ruolo che gli consentì di fare conoscere al grande pubblico la sua straordinaria vena comica.

Una comicità travolgente: lievemente strampalata di Adrian Cronauer in Good morning, Vietnam, film che esaltò la capacità di improvvisazione di Williams;

tenera e commovente in Patch Adams: “ridere non è soltanto contagioso, ma è anche la migliore medicina”.

Fu però serissimo il ruolo che lo consegnò alla storia del cinema, quello dell’anticonformista professore John Keating in L’attimo fuggente. La pellicola che stuzzicando la mia curiosità mi avvicinò a Walt Whitman, del quale immediatamente acquistai la raccolta di poesie Foglie d’erba.

Quel film cambiò la vita di generazioni di adolescenti: tutti avevamo il diritto (e il dovere) di rendere straordinaria la nostra vita. O almeno, bisognava tentarci: anche salendo coi piedi sul banco, se necessario.

Le prime notizie riferiscono di un probabile suicidio. L’ennesima triste conferma che dentro ogni artista c’è un uomo, dentro ogni uomo un mistero.

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Dieci anni senza Tiziano Terzani

In un celebre verso Attilio Bertolucci osserva che l’assenza è una presenza “più acuta”. Sorte toccata a Tiziano Terzani, scomparso da dieci anni ma vivo nel dibattito culturale e letterario, addirittura nel costume di una società in crisi e alla ricerca di una bussola o soltanto di parole lievi come una carezza. Se in vita Terzani fu “soltanto” un grandissimo inviato e scrittore, autore di reportage che oggi vengono studiati nelle scuole di giornalismo, con la morte – con l’esposizione “pubblica” della malattia e della morte – è diventato un poeta dell’esistenza (copyright del velista in solitaria Giovanni Soldini), profeta laico dell’urgenza di “pensare diversamente” la realtà, perché “il mondo non è più quello che conoscevamo” e “questa è l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla”. L’occasione per comprendere – dopo avere visto da vicino e raccontato il fallimento delle rivoluzioni in Vietnam (dove era stato tra i pochi testimoni della resa di Saigon e della fuga rovinosa degli americani all’arrivo dei vietcong, nel 1975), Cambogia, Unione Sovietica, Cina – che l’unica rivoluzione possibile è quella che conduce alla pace interiore: consapevolezza spinta fino all’accettazione serena della morte in Un altro giro di giostra, l’ultimo e più intenso viaggio (“nel male e nel bene del nostro tempo”) del giornalista fiorentino.

Il pellegrinaggio incessante lungo il “sentiero Terzani” per raggiungere l’albero “con gli occhi” nel bosco del suo ritiro all’Orsigna, sull’appennino tosco-emiliano, dove fece costruire una gompa tibetana e ricreò l’atmosfera dell’ashram indiano in cui aveva a lungo vissuto facendosi chiamare Anam, “il senza nome” (e da Anam sottoscrisse la volontà di essere cremato: “un nome appropriatissimo per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno”); i numerosi e attivi gruppi di lettura che leggono e dibattono i suoi libri; l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah in Afghanistan e le scuole “Tiziano Terzani” sono espressione di un fenomeno sociale, del bisogno di esempi di bellezza, purezza, umanità. Anche quando si ha a che fare con il fondamentalismo islamico, perché i terroristi si sconfiggono eliminando le ragioni che portano migliaia di persone a imbracciare le armi o a farsi saltare in aria, non rispondendo al sangue con altro sangue. Le Lettere contro la guerra rappresentano il punto più alto del suo impegno civile all’indomani dell’11 settembre, quando decide di “scendere in pianura”, tornare cioè nel mondo dopo la scelta del prepensionamento da Der Spiegel, stanco della professione, convinto di avere detto tutto ciò che aveva da dire sul giornalismo, ritirato sull’Himalaya senza l’assillo di scadenze che non fossero quelle della natura e delle stagioni. Nel momento storico dominato dal “siamo tutti americani” lanciato dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e dal livore di Oriana Fallaci, che in La rabbia e l’orgoglio mette sul banco degli imputati la “viltà” di un’Europa prona e diventata “Eurabia”, Terzani torna per indicare nella non-violenza la sola strada percorribile per spezzare la spirale dell’odio.

La lapide che lo ricorda nel cimitero di Orsigna ne riassume la vita con la parola “viaggiatore”, mentre la moglie Angela Staude ricorre al tedesco Sehnsucht (“brama di vedere”) per definire il fascino che gli suscitavano paesaggi e culture lontani non solo geograficamente dall’orizzonte occidentale e per racchiudere la dimensione più autentica di Terzani, quella del “viandante alla ricerca della conoscenza”: “la meta, per Tiziano, è stata la strada, il cammino”.

*Articolo pubblicato su Segnali di cultura a cura di Adexo Ufficio Stampa, 28 luglio 2014

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