Una voce per il Papa: Antonello Bille

Ormai dovremmo essere abituati a vederlo in televisione, in occasione delle importanti funzioni che si svolgono nel Vaticano, tenore tra le voci che compongono la “Cappella musicale pontificia sistina”. Ne fa parte da venticinque anni. Eppure ogni volta è un’emozione che si rinnova, per quel sentimento di orgoglio e di ammirazione che gli eufemiesi provano vedendo che un figlio di questa terra è stato capace di raggiungere vette professionali di assoluto rilievo.
Antonello Bille, cinquantenne cresciuto nel “Chjanu du Pettu”, a due passi dalla chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, che ha inciso profondamente sul ragazzo che era e sull’uomo che è diventato, ne ha fatta di strada. Anche se non ha mai reciso il legame con il paese di origine, dove torna appena ne ha la possibilità, quasi sempre ogni 16 settembre per la festa patronale, che coincide anche con la data del suo compleanno. Di questo affetto si nutre, lo custodisce nel cuore come un dono prezioso: «Chi come me va via, ha sempre il timore di venire dimenticato. Provo molto piacere quando apprendo che i miei compaesani sono orgogliosi di me e della mia attività».
È stato toccante ascoltarlo in occasione della recente Via Crucis, particolarmente intensa a causa della presenza/assenza del Pontefice, che non c’era ma il cui spirito e le cui parole hanno riecheggiato lungo il percorso dal Colosseo al Tempio di Venere sul Palatino. Poi la morte di Papa Francesco, il funerale, la consapevolezza dell’importanza del momento storico e l’emozione provata quando il feretro ha fatto il suo ingresso nella chiesa di Santa Maria Maggiore, accolta dai canti eseguiti dalla Cappella musicale: tra i cantori, Antonello Bille.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato nel corso di una conversazione sviluppata sul filo dei ricordi, un andare per poi ritornare al punto di partenza, al luogo dove tutto ha avuto inizio: Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Quando hai scoperto di avere questo dono e come hai iniziato?
Ho scoperto di avere questo dono un po’ tardi. Ho frequentato il liceo artistico “Mattia Preti” di Reggio Calabria e, in quegli anni, la musica e il canto erano lontani dai miei progetti di vita. In paese ho però iniziato a collaborare con il coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua”, allora diretto dal carissimo amico M° Raffaele Federico: ricordo quando ci svegliavamo alle 5:00 per la novena di Natale. Compresi che avevo delle qualità e il successivo ingresso nel conservatorio “Francesco Cilea” di Reggio confermò quella sensazione. Raffaele Federico è stato per me un grande supporto, con le sue parole di incoraggiamento. Altra figura importante è stata il M° Mons. Giorgio Costantino, docente del conservatorio in esercitazione corali e direttore del coro “Laudamus” di Reggio Calabria, nel quale entrai dopo circa un anno: mi ha sempre seguito con affetto ed è stato fondamentale per la mia formazione professionale. Al conservatorio “Cilea” ho avuto maestri eccellenti, che non solo mi insegnavano la musica, ma mi sollecitavano a “crederci” perché il mondo del canto un giorno mi avrebbe dato il pane. Infine, il mio caro Maestro di canto Antonio Bevacqua, di Messina, il quale ha fatto un grande lavoro sotto il profilo tecnico. Non dimenticherò mai le traversate a bordo della “Caronte” per recarmi alle sue lezioni.

Quando sei entrato nel Coro vaticano?
Nell’aprile del 1999, mentre ero ancora allievo del conservatorio, il M° Mons. Giorgio Costantino mi informò che il Maestro della “Cappella musicale pontificia sistina”, all’epoca Mons. Giuseppe Liberto, cercava nuovi tenori. Mi presentai e sostenni l’audizione davanti a lui, al “Magister Puerorum” don Marcos Pavan (oggi Maestro direttore della Cappella), al segretario e al decano dei cantori pontifici. Nel frattempo conseguivo il Diploma in canto con lode e menzione d’onore. Il 14 settembre fui convocato ufficialmente da Mons. Giuseppe Liberto ed entrai così nel coro più antico del mondo e coro personale del Papa.

Da quanti cantori è composto il Coro, quali sono le sue attività e come si svolge la tua giornata?
Attualmente il Coro, che in genere svolge il suo servizio liturgico nella Basilica di San Pietro, è composto da 24 Cantori adulti suddivisi in tenori I e II, baritoni e bassi, e da circa 30 Cantori fanciulli (i “Pueri Cantores”, le voci bianche che secondo un’antica tradizione sostituiscono le voci femminili, suddivise in contralti e soprani). Normalmente siamo impegnati con le prove per le celebrazioni papali e i concerti, dalle tre alle quattro ore al giorno. La Cappella musicale pontificia interviene solo in presenza del Papa, anche per funzioni private nella cappella del Santo Padre oppure in altre cappelle che sono all’interno del palazzo apostolico, con il segretario di Stato. Al di fuori dal contesto delle cerimonie liturgiche svolge inoltre l’attività concertistica, sia in Italia che all’estero.

Ci sono avvenimenti che ricordi con particolare emozione?
Tantissimi, in particolare quelli legati agli anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Su tutti, l’apertura della Porta Santa nel Grande Giubileo del 2000 e la morte di Karol Wojtyla. Nel primo caso, ero arrivato a Roma da appena tre mesi: per me era tutto nuovo, immenso, vibrante. Mi sentivo parte della Storia mentre si stava svolgendo. Dopo il Santo Padre, toccò alla Cappella musicale attraversare la Porta Santa. Ho provato un’emozione indescrivibile, amplificata dalla voce tremante di Giovanni Paolo II: un fuoco dentro il cuore che non va mai via. La sua morte diede la sensazione che il mondo si fosse fermato, che la terra avesse smesso di girare. Dalle cose più importanti fino a quelle più banali, come fare la spesa. Il silenzio che si percepiva a Roma era impressionante, solenne, intimo. E poi il funerale, con quel vento che giocava con le casule dei cardinali e, sulla bara, sfogliava le pagine del Vangelo. Ma ho provato emozione anche nei passaggi più significativi di questi ultimi 25 anni: l’elezione di Benedetto XVI e l’11 febbraio 2013, quando nella Sala Clementina pronunciò la formula della rinuncia al soglio pontificio; infine l’elezione di Papa Francesco, che per la verità nessuno nel Vaticano si aspettava.

Come hai vissuto la morte di Papa Francesco? Cosa hai provato quando la bara con il Santo Padre ha fatto ingresso nella chiesa e come ti sei sentito nel momento in cui cantavi per lui?
Sono stato presente alla constatazione di morte, poiché il protocollo del cerimoniale prevede che siano presenti, oltre al medico personale del Papa che legge le cause del decesso, tutta la famiglia pontificia, della quale fa parte anche la Cappella musicale. Poi, mercoledì 23 aprile, nella Basilica di San Pietro per la traslazione. Arrivava il momento di far vedere al mondo per l’ultima volta le sue spoglie mortali. Il cerimoniale prevede che i “sediari” portino il Santo Padre nella bara scoperta. Il momento è solenne e scandito dal camminare lento e ordinato della processione. Una situazione che io avevo già vissuto con i due precedenti Papi. Ma è come se fosse sempre la prima volta. Sono sensazioni indescrivibili, dal fortissimo impatto emotivo. Anche perché ti rendi conto che fai parte di tutto quello che sta accadendo, non sei soltanto uno spettatore. Le mani tremano e si ha paura di poter sbagliare mentre si canta. È difficile gestire l’equilibrio interiore, perché l’emozione è fortissima. Non rimane altro da fare che pregare, nel mio caso cantando. Abbiamo eseguito alcuni salmi in gregoriano, in latino a una voce, e le antifone per i defunti: “Requiem aeternam”, “Sitivit anima mea” e altre.

Hai qualche ricordo personale di Papa Francesco?
In particolare due. Nel corso di una messa celebrata nella cappella privata per i suoi cinquant’anni di sacerdozio, ebbi un incontro molto breve: il tempo di stringergli la mano, poiché nella sua grande umiltà non voleva che gli fosse baciata, di chiedergli come stesse e di ringraziarlo per la sua presenza. In occasione dei suoi ottant’anni, ebbi invece modo di soffermarmi di più con lui. Gli chiesi una preghiera per una persona a me cara: mi domandò il nome di questa persona, quindi mi strinse forte la mano e mi disse di stare tranquillo. La sua preghiera fu esaudita.

Quanto è forte il tuo legame con Sant’Eufemia?
Tantissimo, nonostante gli anni trascorsi fuori per gli studi e per il lavoro. Sono cresciuto nel rione “Petto”, a pochi metri dall’ingresso laterale della chiesa di Sant’Eufemia, dove c’erano i locali dell’Azione Cattolica”: un punto di ritrovo per me e per tanti altri ragazzi con i quali ho condiviso momenti di pace, serenità, spensieratezza e tante risate. Una sorta di porta magica che ci teneva uniti. Sant’Eufemia sta sulla prima riga del mio curriculum artistico, ne vado fiero. Con le sue strade, il pane di “Tita”, le fontane della “Pirina” e della “Nucarabella”, i posti dove da ragazzini andavamo a raccogliere l’origano, sotto il ponte della ferrovia: un luogo che ho sempre immaginato come ideale per girarci un film western. Le interminabili partite a pallone davanti alla chiesa parrocchiale, le sfide con i ragazzi degli altri quartieri, le giocate a carte sui gradini della chiesa. Sono legato intimamente alle nostre tradizioni religiose: la pietà popolare è il ponte indispensabile affinché ogni essere umano si avvicini alla casa del Signore. E poi la nostra amata Sant’Eufemia, che ancora oggi ci parla e ci protegge. Il mio rapporto con “Lei” è iniziato il giorno della mia nascita: mio padre ancora oggi si commuove raccontando che mentre “Lei” usciva dal portone della chiesa per la processione, io venivo al mondo uscendo dal grembo di mia madre. Il giorno della festa cerco sempre di essere presente, anche se ogni tanto non mi riesce. La cerco ovunque, specialmente da quando mi sono trasferito a Roma. Mi affido sempre a Lei. Quando mi distraggo, succede qualcosa che mi fa capire che “Lei” è vicino a me. Non mi sono mai sentito abbandonato, né ho perso la strada che mi conduce a “Lei”. Ricordo con commozione le feste, le “entrate” con i magnifici fuochi d’artificio, le processioni sontuose e partecipate da tutti. So che qualsiasi cosa dovesse accadere, quei momenti li porterò sempre dentro di me. Ormai, da venticinque anni, la mia vita è a Roma: ma, anche se un giorno non dovessi più tornare, per il mio paese pregherò e spererò sempre il meglio.

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È sempre tempo di Resistenza

«È sempre tempo di Resistenza, sono sempre attuali i valori che l’hanno ispirata». Che Dio conservi a lungo la saggezza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale non a caso per esprimere il suo pensiero ha scelto Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. I tempi, si sa, sono molto tristi. Talmente tristi che qualcuno avrebbe preferito silenziare la ricorrenza con la scusa del lutto nazionale disposto per la morte di Papa Francesco.
Qualche anno fa Claudio Magris scrisse che “è triste dovere difendere la Resistenza”. È proprio così, ma è diventato necessario ora che gli ottanta anni trascorsi e la complicità del particolare momento storico che viviamo operano come la gomma sul tratto della matita. Ciò non significa che esista il pericolo di un ritorno al fascismo. Certamente non nei termini in cui si affermò tra le due guerre. E risultano insopportabili la retorica e l’ipocrisia di certi autoproclamatisi custodi esclusivi dei valori resistenziali. Tuttavia, da un punto di vista storico c’è poco da discutere. C’era una parte giusta e una sbagliata. La lotta partigiana è stata lotta di liberazione dal nazifascismo, per la quale una generazione di italiani sacrificò tutto, anche la vita, pur di consegnare all’Italia la democrazia. Uomini e donne di diversa estrazione politica (comunisti, cattolici, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani, monarchici) lottarono per la libertà e riuscirono a trovare una convergenza sulle regole fondanti della democrazia: «Abbiamo vinto noi – spiegò Vittorio Foa al repubblichino Giorgio Pisanò – e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o sarei finito in galera». La grandezza politica e morale di quell’avvenimento è tutta in queste parole.
Che poi la Resistenza non sia stata tutta rose e fiori lo sappiamo. Eccessi e crimini sono stati accertati. Ma ciò non toglie che la Liberazione costituisce l’evento fondante della Repubblica e segna il riscatto del popolo italiano, la riconquista dell’onore che il fascismo aveva oltraggiato con la dittatura, la soppressione della libertà, le leggi razziali e l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista.
Le polemiche strumentali, si tratti di Resistenza o del Manifesto di Ventotene, sono indice soltanto della miseria di una classe politica incapace di contestualizzare storicamente i fatti.
È indubbia, tuttavia, l’affermazione di tendenze illiberali alimentate dalla scarsa partecipazione popolare, dalla personalizzazione autoritaria e dal servilismo degli zerbini del potente di turno. Mette tristezza il divieto, in alcuni comuni, di eseguire “Bella ciao” o, addirittura, la cancellazione dei festeggiamenti in nome della raccomandata “sobrietà”. Ma è una questione che non riguarda soltanto il 25 aprile. Se in una scuola viene cancellata la presentazione di un libro perché una docente motiva la propria contrarietà dichiarando che “propone una linea politica non consona alla linea che seguono in questo comune”, il problema diventa serio. Il consenso dà ai vincitori il diritto di governare, non quello di disprezzare vincoli e confronto in nome del consenso popolare. È vile il comportamento di chi si veste di arroganza per non urticare la sensibilità dei potenti di turno.
Nel suo celebre discorso sulla Costituzione, Piero Calamandrei esortava gli studenti di Milano a non abbassare la guardia, perché “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Correva l’anno 1955, ma l’attualità di quel monito resta ancora oggi intatta.

*Foto tratta da: genovatoday.it

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Noi detenuti meno soli e disperati durante la pandemia grazie a Francesco

Costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole sul Covid pronunciate dal Papa in una piazza San Pietro deserta

Nella sezione c’era un silenzio irreale. L’orologio in mezzo al corridoio segnava le 14:50. Come sempre. Chissà da quanti anni. Il tempo in carcere non esiste, che le lancette stiano ferme o si spostino sul quadrante non fa differenza. È un tempo sospeso tra una battitura e l’altra. Dai camerotti e dai cubicoli arrivava in stereofonia la telecronaca di ciò che stava succedendo in piazza San Pietro. I nostri occhi erano tutti incollati in alto, sopra il cancello serrato, fissi sul teleschermo.
Un uomo vestito di bianco attraversava la piazza deserta, sotto la pioggia, prima di fermarsi sotto un crocifisso: «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda». Parlava del Covid, ma costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole. Dalla rete a maglia fittissima delle finestre, nelle ore diurne, anche la luce faticava ad entrare. Ci sentivamo soli, maledettamente soli.
Dal mondo di fuori arrivavano notizie frammentarie, che stentavamo a comprendere. I camion militari con le bare, l’aggiornamento quotidiano delle vittime della pandemia dai telegiornali che divoravamo. Non ci fidavamo di ciò che ci dicevano da casa. I colloqui erano stati sospesi: restavano le lettere, le telefonate e poi, finalmente, l’introduzione delle videochiamate. L’unico lascito positivo di quella terribile catastrofe sanitaria.
Giungevano notizie sui distanziamenti, sulle autorizzazioni per uscire di casa per la spesa, sul controllo poliziesco fino a davanti l’uscio delle porte, sugli inseguimenti, le multe, le denunce. Non capivamo. Paradossalmente, tutte queste precauzioni ci erano state risparmiate. Carcere e distanziamento sono due sostantivi che non possono stare nella stessa frase. Nelle celle, nel cortile: impossibile. Mascherine, neanche a parlarne. Almeno all’inizio. Ma neanche dopo, tranne quando si doveva accedere all’infermeria o alla matricola.
Gli ultimi possono anche morire, non fanno rumore. Se così non fosse, i nostri governanti dovrebbero impazzire per i suicidi che si registrano dietro le sbarre. E agli ultimi pensava Papa Francesco. Nel disorientamento generale, lo sentivamo vicino. Avvertivamo la potenza della preghiera, che non chiede il miracolo, bensì la concessione della forza necessaria per affrontare la burrasca. Ognuno la propria. Ci nutrivamo delle sue parole di speranza e della sua compagnia ogni mattina alle sette, quando appariva sui teleschermi dalla cappella di Santa Marta. Molti di noi appresero allora che visitare i carcerati era una delle sette opere di misericordia corporale.
Papa Francesco veniva a farci visita tutti i giorni. Nel carcere di Palmi suppliva l’assenza forzata di don Silvio, che fino ad allora era stata la nostra ancora di salvezza. Con le sue parole di conforto, lo sguardo di comprensione, l’indignazione per le troppe ingiustizie che da cappellano avvertiva come conficcate nelle sue carni.
In uno degli ultimi incontri prima della cancellazione definitiva di ogni visita, gli avevo proposto di organizzare una via crucis nel cortile. In carcere non mancano i poveri cristi e, fortunatamente, neanche i cirenei compassionevoli, compagni che aiutano l’altro a sorreggere la croce con un gesto di umanità o con una parola di incoraggiamento.
Ovviamente, non se ne fece niente. Riuscì però a fare una sortita il giorno di Pasqua, ad affacciarsi dalla porta sul cortile per un saluto, a fare avere a ciascun detenuto un bocconcino con la crema. Ci restava però Papa Francesco. Il rappresentante di una Chiesa che ciclicamente e inutilmente chiede un gesto di clemenza, denuncia la barbarie del carcere, invita alla compassione e alla carità.
La mia, la nostra, tutte le solitudini del mondo si condensavano in una macchia bianca raccolta in preghiera sotto la croce. Ci sentivamo un po’ meno soli.

IL DUBBIO, 23 aprile 2025

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La Pasqua di solidarietà dell’Agape

Con lo scambio degli auguri con gli ospiti della Residenza sanitaria per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” si sono concluse, oggi pomeriggio, le iniziative dedicate dall’Agape alla “Pasqua di solidarietà”.
Mercoledì 9 si è svolta l’ormai ultraventennale Via Crucis, con i volontari, le operatrici e gli anziani impegnati a ripercorrere le tappe della Passione di Gesù. Un bambino, Carmine, si è soffermato con la croce accanto agli ospiti della RSA, seduti attorno al tavolo circolare della sala ricreativa, mentre si susseguiva la lettura delle riflessioni e la piccola croce con la frase di Papa Francesco “La speranza non muore mai” – portata in dono alla struttura residenziale dalla presidente Iole Luppino – passava di mano in mano, da anziano ad anziano. Cadere e rialzarsi, cadere di nuovo e rialzarsi ancora.
È stato toccante ascoltare la lettura della signora Grazia, contagiosa nell’emozione che è riuscita a trasmettere a tutti i partecipanti. In un luogo che richiama sofferenza e amore, non possono lasciare indifferenti la preghiera e i canti eseguiti da anziani e volontari, in accompagnamento al coro “Cosma Passalacqua”, diretto dal Maestro Angela Luppino. Una collaborazione ormai consolidata nel tempo, capace di regalare momenti di grande pathos, come sempre accade – ad esempio – nel momento della straziante “Stava Maria dolente”, quest’anno intonata da Noemi e Sonia.
Pochi giorni fa, invece, c’era stata la consegna delle uova di Pasqua agli amici dell’Agape che ogni anno partecipano alla colonia estiva, nel corso di una serata di svago trascorsa nel teatro della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia”. Un’occasione per stare insieme, consumare qualche pizzetta, ballare e cantare al karaoke, abbracciarsi e sorridere. Piccoli gesti, capaci di riempire di senso le nostre piccole vite.
«Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”/ il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo 26). Dove? Genitori che piangono i figli, popolazioni martoriate dalla guerra, profughi senza più una casa, donne abusate, malati ad un passo dalla verità, anziani abbandonati, bambini che ancora oggi muoiono di fame, giovani con lo sguardo perso sul nulla, disoccupati, vittime dell’ingiustizia, rassegnati senza una speranza da abbracciare. Dove è in tutte le realtà nelle quali una vita diventa nient’altro che un numero. Nei teatri di guerra, negli ospedali, nei luoghi di restrizione, nelle baraccopoli. Dove è negli oppressi da un’economia predatoria, negli ultimi di una società fondata sulle diseguaglianze: da una parte i migliori, quelli considerati utili; dall’altra lo scarto della società, il peso, l’inciampo. Dove è nella forza e nell’amore che sfidano il dolore e la sofferenza. Là bisogna cercare.

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Il pagellone dell’Eufemiese 2024-25

Partita per disputare un campionato di vertice, l’Eufemiese ha visto crescere le proprie ambizioni match dopo match, fino ad agguantare il primo posto in classifica alla quarta giornata di ritorno, che poi non ha più mollato. Sedici vittorie, tre pareggi e tre sconfitte; miglior attacco con 48 reti realizzate, 31 messe a segno dal trio delle meraviglie Crucitta-Palamara-Occhiuto; seconda miglior difesa (23 gol subiti): questi i numeri di un percorso perfetto, che ha portato al salto di categoria la formazione della presidente Angela Gioffrè e di mister Domenico Napoli.
Anche nel corso di questa stagione mi sono divertito a stilare le pagelle al termine delle partite casalinghe: nient’altro che un gioco ad “uso interno”, come nel campionato passato, che ha comunque riempito i pomeriggi delle mie domeniche. Chiudo quindi con il pagellone finale… Grazie, ragazzi: forza Eufemiese!

ALVARO P. 10 – Un grande portiere si vede dalla concentrazione che riesce a mantenere quando non viene spesso chiamato in causa. Attento e reattivo in ogni circostanza, con ben cinque penalty neutralizzati si rivela anche un eccellente pararigori.
CARBONE C. 8 – Autentica sorpresa della stagione, da esterno destro basso cura con dedizione sia la fase difensiva che quella di spinta sulla fascia. È tra i magnifici quattro (con Alvaro P., Sobrio e Ascrizzi) a non avere saltato nemmeno un match.
SOBRIO 9 – Pilastro difensivo volitivo e di sicuro rendimento, ingaggia duelli all’ultimo sangue con chiunque passi dalla sua zona e puntualmente ne esce vincitore. Si toglie anche lo sfizio di leggere il suo nome, una volta, sul tabellino dei marcatori.
ADAMI 10 – A lungo capitano causa il forfait di Cammarere, si dimostra leader silenzioso ma concreto. Implacabile nell’anticipo e preciso nell’impostazione, sulla torta di una stagione perfetta c’è posto anche per la ciliegina della realizzazione di una rete.
CREAZZO 8 – Capace di ricoprire più ruoli in difesa, inizia la stagione come tappabuchi prima di guadagnare i galloni da titolare sulla corsia esterna di sinistra. Dalle sue parti non si sfonda e, partita dopo partita, diventa un punto fermo dell’undici titolare.
ASCRIZZI 10 – Inesauribile uomo ovunque, in mezzo al campo difende e propone fino a quando ha fiato in corpo. Tra gli artefici della vittoria del campionato, impreziosisce la continuità del rendimento con sette gemme di rara bellezza incastonate nella porta degli avversari.
ALVARO F. II 9 – Conferma le doti di playmaker esibite già nella passata stagione. L’impostazione della manovra passa sempre da lui, che da buon geometra smista con saggezza palloni su palloni. Si fa valere anche in fase realizzativa con cinque gol all’attivo.
CAMMARERE 9 – Un campionato tribolato per il capitano, costretto ai box nella prima metà della stagione. Caricato a molla, non è un caso che con il suo rientro la squadra comincia a macinare gioco e vittorie, scala le posizioni in classifica e si lascia tutti gli avversari alle spalle.
PALAMARA 10 – Quando la partita non si sblocca, palla a Palamara e ci pensa lui. Spacca le partite con le sue progressioni e fa impazzire le difese avversarie con incursioni in area letali. Vice-bomber della squadra con nove reti, è suo il gol che a Bagaladi vale il salto di categoria.
CRUCITTA 10 – Puntuale all’appuntamento con il gol come un cavaliere ad una serata di gala, è il capocannoniere della squadra con quindici gol. Bomber di razza, è anche preziosissimo quando c’è da fare salire la squadra e nel lavoro di raccordo tra i reparti.
OCCHIUTO 10 – Arrivato nel girone di ritorno, il suo impatto sul campionato è devastante, supportato da una media-gol impressionante: sette gol in dieci partite. Fondamentale il suo contributo alla svolta impressa dall’Eufemiese nella seconda metà della stagione.
PIRROTTA 8,5 – Di fatto dodicesimo titolare, dall’inizio o come primo cambio nella ripresa mette a disposizione della squadra doti tecniche e diligenza tattica. Maturato anche sotto il profilo caratteriale, si è alla lunga rivelato indispensabile.
ALVARO F. I 7 – Esterno d’attacco o al centro in sostituzione di Crucitta, mette sul rettangolo di gioco esperienza e una buona propensione alla manovra. Poche presenze, ma il finale di stagione lo vede in prima linea tra i protagonisti.
CASTAGNOLI 7 – Da titolare e da subentrante, a destra o a sinistra sulla linea di difesa, rispetta le consegne con puntualità e senza sbavature. Riesce a ritagliarsi uno spazio e a confermare che sul suo prezioso contributo si può sempre contare.
FORGIONE 7 – Soltanto cinque presenze per l’esterno destro di difesa che nella passata stagione era stato tra gli artefici della promozione in seconda categoria, ma è lui a mettere la firma sulla prima vittoria stagionale in trasferta dell’Eufemiese, a Palizzi.
GENTILOMO 6,5 – Il minutaggio nella stagione è stato ridotto, ma sfodera una prestazione decisiva nella battaglia di Bagaladi, quando l’Eufemiese, rimasta in dieci per l’espulsione di Adami, deve ricorrere alla sua duttilità per rimettere in sesto la difesa.
ROMEO D. 6,5 – Tutte le volte che viene chiamato in causa si fa apprezzare per la qualità tecnica indiscutibile delle sue giocate. Giocatore di grande prospettiva, la positiva stagione disputata non può che rappresentare un buon viatico per il futuro.
LUPPINO, LEONELLO, VIOLI, ROMEO S., IDA’, CARBONE A., LAGANA’, ALATI, MORABITO, CALARCO, ALVARO A. 6 – Poche presenze e spezzoni di gara per fare rifiatare i titolari: sufficienti comunque per entrare di diritto nella storia dell’esaltante cavalcata verso la Prima categoria.

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Non è solo un gioco

Dicono che in fondo è solo un gioco. Lo è di certo, ed è bene non caricare di eccessivi significati una prestazione sportiva. La magia dello sport dilettantistico sta proprio nel suo essere un aspetto della vita di chi lo pratica, e neanche il più importante. Un approccio che non alimenta troppe aspettative principalmente nei protagonisti, se non quella di divertirsi e di procurare divertimento agli spettatori.
Sarebbe però riduttivo considerare i successi dell’Eufemiese soltanto sotto il profilo sportivo. Due promozioni in due anni sono un’impresa, c’è poco da commentare. Se non per fare i complimenti ai dirigenti, allo staff tecnico e ai giocatori che sono riusciti a rinverdire i fasti della grande tradizione calcistica a Sant’Eufemia, dopo anni nei quali metteva tristezza anche solo andare a fare una corsetta nel mitico “Morisi”, orfano dei propri beniamini in scarpette e pantaloncini.
Ma c’è tanto altro. C’è che quello che è stato fatto in questi due anni va molto al di là delle vittorie ottenute sul campo. Giovani del paese e del comprensorio hanno trovato un motivo per impegnarsi in un’attività di aggregazione sana e formativa, con regole da rispettare e impegni da mantenere: vale per la squadra di calcio e vale per il volley femminile, l’altro pilastro dell’ASD Eufemiese 2023.
L’Eufemiese ha risvegliato l’entusiasmo e l’orgoglio di una comunità desiderosa di riscattarsi, portando sugli spalti centinaia e centinaia di tifosi di tutte le età. Il match è lo spettacolo nel rettangolo di gioco, ma lo è altrettanto ammirare ogni domenica il pienone sulla tribuna: ragazzi e ragazze, anziani, famiglie intere con al seguito i bambini nel passeggino, in un ambiente caratterizzato da grande cordialità e sportività. Un rito collettivo che accomuna ed emoziona, fa uscire le persone – soprattutto i giovani – dal chiuso delle camere, diventa argomento di discussione nei crocevia delle strade, nei bar e negli esercizi commerciali, dentro le case. E che regala un paio d’ore di spensieratezza.
È solo un gioco, certo. Ma sa essere anche molto di più.

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La roccia sul mare

I ricordi sono cardi che pungono rimpianti. Anche il ricordo della felicità, quando non è gioia ma nostalgia desolante della rosa appassita. Come una vertigine sull’abisso. Con un appiglio a portata di mano un equilibrio precario potrebbe trovarsi, ma la dimensione dei ricordi è da acrobata senza rete. Un tuffo nel vuoto che fa tremare il cuore, nell’infinita sospensione degli occhi distolti dallo sguardo di Medusa. Non è il sogno dai contorni sfocati che al risveglio lascia una condizione di inspiegabile serenità; che fa stare bene nonostante non si conosca il motivo della calmerìa. Non aiuta a scalare la montagna dell’indefinita tristezza del giorno dopo.
Felicità e dolore sono sentimenti soggettivi. Quante volte ci siamo sentiti morire, e invece siamo poi sopravvissuti? Quante volte abbiamo creduto di accarezzare le nuvole con l’indice, per poi scoprire la ferocia della nostra vanità?
Così come non si è felici in modo uguale, si è infelici ognuno a modo proprio. Imboccare l’uscita d’emergenza è esercizio di sopravvivenza che richiede ali da volo migratorio e muscoli allenati all’urto.
Di quanto fummo felici ce ne accorgiamo quando non lo siamo più, a incanto svanito. Forse perché la felicità è condizione eccezionale, che appare e scompare senza annunciarsi, che non saluta prima di allontanarsi con le mani in tasca. Che non si lascia scoprire: se non dopo, quando sulla sabbia rimane l’impronta dei suoi passi. O mentre si insegue tra le onde la striatura di un miraggio illusorio che approda al nulla. Alla donna che il detenuto di Lucio Dalla, in “Una casa in riva al mare”, dalla cella del penitenziario di un isolotto immagina alla finestra, sulla sponda opposta della lingua di mare che li separa, e che mai incontrerà.

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Quindici anni di messaggi nella bottiglia

Quindici anni sono voci e volti, chi c’era e chi non c’è più, le parole dette e rimangiate, quelle non dette e sotterrate. Sono conferme e mutamenti, personali e generali. Chiudo gli occhi, li riapro e sono qua. A sopravvivere allo stordimento del vortice della vita che scorre inarrestabile. Con più rughe e capelli bianchi, con qualche ferita, in questo presente destinato a diventare passato come il 24 marzo 2010, quando il blog “Messaggi nella bottiglia” emise il primo vagito: “Minita”. Il nome con il quale mi presentavo da bambino, in Australia, non riuscendo ancora pronunciare bene “Domenic” (e a questo punto, il sublime Totò esclamerebbe: «Hai aperto la parente? Chiudila»).
Da quasi novecento articoli sono passate alcune esperienze personali e la vita degli altri, vista o ascoltata. Inseguita per soddisfare la curiosità nei confronti di ciò che si muove nella società, per imparare qualcosa da avvenimenti e persone scavando sotto la crosta di apparenze spesso fuorvianti. Non esiste una verità assoluta, ma tante verità. Buono/cattivo e giusto/sbagliato sono contrapposizioni tanto semplificatrici quanto insufficienti, poiché il manicheismo non ci tira fuori dal mischione intricato della realtà. Occorre piuttosto guardare i colori “da dietro”, come Antonio Albanese in un celebre monologo. Provare altri punti di osservazione, porsi interrogativi capaci di aprire a prospettive non previste che possono rivelarsi reali, in grado di mandare gambe all’aria incrollabili certezze.
“Messaggi nella bottiglia” è un diario personale, post-it su libri letti, canzoni ascoltate e film visti. È cronaca locale e globale. È un baule di ricordi, riempito da storie vissute o tramandate nel tempo. Ma è principalmente uno spazio di libertà assoluta, che non risponde a nessuno di contenuti e considerazioni dettati esclusivamente da interessi e gusti personali. Nella consapevolezza, comunque, che scrivere comporta sempre un’assunzione di responsabilità.
Il blog mi ha dato la possibilità di coltivare la passione per la storia, di scrivere di fatti e personaggi finiti nelle pagine dei libri che ho dedicato a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Consentendomi così di fare opera di memoria attraverso la scoperta o la riscoperta di vicende minime che si incastrano come tessere del mosaico della storia grande.
Quindici anni fa il primo post, nel considerare come potesse risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia, si concludeva con la citazione del titolo di un libro di Leonardo Sciascia: “A futura memoria”. Pubblicata nel 1989, la raccolta di articoli scritti dal maestro di Racalmuto recava come sottotitolo “se la memoria ha un futuro”. Una preoccupazione – si parva licet – che di certo non è estranea a chi, concentrandosi sulla dimensione locale degli avvenimenti, svolge attività che si prefiggono di mantenere vivo il senso di appartenenza alla propria comunità.

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L’Agape al Giubileo del volontariato

Nella programmazione delle attività del 2025, l’appuntamento più significativo per l’Agape” era la partecipazione alla due-giorni (8-9 marzo) del Giubileo del volontariato. Un’esperienza emotivamente intensa per i volontari, per i ragazzi accompagnati a Roma e per coloro che hanno voluto condividere con l’associazione il pellegrinaggio alla Porta Santa di San Pietro.
Nonostante i tempi siano stati molto ristretti, i viaggi mettono allegria e così è stato anche in questa circostanza, particolare per la varietà dei partecipanti: di tutte le età e con una nutrita componente di bambini (due di appena un anno) a fare da mascotte alla comitiva. Le attenzioni maggiori sono andate ai ragazzi affidatici da familiari ai quali non smettiamo mai di esprimere riconoscenza per quel “se sono con voi, siamo tranquilli”, che rappresenta per i volontari dell’Agape la gratificazione più bella. Ed è a questi genitori, fratelli e sorelle che corre il pensiero quando due giornate scarse bastano per comprendere quanta cura, quanta dedizione e quanto sacrificio ci siano in una quotidianità vissuta senza un lamento, spinti dalla forza invincibile dell’amore.
Impeccabile lo sforzo organizzativo dei responsabili delle celebrazioni giubilari, nonostante la massiccia partecipazione di pellegrini. Centinaia e centinaia di volontari pronti ad ogni passo a supportare i fedeli, a spiegare quando, cosa e come fare. Sin da sabato con il raduno in piazza Pia, dove alla presidente dell’Agape Iole Luppino è stata consegnata la Croce giubilare. Subito dopo la lettura della Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5,1-5) è iniziato il pellegrinaggio verso la Porta Santa, lungo via della Conciliazione. Una lenta processione intervallata dalla lettura di due Salmi (122 e 84) e, davanti alla Chiesa di Santa Maria in Traspontina, di una riflessione tratta dalla Bolla di indizione del Giubileo, “La speranza non delude” (“Spes non confundit”, 24). Tra i canti intonati dal gruppo dell’Agape non poteva mancare “Su ali d’aquila”, per un’assenza – quella di Adelina Luppino – che a distanza di quasi vent’anni è ancora presenza viva e testimonianza di fede autentica. Infine, l’arrivo alla Porta Santa e la lettura della “liturgia di ingresso al santuario” (Salmo 24), prima di varcarne la soglia.
Domenica mattina piazza San Pietro era un tripudio di bandiere e colori, striscioni di incoraggiamento (“Papa Francè c’è”), sorrisi e abbracci. Come se tutti ci si conoscesse, o ci si riconoscesse, seduti accanto: gli accompagnatori dei fedeli sulle carrozzine in prima fila, fatti arrivare seguendo un percorso speciale fin sotto le statue di San Pietro e di San Paolo, ai piedi della scalinata; tutti gli altri gruppi nella piazza suddivisa in quattro settori.
Tanta l’emozione, nel momento in cui sugli schermi giganti è apparsa la bandiera con il logo dell’Agape. Tantissima quella sfociata nell’applauso della piazza quando il cardinale Michael Czerny – prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e delegato dal Papa a presiedere la Santa Messa – ha letto l’omelia di Papa Francesco, nella quale venivano ricordati i “tanti piccoli gesti di servizio gratuito” che “nei deserti della povertà e della solitudine” fanno sbocciare “germogli di umanità nuova: quel giardino che Dio ha sognato e continua a sognare per tutti noi”. Ed un ringraziamento: «perché sull’esempio di Gesù voi servite il prossimo senza servirvi del prossimo. Per strada e tra le case, accanto ai malati, ai sofferenti, ai carcerati, coi giovani e con gli anziani, la vostra dedizione infonde speranza a tutta la società».
Due giorni vissuti in una dimensione di serenità, lontano da tutte le cose importantissime, irrinunciabili, che finiscono per appesantire la vita. Senza averne per niente avvertito la mancanza.

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Kaguya, di Domenica Morabito

L’ikigai (“iki”: vita e “gai”: valore) è un’antica filosofia giapponese volta alla ricerca del senso della propria esistenza. Uno scopo apparentemente fuori dalla portata della protagonista del thriller Kaguya. La notte splendente di Noemi Falchi (Edizioni Other Souls), romanzo d’esordio di Domenica Morabito che ha già guadagnato ottime recensioni sui quotidiani nazionali.
Noemi Falchi è una cronista di nera che, a causa della controversa amicizia con il serial killer “Il Ninja”, viene retrocessa nella redazione di moda del giornale “La Finestra”. Una donna tormentata da demoni che non riesce a scacciare e che la tengono inchiodata ad un passato mai passato, oppressa dalla rabbia e dai sensi di colpa per la morte di persone care, rapporti familiari complicati, storie d’amore naufragate. Con il cuore che “si spezza sempre nello stesso punto”, Noemi è incapace di salvarsi da sé stessa, di scampare al vortice che la inghiotte nella spirale autodistruttiva dell’alcol e delle droghe: «Ho trentasei anni e non trovo motivi validi per arrivare a trentasette».
La scomparsa e poi il ritrovamento del corpo dell’amica Charlotte, vittima di un macabro rituale di morte, squadernano una realtà di violenza nella quale niente è come sembra. Domenica Morabito trascina il lettore nel buco nero della vendetta intesa come possibilità: né giusta, né ingiusta. Così è stato per il Ninja, la vittima che diventata carnefice, ma anche il personaggio più umano del romanzo: «Un uomo buono, che quando ha perso ciò che amava di più ha abbandonato ogni questione morale e ha lasciato uscire la parte feroce che sta dentro ogni essere umano».
Nella ricerca della verità, sarà proprio il Ninja a rivelarsi il più valido collaboratore di Noemi, antieroina femminista ribattezzata “Kaguya”, dal nome della giovane che – secondo una vecchia leggenda giapponese – rifiutò la corte dell’imperatore, assurgendo a simbolo di indipendenza e di libertà.
Tra le strade di Roma si dipana un noir avvincente, che spazia dalla violenza di genere alle dinamiche della comunicazione, tocca i grandi temi della giustizia, della verità e del mistero dell’animo umano, giunge infine alla domanda delle cento pistole su quale sia il confine tra il bene e il male.
Sorretta da una scrittura scorrevole, la descrizione di posti e situazioni è minuziosa, l’attenzione per i dettagli maniacale, la suspense e l’adrenalina contagiose fino all’ultima pagina. Arrivato alla quale il lettore non può che esprimere il desiderio che Kaguya apra un ciclo, per continuare a ricercare i pensieri di Noemi “affondati nei sampietrini” o per seguirla mentre percorre in motorino le strade della capitale, “affamata di aria in faccia”.

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