È arrivato il temporale

Nonostante il ricorso ai soliti artifici contabili per camuffare in vittorie le disfatte, questa volta c’è poco da fare. Il trucco c’è e si vede, come nelle peggiori esibizioni del mago Casanova. Il grande sconfitto è lui, Berlusconi. Ha voluto trasformare le elezioni amministrative in un referendum sulla sua persona, ha innalzato i toni dello scontro ben al di sopra del limite di guardia, ha aizzato i giornali di proprietà e l’ala oltranzista del suo schieramento. Ha incoraggiato la metamorfosi di Letizia Moratti da nobildonna milanese a incendiaria sanfedista. Ha chiesto il plebiscito, il superamento delle 53.000 preferenze ottenute nelle passate elezioni comunali a Milano, ed è stato sonoramente battuto. Consensi personali dimezzati e Moratti costretta a inseguire nel ballottaggio che si terrà tra due settimane.

Ad affondare ulteriormente l’umore del premier, il gelo nei rapporti con Bossi e il timore sempre più forte di un complotto per eliminarlo dalla scena politica. Il leader padano si è affrettato a scaricare sull’alleato la responsabilità della sconfitta, confermando così quanto aveva anticipato in campagna elettorale (“se si perde a Milano, perde Berlusconi”). Non è poi un segreto che il Pdl dell’ultimo periodo è tutt’altro che una monade. Le diverse anime del partito hanno digerito malvolentieri l’operazione che ha portato i Responsabili al governo, sia perché il numero delle poltrone assegnate è stato giudicato sproporzionato, sia perché sono state frustrate le ambizioni di parecchi parlamentari pidiellini. Il correntismo si è così ringalluzzito, determinando l’accentuazione dell’instabilità interna e il rabbocco di carburante nei serbatoi degli scontenti. Su tutti, Scajola e Miccichè danno apertamente segni di insofferenza e reclamano maggiore considerazione.
In alcune realtà, l’analisi del risultato elettorale accentua i motivi di inquietudine. A Reggio Calabria, l’affermazione del centrodestra ha infatti il sapore lievemente aspro di una vittoria personale del governatore Scopelliti sui maggiorenti romani, primo fra tutti il deputato Nino Foti. Da questo punto di vista, il dato del Pdl al Comune, superiore di circa nove punti percentuali rispetto a quello della Provincia, è l’indizio inequivocabile del riemergere del contrasto già manifestatosi al momento della scelta di Raffa a candidato e accantonato per le esigenze della campagna elettorale.
Diversi opinionisti hanno rilevato che il berlusconismo potrebbe tramontare laddove ha avuto origine. E forse non è casuale che a decretarne la fine sia una coalizione guidata da un candidato con il curriculum di Giuliano Pisapia, il quale, prima di imporsi sulla destra, come capitò a suo tempo a Nichi Vendola, ha dovuto conquistare le primarie e superare la diffidenza del Partito democratico.
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Il silenzio è d’oro

E ora silenzio. Finalmente! Non se ne poteva più. Il circo sta per smontare le tende, le curve dello stadio si stanno svuotando, i protagonisti si prenderanno un paio di giorni di riposo. Da lunedì, si ricomincia con i commenti post-elettorali. Le consuete dichiarazioni con le quali tutti si dichiareranno vincitori e nessuno ammetterà la sconfitta. Nell’attesa, abbiamo assistito all’ennesima conferma di quanto triviale sia diventato il dibattito politico in Italia. In barba alle quotidiane esortazioni al fair play fatte dal presidente della Repubblica. È proprio il caso di dirlo: in cauda venenum. Lo ha sperimentato sulla propria pelle il candidato a sindaco di Milano per il centrosinistra, Giuliano Pisapia, per bocca della rivale Letizia Moratti, trasformatasi in una Santanché qualsiasi pur di sputare fango e falsità sull’avversario, all’ultimo secondo per impedirne la controreplica. Da manuale. Talmente abnorme nelle accuse da suscitare l’imbarazzo e i distinguo di diversi esponenti del suo stesso schieramento.
L’impressione è che l’unico a godere nel clima arroventato di questa chiusura di campagna elettorale sia proprio Berlusconi, che da anni trascina imperterrito il Paese nel gorgo in cui soltanto lui riesce a sguazzare beato. Prima ha riproposto il tema sempreverde della spazzatura napoletana, per la quale sarebbero colpevoli nientemeno i giudici. Un buffetto, in confronto alla dichiarazione che qualche giorno addietro aveva scatenato un putiferio (“un cancro da estirpare”). Quindi si è catapultato a Crotone per tirare la volata a Dorina Bianchi e ha sferrato l’ennesimo attacco alla costituzione, rea di prevedere pochi poteri per il presidente del consiglio e molti per il capo dello Stato. Le considerazioni politiche si sono concentrate sulla scarsa cura dell’igiene personale tipica dei comunisti, ma non hanno toccato l’arcinota barbarie della preferenza dei rossi per lo stufatino di bambini innocenti. Ha inoltre squadernato l’abusato libro dei sogni, anzi delle ricette cucinate in salsa pitagorica: aeroporto, statale 106, porto. Per ripetere la cantilena già sentita a L’Aquila e a Lampedusa mancavano il casinò, l’ospedale, il campo da golf e l’acquisto di un palazzo storico. Ribadita, ovviamente, la responsabilità di Fini e di Casini sull’inazione dei suoi governi, per il tripudio del Palamilone e l’imperturbabilità della candidata a sindaco. D’altronde, quella vecchia volpe di Loiero, uno che di migrazioni se ne intende, ha vaticinato il prossimo approdo della deputata Udc al Pdl. Per comprendere a cosa si sia ridotta la politica è sufficiente leggere il “fuori onda” riportato da Fabrizio Ronconi sul Corriere della Sera: “Siamo fuori intervista, no? Beh, allora, scusi: tra Cesa e Berlusconi, secondo lei, chi è che mi riempie un palazzetto dello sport, eh?”. Chissà, tra qualche anno si potrebbe arrivare a tenere le elezioni con il televoto, dopo tre mesi di convivenza dei candidati all’interno della casa del Grande Fratello.
La campagna elettorale rappresenta uno dei rari momenti in cui i politici, ricordandosi che in fondo allo stivale esiste una regione, fanno un po’ di ipocrita passerella. Per dire, hanno fatto la loro apparizione anche il ministro dell’economia Tremonti, finito dietro la lavagna dopo essere stato colto impreparato sulla questione del porto di Gioia Tauro, e quello della pubblica amministrazione, Brunetta, che addirittura si è autoproclamato “ministro della Calabria”, senza che nessuno degli astanti scoppiasse in una fragorosa risata. Osservazione finale (e scontata): le vicende locali sono per lo più passate in secondo piano e il voto, da amministrativo, si è trasformato in una verifica politica del governo (la ricerca di un nuovo equilibrio tra Pdl e Lega), ma soprattutto nel solito referendum pro o contro Berlusconi. Il terreno sul quale il premier riesce a dare il meglio di sé. O il peggio.
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C’è posto per te

Nel Parlamento subalpino prima e in quello italiano dopo, il ricorso a infornate senatoriali per rafforzare maggioranze traballanti costituiva una tecnica di governo ricorrente poiché, essendo il Senato di nomina regia e la Camera elettiva, non erano infrequenti i contrasti tra i due rami dell’assemblea legislativa. Soltanto nei tre governi preunitari guidati da Cavour tra il 1852 e il 1861 furono ben 158 le nomine di nuovi senatori, un esercito indispensabile per schivare il rischio di imboscate parlamentari, ma anche l’inizio di una tradizione istituzionale che in seguito avrebbe avuto largo successo. È stato Pierferdinando Casini a ridare attualità al termine “infornata”, commentando l’allargamento dell’esecutivo realizzato nell’ultimo consiglio dei ministri. Anche se là si trattava di nuovi senatori e qua di new entry al governo, il fine è analogo. Assicurare all’esecutivo una maggiore stabilità.
Alla Calabria è andata di lusso, con due sottosegretari da esibire come prova dell’attenzione del governo per la nostra martoriata regione: Antonio Gentile, noto per la candidatura di Berlusconi al premio Nobel per la pace, e Aurelio Misiti, ex tutto (Pci, Cgil scuola-università, assessore regionale con Chiaravalloti, Idv, Mpa). E gli altri? Luca Bellotti, Roberto Rosso, Catia Polidori e Gianpiero Catone sono pidiellini “di ritorno”, pentiti dell’iniziale adesione alla svolta finiana e rapidamente rientrati all’ovile. Meritavano un premio. Daniela Melchiorre, già sottosegretario con Prodi, il 14 dicembre aveva votato per fare cadere il governo, ma si sa: i tempi della politica sono velocissimi. Anche le conversioni. Roberto Villari e Bruno Cesario provengono invece dal Pd, così come Massimo Calearo, neo consigliere personale del presidente del consiglio per il commercio estero. Nessuna sorpresa, soprattutto per Calearo, la cui “nomina” in Parlamento, fortemente voluta da Veltroni, aveva fatto storcere il muso alla base dei democratici, per nulla convinta di essere rappresentata dall’imprenditore vicentino.
La ratio delle nomine è stata spiegata dal premier: era necessario sostituire i membri del governo dimessisi dopo il passaggio all’opposizione ed “era logico assegnare quei posti al gruppo che ha sostituito Fli”. Un così elevato numero di poltrone assegnato ad un gruppo dall’indefinita forza elettorale induce però inevitabilmente alla malizia, di certo non stemperata dall’ulteriore infornata preannunciata per soddisfare gli appetiti degli esclusi. Affinché il governo duri, occorre accontentarli uno ad uno. C’è poi un piccolo dettaglio da considerare: tra i cosiddetti “responsabili”, alcuni provengono da formazioni diverse rispetto a quelle presentatesi agli elettori. Proprio per questo Napolitano ha invitato il Parlamento ad esprimersi sulla nuova situazione. Non un voto di fiducia (ce ne sono stati diversi dal 14 dicembre scorso), ma un passaggio necessario perché, per il funzionamento degli istituti democratici, la forma vale quanto la sostanza e occorre chiarire nella sede opportuna quali sono i limiti della maggioranza.
Berlusconi sta attraversando la sua fase di maggiore debolezza. Lo si evince anche dalla scomposta reazione all’invito del capo dello Stato. Tuttavia, è desolante l’inconsistenza dell’opposizione, capace di dividersi su tutto, come la recente vicenda delle mozioni sull’intervento in Libia ha confermato. Lo scollamento tra Pd e società, il massimalismo dipietrista, Vendola-Calimero, l’ambiguità di Casini (all’opposizione a Roma, al governo in molte realtà locali) e l’incognita Fli. In un contesto del genere, i pericoli per il presidente del consiglio possono venire soltanto da una congiura interna. Gli altri possono soltanto fare il tifo per Bruto.
 
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Il presidente bifronte

Dovrebbe pur esistere una via di mezzo tra il baciamani e lo sganciamento delle bombe. Per un governo che non sia schizofrenico, la normalità è data dalla coerenza delle azioni con la strategia politica. Quando c’è. Sta tutta qua la differenza tra una visione di ampio respiro della politica estera e un approccio estemporaneo, approssimativo e privo di un’idea di fondo. Da più parti è stato evidenziato l’eccesso di riverenza manifestato dal governo nelle due visite di Gheddafi in Italia, quando addirittura si tollerarono le lezioni sul Corano propinate dal rais a un uditorio di modelle appositamente retribuite e le bizze da autentica star, dalla tenda a Villa Pamphili agli indecenti ritardi negli appuntamenti istituzionali. Real politik, si dirà. Può darsi. La stessa, forse, che ha indotto Berlusconi a “non disturbare” il suo amico nei giorni iniziali della sollevazione del popolo libico.

Il premier ha una concezione molto forte dell’amicizia e la ribadisce in ogni circostanza, si tratti di una telefonata in questura per fare rilasciare la nipote di Mubarak o di 150.000 euro dati ad una giovane perché possa completare gli studi universitari. E poi adora mostrarsi simpatico e confidenziale, non nascondendo di subire malvolentieri le imposizioni dettate dal protocollo che spesso e volentieri strapazza. La pacca sulle spalle dell’interlocutore costituisce da sempre il suo inconfondibile brand, cui vanno aggiunti l’ormai celebre “cucù” ad Angela Merkel, il gesto delle corna nelle foto ufficiali e una barzelletta estratta a caso dal suo vastissimo repertorio.
Un cambio di direzione così repentino esigerebbe quindi una spiegazione. Non più tardi di due settimane fa, il presidente del consiglio aveva categoricamente negato la possibilità di una partecipazione italiana ai bombardamenti (“facciamo già abbastanza”). E sono agli atti, per così dire, gli attacchi dei giornali filogovernativi al protagonismo di Sarkozy, paragonato senza mezzi termini a un novello Napoleone promotore di una moderna e avventata campagna d’Africa per ragioni di politica interna.
L’escalation militare ha pertanto scatenato i dietrologi sugli inconfessabili e indefiniti interessi che supporterebbero la svolta berlusconiana. Ma ha fatto anche affiorare il mal di pancia leghista, ultimamente acuito dal timore di un ridimensionamento elettorale alle prossime amministrative. A sentire alcune dichiarazioni, la rottura sembrerebbe imminente, ma si sa che Bossi è incline allo strappo temporaneo, per cui si dimostra in prima battuta roboante e apocalittico, per poi rivelarsi accomodante e   ragionevole. Anche se alza la voce, definisce Berlusconi “guerrafondaio”, si fa negare al telefono e ispira l’aggressiva campagna di stampa del giornale di partito “La Padania” contro il berlusconiano “Il Giornale”, il leader della Lega non ha alcun interesse a provocare una crisi di governo. Ha invece la necessità di arginare l’unilateralismo del premier, che può creare qualche contraccolpo alle urne. Da qui la richiesta di convergenza sulla mozione leghista. Di ragioni ideali c’è davvero poco.  
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Fischi e fiaschi

I fischi non sono una manifestazione di pensiero political correct. Su questo non si può che concordare. L’abusatissimo “non sono d’accordo con quello che dici ma darei la vita perché tu lo possa dire”, aforisma attribuito per comodità a Voltaire e pietra miliare della filosofia liberale, non ha avuto applicazione in occasione delle celebrazioni per la festa della Liberazione. A leggere i resoconti di quanto accaduto a Milano e a Roma il 25 aprile, l’intolleranza (minoritaria) di alcuni partecipanti ha vanificato l’invito alla concordia e all’unità auspicate dal presidente della Repubblica.
Sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista, condannando le contestazioni che puntualmente si ripetono da diversi anni a questa parte, ha parlato di “snaturamento di una data che dovrebbe essere celebrata con lo stesso spirito concorde che ha animato il centocinquantesimo compleanno della nazione italiana”. Un paragone approssimativo, a mio modo di vedere. Non so a quali manifestazioni si riferisse Battista, ma chiunque abbia seguito quella vicenda è in grado di verificare come, purtroppo, le cose siano andate diversamente. Dalle polemiche interne alla stessa maggioranza governativa sulla chiusura di scuole e uffici pubblici, alle dichiarazioni leghiste sull’opportunità stessa di festeggiare, tutto si è visto, tranne che unità di intenti. Tra secessionisti dell’ultima ora, borbonici di ritorno, meridionalisti più o meno di comodo fautori di una copiosa letteratura antiunitaria, le celebrazioni hanno innescato dispute ai limiti della decenza. Abbiamo potuto leggere anche sui quotidiani locali notizie riguardanti storici che, in qualche convegno, hanno preferito abbandonare il tavolo dei relatori per non dovere ascoltare talune filippiche dalla controversa attendibilità scientifica.
Al di là di queste considerazioni, le parole di Battista richiedono però un’ulteriore riflessione. Non si può nascondere che di politicamente corretto, in Italia, sia rimasto ben poco. L’urlo sembra essere assurto ad unità di misura del pensiero, tanto che il “cosa” è stato soppiantato dal “come” viene detto. L’innalzamento esponenziale dei decibel nelle discussioni esprime l’incapacità di parlarsi da parte delle tifoserie che da 17 anni occupano gli spazi della politica. I fischi potrebbero pertanto rappresentare un modo, certo discutibile, per difendere quei valori definiti da Giorgio Napolitano “punti di contatto” tra Risorgimento e Resistenza (libertà, indipendenza e unità), che agli occhi di una fetta di opinione pubblica appaiono quotidianamente minacciati. Perché si fa fatica a considerare una coincidenza fortuita il contemporaneo attacco ai due eventi cruciali della storia italiana contemporanea. La demolizione culturale delle ragioni che a lungo hanno tenuto unito il Paese passa anche dai manifesti di chi paragona i giudici alle brigate rosse, dalle iniziative parlamentari volte a riscrivere l’articolo 1 della nostra Carta fondamentale per assoggettare alle maggioranze parlamentari tutti gli altri organi costituzionali, dal disinteresse per i risvolti che può avere sulla tenuta democratica dello Stato l’operazione di salvataggio del premier dalle sue grane giudiziarie. Probabilmente, è contro tutto questo insieme di cose che i contestatori, forse in maniera scomposta, hanno voluto fare sentire la propria voce.

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Votantonio

Non invidio affatto i cittadini di Reggio, costretti ad inventarsi gli stratagemmi più incredibili per schivare gli assalti dell’esercito di candidati che, fino al 15-16 maggio, batteranno anche le vie solitamente meno frequentate della città. La lotta per conquistare la poltrona di Palazzo San Giorgio vedrà infatti impegnati 6 candidati a sindaco, supportati da 25 liste, per un totale di 746 candidati a consigliere comunale. A cui vanno aggiunti i 224 candidati delle 28 liste per le elezioni provinciali, presenti negli 8 collegi cittadini. Quasi un candidato ogni 160 elettori.

Voci incontrollate provenienti dal capoluogo riferiscono di vere e proprie ronde impegnate in estenuanti battute di caccia, con i fiancheggiatori a fare da corona al candidato che con passo sicuro incede al centro del gruppo. È un porta a porta asfissiante, nessun campanello viene risparmiato e a tutti viene consegnato il gadget del momento: un santino il cui testo, sciolte le briglia alla fantasia, in genere viene partorito al termine di interminabili notti insonni. Irraggiungibili le vette toccate altrove (su tutte: “Michele Dell’Utri. Non sono parente” e “Fabrizio D’Addario. Non sono una escort, ma mi candido lo stesso”), ma il divertimento è comunque garantito.
Immagino il povero elettore reggino uscire dal portone della propria abitazione con fare circospetto, imbacuccato per non farsi riconoscere, a dispetto del primo caldo. Uno sguardo a destra, uno a sinistra e zac!, di corsa sulla macchina, dove finalmente può tirare un sospirone di sollievo per lo scampato pericolo, non prima però di avere bloccato gli sportelli dall’interno.
A noi eufemiesi, per questo giro, è andata meglio, unicamente perché qui si vota soltanto per la Provincia. Certo, ci sono 28 candidati, ma la maggior parte di essi sono dei perfetti sconosciuti. Non lo sono ovviamente i due compaesani, entrambi schierati con la coalizione di centrodestra che appoggia Giuseppe Raffa: Saverio Garzo (lista Sud), da decenni vulcanico organizzatore di riuscitissime iniziative estive e attualmente consigliere comunale nel comune di Asso (Como) e Pietro Violi (Socialisti uniti), a lungo presidente della Pro-Loco eufemiese. Tra gli altri aspiranti inquilini di Palazzo Foti, sono abbastanza conosciuti tre sostenitori di Raffa: l’attuale sindaco di Oppido e presidente della Comunità montana versante tirrenico meridionale, Bruno Barillaro (Udc); il suo sfidante alle passate comunali, Domenico Giannetta (Pdl); Orlando Fazzolari (Scopelliti presidente), accidentalmente vice sindaco di Varapodio, ma soltanto perché la normativa vigente vieta tre mandati consecutivi. Due i volti noti in appoggio alla coalizione di centrosinistra capeggiata dall’uscente Giuseppe Morabito: Santo Gioffrè, assessore provinciale di Rifondazione comunista e Antonio Frisina, del Pd; altrettanti a sostegno di Pietro Fuda, candidato per il terzo polo: il consigliere provinciale uscente Domenico Fedele (Fuda presidente) e l’habitué Carmelo Vitalone (Autonomia e diritti). Ha invece lasciato campo libero, preferendo non ricandidarsi, il consigliere provinciale Carmine Alvaro, eletto nel 2006 con i socialisti della Rosa nel pugno. Per la gioia dei suoi rivali, che non dovranno fare i conti con il candidato più votato a Sant’Eufemia cinque anni or sono.
Le logiche che guidano le scelte nelle elezioni locali sono essenzialmente due. Quella dell’appartenenza (o dell’ideologia, come si diceva un tempo), che vive un periodo di appannamento, e quella del rapporto personale con il candidato, magistralmente espressa dal detto: “mi suꞌ pidocchi, ma mi suꞌ di nostri”. Ma c’è anche una terza via, indicata da Enzo Jannacci e valida nei casi in cui, avendo promesso il voto a tutti, si è quasi costretti a recarsi almeno al seggio. La praticano i tanti che, ritenendo che “la politica l’è una roba sporca (…), votano scheda bianca per non sporcare”.

 

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La strana coppia

Fa un certo effetto leggere sul “Corriere della Sera” un intervento firmato da due parlamentari di primo piano appartenenti a forze politiche contrapposte. Ma induce anche ad uno sforzo interpretativo supplementare, per non ridurre la proposta ad estemporanea esternazione di due politici emarginati dai loro stessi partiti di provenienza. Se un politico navigato come Beppe Pisanu, ex pupillo del segretario della Dc Benigno Zaccagnini negli anni di piombo, ora senatore del Pdl e presidente della Commissione parlamentare antimafia, mette la firma (e la faccia) accanto a quella dell’ex segretario del Pd, Walter Veltroni, qualcosa bolle in pentola.
L’interpretazione letterale orienta verso una replica della ciclica riesumazione del progetto di un governo di responsabilità nazionale, una soluzione emergenziale per rasserenare l’incandescente clima politico puntando alla realizzazione di pochi punti, tra i quali la riforma dell’attuale legge elettorale. Da questo punto di vista, niente di inedito o che non sia già stato preparato in tutte le salse e puntualmente rispedito in cucina. Per dirlo con le parole dei due politici: “uniti sui valori fondanti e sulle regole del gioco, divisi sul resto”. C’è il richiamo all’esigenza di superare un “bipolarismo immaturo e litigioso”, per dare l’avvio ad “una nuova stagione politica ed istituzionale” in cui non si governi “contro” qualcuno, ma “per” l’Italia. La sottoscrizione in tempo reale da parte di quanti (Terzo polo) già in passato avevano avanzato proposte analoghe non poteva che provocare la reazione stizzita della maggioranza, espressa con la consueta e notoria eleganza dal leghista Calderoli.
A naso, la proposta di Pisanu e Veltroni appare poco realistica perché non sembra tenere conto di un dato di fatto incontrovertibile. La presenza sulla scena politica di Berlusconi. Che non si trova lì per un accidente della storia, ma per tantissime cause concatenate, non ultima la preferenza espressa in suo favore dagli elettori. E che soprattutto non ha alcuna intenzione di farsi da parte. C’è qualcuno in grado di dire al presidente del consiglio che è giunto il momento di togliere il disturbo? Forse soltanto Gianni Letta o Fedele Confalonieri, ma in un clima meno avvelenato dell’attuale. Lo stadio in cui si fronteggiano le opposte tifoserie allestito davanti al tribunale di Milano sembra indicare altro. Un contesto esacerbato, che trova conferma nell’improvvida uscita del professore Alberto Asor Rosa. Irresponsabile e controproducente, visto che affermazioni del genere fanno il gioco del premier, un vero campione nel presentare se stesso come vittima perseguitata da nemici desiderosi di abbatterlo con qualsiasi mezzo.
Per confutare l’impressione di velleitarismo suscitata esiste un solo modo: la coerenza tra le parole e le azioni. Il senatore Pisanu abbandoni insieme ai suoi non pochi fedelissimi la maggioranza, faccia cadere il governo e assuma l’iniziativa della prospettata nuova fase.

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Chi sgobba, chi ride e chi piange

Per chi non avesse consultato l’albo pretorio sul sito web, il consiglio comunale di ieri poteva benissimo rientrare nella categoria delle riunioni carbonare. E pensare che la trasparenza era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, quando si favoleggiava addirittura di un ufficio stampa e di pubblicazioni periodiche sull’attività amministrativa del Comune. L’affissione per le strade del paese della convocazione del consiglio comunale doveva proprio rappresentare il segnale di un nuovo corso. È stato così fino a quando (casualità?) le acque non si sono agitate e si è cominciato ad economizzare sulla carta, prima affiggendo soltanto un manifesto dentro il Palazzo municipale, quindi eliminando anche quello.
Il primo punto all’ordine del giorno prevedeva la surrogazione di Eufemia Surace, presidente del consiglio dimessasi due mesi fa nell’indifferenza più completa, come se fosse normale che tre componenti, uno dopo l’altro, abbandonino il consiglio comunale. Un dovere di chiarezza che per la verità non hanno avvertito i consiglieri dimissionari per primi, almeno pubblicamente, nemmeno nei confronti dei propri elettori.
Torna così tra i banchi comunali “mastro” Mimmo Fedele, figura storica di amministratore che, dopo mezzo secolo, tra un anno dirà addio alla politica attiva dalla poltrona di presidente del consiglio. L’apertura di una discussione infinita, con botta e risposta tra il sindaco e i consiglieri di minoranza Creazzo e Papalia, ha dato vita ad un siparietto a tratti comico. Creazzo ha vestito i panni di alzatore, secondo l’eccellente tradizione pallavolistica italiana che da Fefè De Giorgi e Paolo Tofoli conduce a Valerio Vermiglio. E il sindaco non si è fatta sfuggire l’occasione per chiudere il punto. Ma si può citare come esempio di mala amministrazione la vicenda del campo di calcetto realizzato dalla passata maggioranza, quella dei propri colleghi di lista? Una struttura non collaudata, inaugurata in pompa magna per ragioni elettorali, abbandonata a se stessa e mai utilizzata. Eppure è accaduto.
Altra bizzarria, la votazione di un “ordine del giorno sulla crisi che investe il settore dell’agricoltura”, sui contenuti del quale nessuno ha proferito parola. Cosa sia stato deliberato, in concreto, resterà un mistero. Approvati infine lo schema di convenzione per la gestione associata di una stazione unica appaltante provinciale, gli oneri di urbanizzazione e lo scioglimento della convenzione di segreteria con il comune di Melicucco.
C’è stato anche il tempo per un’escursione sul terreno spinoso della centrale per la biomassa, quella dei settanta posti di lavoro propagandati in campagna elettorale, tanto per intendersi. A Papalia viene da ridere ogni volta che se ne parla, ma i giovani eufemiesi si sganasciano di meno. Il nuovo annuncio indica ottobre come possibile data di inizio dei lavori. Un risultato costato fatica reale, secondo quanto dichiarato dal sindaco: 240 kg di carta portati personalmente dallo scantinato di un palazzo della regione all’assessorato competente. Per fare il sindaco ci vuole davvero un fisico bestiale.

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Il senso del pudore

Possono girarci e rigirarci attorno quanto gli pare. Spaccare il pelo in quattro dopo averlo trovato nell’uovo. Accampare tutti i sentimenti di riconoscenza e di devozione di questo mondo. Insistere con la tiritera delle toghe rosse e dell’ineluttabilità delle barricate contro il golpe giudiziario. Rispolverare la blasfemia costituzionale dell’asservimento della magistratura al governo, in spregio alla classica tripartizione dei poteri.
La sostanza del voto alla Camera del 5 aprile però non cambia. Trecentoquattordici deputati hanno ritenuto legittima la richiesta di sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria (Procura della Repubblica e giudice per le indagini preliminari di Milano) per spostare il processo “Ruby” dal Tribunale di Milano al Tribunale dei ministri, sulla base di una motivazione che sta rendendo l’Italia ridicola agli occhi del mondo intero. Quando Berlusconi telefonò in questura per chiedere il rilascio della minorenne marocchina, stava esercitando le sue funzioni istituzionali di premier, in quel momento preoccupatissimo per la possibile crisi diplomatica che poteva scoppiare con uno stato estero. Già, perché il presidente del consiglio, vecchio credulone, aveva dato credito alla fanfaluca di un’avvenente giovinetta che si era dichiarata nipote del leader egiziano Mubarak. E poiché Berlusconi agiva nell’esercizio delle sue funzioni di premier, suo giudice naturale è il tribunale dei ministri.
Altro che facce di bronzo. Qua non è rimasta nemmeno la faccia. E nessuno che consideri un orizzonte più distante delle scadenze giudiziarie del premier. O che dica la verità sull’unica vera, reale e spudorata ragione: impedire lo svolgimento del processo, visto che il Tribunale dei ministri per procedere ha bisogno dell’autorizzazione della Camera dei deputati. Sì, ciao: come non detto.
Non rappresenta un bel segnale per la democrazia la possibilità che sia la maggioranza parlamentare a stabilire la verità dei fatti. Secondo quella stessa logica populista che vede nell’eventuale condanna di Berlusconi il sovvertimento del voto popolare. Come se il consenso elettorale possa garantire a chicchessia l’impunità. Quel che diranno gli storici del futuro sull’era berlusconiana non è possibile saperlo, anche se non sembra complicato intuirlo. Per il presente, non è forse inutile conoscere i nomi dei deputati calabresi che hanno avallato questa castroneria: Francesco Nucara, Santo Versace, Giovanni Dima, Giancarlo Pittelli, Jole Santelli, Lella Golfo, Giuseppe Galati, Michele Traversa, Ida D’Ippolito, Antonino Foti (tutti del Pdl), Elio Belcastro (“Iniziativa responsabile”) e Aurelio Misiti (ex Idv, ex Mpa). Così, tanto per avere un’idea nel caso che un giorno si possa nuovamente scegliere tra diversi candidati e non limitarsi a ratificare una lista di nominati.

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Un terzo polo senza i partiti del terzo polo

Forse non hanno alcuna somiglianza con i “quattro straccioni di Valmy” evocati da Francesco Cossiga per dare una pennellata di romanticismo ad uno dei molteplici tentativi di ricostruire attorno alle forze di centro l’asse portante del sistema politico italiano. Fatta la tara delle ambizioni e delle rivendicazioni personali (senza dubbio presenti), l’idea di fondo non dista molto dalla concezione che indica nella soluzione “centrista” l’esito costante dello scontro politico in Italia. Il “connubio” di Cavour e Rattazzi, il trasformismo depretisiano, Giolitti, lo stesso fascismo (con Mussolini nel ruolo di mediatore tra ras locali, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, reduci, corporativisti), prima ancora della “balena bianca”, dimostrano come – al di là degli interpreti – lo schema di gioco sia sempre lo stesso da centocinquanta anni.
Certo, a livello nazionale l’esperimento della provincia reggina sta passando quasi inosservato. E non potrebbe essere altrimenti. A meno che i vertici dell’Udc non riescano ad essere convincenti nel dichiarare cosa, se non le poltrone, impedisce di fare a Reggio ciò che Casini va predicando da due anni in giro per tutta Italia.
Il Polo civico raccoltosi attorno a Pasquale Tripodi, Pietro Fuda e Giuseppe Bova, per come si è costituito, presenta delle differenze sostanziali rispetto al progetto originale del Terzo polo, poiché per certi versi (presenza di una componente proveniente dal Pd, quella di Bova) va addirittura oltre i confini stabiliti a livello nazionale. Se i detrattori vi vedono soltanto il tentativo di restare aggrappati alle poltrone messo in atto da una classe politica “vecchia”, i promotori ne sottolineano la rivendicazione di autonomia decisionale rispetto all’imposizione dall’alto, sottolineata dallo slogan “la nostra autonomia senza se e senza ma”.
È un dato di fatto che Tripodi e Bova sono fuorusciti da due partiti tradizionali. E che le scelte riguardanti i candidati a sindaco e presidente della provincia delle altre coalizioni sono causa di frizioni non meno forti con il livello romano. La vicenda del siluramento della candidatura di Luigi Fedele da questo punto di vista è sintomatica. È giunto forse il momento di una riflessione comune sui meccanismi di selezione della classe politica. I partiti non sono più palestra di niente. Men che meno sono utili per la formazione della classe dirigente del paese. Il loro declassamento al ruolo di comitati elettorali al servizio del leader di riferimento, se ci riporta all’Ottocento e alla lotta politica nella fase precedente lo sviluppo dei partiti di massa, ha anche come effetto il proliferare di cartelli coincidenti con le aspirazioni personali di candidati che, a Roma come nella periferia, consumano gli stessi stanchi riti.

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